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Autore: workingclassheroine    10/03/2016    3 recensioni
Aveva fatto della musica la propria vita, e aveva in seguito avuto la fortuna di farne anche il proprio lavoro.
Eppure, e questo George lo sapeva bene, gli mancava qualcosa.
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Goodbye.
Genere: Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altro personaggio, Quasi tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Grazie di tutto, George.



George Martin era il tipo di persona capace -quasi si vergognava a dirlo- di andare a lavoro il lunedì mattina con un sorriso stampato sulla faccia.
Ed era così anche di martedì, mercoledì, e giù fino al weekend, senza che qualcuno riuscisse a capacitarsene.
Si rischiava di restare abbagliati da tutta quella pazienza, quel buonumore e quella bontà, se non si stava attenti.
E poi la sua camicia era sempre stirata a dovere, la piega dei pantaloni perfettamente allineata e il viso rasato con cura.
Insomma, George era sicuro che se mai l'avessero ammazzato tutti i suoi vicini avrebbero dichiarato senza neanche pensarci "Era un buon uomo, agente, un vero pezzo di pane. Non aveva nemici, chi avrebbe potuto volerlo morto?".
Però, ecco, quando qualcuno voleva ferirlo -non che capitasse spesso, ma la gente cattiva è un po' ovunque e bisogna farsene una ragione- gli diceva quella frase. 
George se la era sentita ripetere solo quattro volte, nella sua vita, ma gli era rimasta incisa sotto pelle, come un fastidioso promemoria.
Salvo lievi variazioni da un bastardo ad un altro, la frase recitava così: "I produttori sono musicisti falliti che non hanno il talento per sfondare e si servono di quello degli altri".
Faceva male non tanto per la sottile e sadica vena di malvagità che i suoi interlocutori tentavano di mascherare con una risata scherzosa o una pacca sulla spalla, ma per la consapevolezza che, seppur in minima parte, avevano ragione.
Chiariamo: George Martin non aveva mai dubitato di essere stato creato appositamente per la musica.
Da quando per la prima volta, a otto anni suonati, aveva sfiorato i tasti eburnei di un pianoforte, non aveva più smesso di vivere di quella sensazione.
Cantava sotto la doccia, a voce alta, o picchiettava le dita a tempo contro il volante mentre aspettava che il semaforo gli desse il via libera, o faceva tintinnare il coltello contro i bicchieri per poi scusarsi immediatamente per la propria maleducazione.
Aveva fatto della musica la propria vita, e aveva in seguito avuto la fortuna di farne anche il proprio lavoro.
Eppure, e questo George lo sapeva bene, gli mancava qualcosa.
Non è che ci pensasse sempre, o che la cosa non lo lasciasse dormire la notte, ma ogni tanto, quando pensava alla propria carriera, veniva assalito da una cocente nostalgia.
Di cosa, non lo sapeva; era come la nostalgia di qualcosa che non era mai accaduto, qualcosa che avrebbe cambiato per sempre la sua vita, che la avrebbe resa leggendaria.
Era difficile da spiegare, e infatti George non lo aveva mai spiegato a nessuno, prima di allora.
Prima di quella assolata mattina di giugno, con Richards che continuava a ripetergli "Dammi retta, George, lasciali perdere. Hai visto come suona la batteria quel tipo?" e lo sguardo di quattro ragazzi nervosi e accaldati addosso.
Aveva ignorato quei saggi consigli, tanto per cambiare, e si era cortesemente messo a discutere con i- al diavolo, non era così importante ricordare il nome orribile con cui si erano presentati.
Certo, uno di quei ragazzini -una specie di chiodo con dei vestiti addosso- aveva appena insultato la sua bellissima cravatta, e le loro canzoni originali erano da buttar via e sputarci sopra subito dopo, e quel Best era una frana totale, ma c'era qualcosa, nell'aria.
Qualcosa di speciale, con uno strano retrogusto di nuovo inizio.
"Se volete seguirmi, possiamo rivedere qualche parte del contratto" aveva detto, e aveva sorriso con loro, e più di loro.
"Tutto sommato, Harrison, forse non dovremo pestarti appena usciti di qui" aveva riso uno dei cantanti -Jack? John? Qualcosa del genere- e aveva agguantato uno degli amici, quello che aveva osato commentare la sua cravatta.
"Lasciami, Johnny" aveva borbottato il ragazzino, liberandosi disgustato dalla presa dell'altro "E guarda che hai stonato, prima".
"Ha ragione" si era limitato a concordare un terzo, spostandosi i capelli corvini dalla fronte con un gesto elegante "Hai stonato".
John si era voltato verso George, perfettamente calmo "Signor Martin, le dispiace se rifaccio l'audizione da solista? Credo che la mia band si sia appena sciolta" aveva chiesto, fra le risate generali.
George aveva annuito, divertito "E come si chiamava, questa band, tanto per sapere?". 
"Ci facevamo chiamare Beatles" aveva ribattuto all'istante il ragazzo, con un sorriso orgoglioso "Band di enorme potenziale ma di terribili qualità umane, come avrà notato. Li ho mollati per questo. A parte McCartney, lui lo ho mollato perché non sapeva neanche tener dritta una chitarra". 
Ignorando la discussione che ne era seguita, George aveva sorriso fra sé e sé "I Beatles, eh?" aveva mormorato, soprappensiero.
E in quel momento capì. 

Aveva trovato il suo pezzo mancante.

  
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