- Mad Tea Party -
ATTO SECONDO, SCENA QUINTA
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Le Confessioni del Giglio Bianco
Si buttò sul letto di schianto e mai altro
letto gli era parso tanto morbido in vita sua. Annusò con calma le lenzuola
linde e gli venne da ridere e probabilmente lo fece da quel candido idiota che
era. Oddio non ci poteva credere di essere in una stanza chiusa e soprattutto
di avere Mana che si faceva la doccia nella stanza accanto. E naturalmente
stava pensando certe cose perché aveva bevuto e ovviamente quando beveva non
rispondeva più di se stesso. Non del tutto, perlomeno.
Mana gli aveva detto di voler fare la doccia
per smaltire la sbronza, e lui non è che avesse tanti motivi per dubitarne. Alla
fine, non erano finiti lì per fare chissà cosa. Per quanto in quella situazione
ci fosse una certa ambiguità di fondo che lo disturbava.
E in più, lui la sbronza proprio non l’aveva
smaltita in alcun modo. Chiuse gli occhi. Accidenti, che nottata si
preannunciava… ma se si azzardava a toccare Mana anche solo da lontano veniva
giù l’inferno poco ma sicuro, e lui non voleva ancora morire. Non in quel
momento almeno.
Sentì dei passi e un rumore di ciabatte battere
il pavimento rivestito di moquette color crema dell’albergo, e buttò là un
occhio stanco in tempo per vedere Manabu uscire dall’altra stanza coi capelli
neri e chilometrici ancora umidi e avvolto in uno degli accappatoi bianchi che
erano in bagno. Si costrinse a richiudere quell’occhio subito dopo, non tanto
per il mal di testa quanto perché aveva l’orrendo presentimento di stare per
arrossire come un peperone e la cosa poco gli piaceva. Avrebbe sensibilmente
detestato sentirsi tanto succube di un’altra persona in altre circostanze.
Eppure sentiva che invece a quella persona in particolare avrebbe permesso
qualunque cosa, e quella certezza sicura e così repentina lo sconcertava tanto
quanto lo colpiva. Perché la accettava come un qualcosa di totalmente naturale,
come uno stato di cose di cui era consapevole e che non gli interessava o non
aveva motivo di cambiare.
Si chiese quanto a lungo sarebbe durata quella
strana specie di infatuazione, perché sì, alla fine di quello si trattava.
Ripensò per un singolo istante alla prima volta
che l’aveva visto e a come quella figura solitaria che pareva mischiarsi col
mondo e allo stesso tempo uscirne e staccarsene quasi fosse venuto da un altro
tempo e da un altro luogo l’avesse attirato all’inverosimile, fin da subito.
« Tutto a posto? » si sentì domandare.
Era a posto?, si chiese.
Suppose di sì, tutti i suoi arti erano al loro
posto e ciò valeva anche per il suo stomaco – lo capiva dai segni di squilibrio
imminente che gli dava – ma non poteva dir lo stesso del suo cervello. Quello
stava ancora evidentemente pasteggiando in abbondanza a birra e champagne.
Oh, ma non aveva bevuto champagne.
No?
Non era tanto certo di ricordarlo.
Vide per un istante una luce vorticosa.
Strinse gli occhi come a volerla far sparire. Voleva farla sparire. Gli provocava
brutti pensieri.
Annuì con l’entusiasmo di uno che non ci crede
affatto.
« Sì… »
« Non mi sembri del tutto convinto. »
Manabu Satou voleva forse fare del sarcasmo?
« Secondo te… come faccio a essere convinto di
qualcosa in queste condizioni? »
Tentò di sollevarsi un poco puntellandosi su un
gomito ma il coraggioso tentativo gli riuscì solo in parte e si ritrovò di
nuovo lungo disteso sul letto. Solo più vicino di qualche centimetro al culo di
Mana che se ne stava lì seduto, nella fattispecie.
« Come siamo flosci, Camui. »
Ora te lo faccio vedere io se sono floscio, fu
il tremolante pensiero che corse dietro due iridi color nocciola per un istante
attraversate da un lampo di consapevolezza tale da far spavento.
Vide Mana girarsi, alzare un sopracciglio con
scarsa convinzione e sollevarsi di nuovo in piedi iniziando a passeggiare per
la stanza. Non sbandava neanche un pochino, eppure Gackt poteva dirsi quasi
certo che avesse bevuto quanto lui o giù di lì.
Ma come cavolo faceva a essere tanto in forma?
Gli aveva fatto bene la corsa, o la sbroccata di prima? Satoru Okabe sentiva
che avrebbe potuto passare l’intera nottata a chiederselo.
E in verità – e questa è una cosa che il
sunnominato Satoru Okabe avrebbe ignorato per sempre – Mana stava meglio non
per qualche sua abilità trascendentale ma semplicemente perché subito prima di
entrare in albergo aveva inventato una scusa e s’era allontanato trotterellando
sulle sue zeppe fino all’angolo di strada successivo, provvedendo una volta lì
a liberarsi dei “materiali in eccesso”… tradotto, a vomitarsi pure l’anima.
L’anima, il fegato, le budella e qualsiasi altra cosa fosse stata toccata da
quel che si era ingurgitato quella sera.
Ecco perché ora stava meglio.
« Vai a farti una doccia anche tu, dopo ti
sentirai un po’ più a posto. »
Sì, come se avesse avuto la minima voglia di
alzarsi.
E poi, cos’era quella vena di compassione
insita nel tono di voce di quella serpe malefica del sarcasmo?
« Non mi va. »
« Ma puzzi. »
Avesse potuto, probabilmente si sarebbe alzato
e l’avrebbe strozzato sul posto. Ma da quand’è che era diventato tanto
irriverente? Prima non era certo in quel modo! O forse in verità era ancora
sbronzo?
Bah, aveva decisamente rinunciato a capire
qualcosa di quel ragazzo.
Molto tempo dopo avrebbe detto che assieme
formavano un ritratto quanto mai squilibrato.
E be’, forse non era semplice vedere assieme un
ragazzo dai capelli lunghi e castani alto e robusto come un lottatore di
wrestling e una creatura seducente dalle chiome lunghissime e nere abboccolate
con meticolosa cura, che gli sedeva accanto con una postura a metà tra il
viziosamente scomposto e il superbamente elegante.
« Parla per te, che ti sei bevuto una
distilleria di whisky! »
Una smorfietta che curvò appena le sottili
labbra rosa.
« Non vedo come potrei puzzare, visto che mi
sono appena lavato. »
« Ah sì? Fammi sentire l’alito! »
E Gackt si alzò con uno scatto, o ci provò.
Tutto il suo corpo spasimò nello sforzo di tirarsi su fino a raggiungere Mana e
per un istante poté anche dire di avercela fatta.
Fu lì lì per esultare, ma a Manabu bastò
spostarsi di un centimetro per vanificare le sue speranze.
Crollò come un sacco con la testa e le braccia penzolanti
giù dalla sponda del letto.
Rimase in silenzio.
« …Camui? »
« …sto per vomitare. »
E nei suoi occhi gli sembrò di vedere Mana
sollevare perplesso un sopracciglio.
« Ora va meglio? »
Oh be’, poteva forse dire di stare meglio dopo
essere stato trascinato di peso fino al bagno ed essere stato riportato più o
meno traballando fino al letto, per poi finirci schiantato sopra modello pacco
da scaricare?
Ebbene sì, stava meglio.
Non certo per merito di Mana, che a dispetto
dell’eleganza che decantava aveva dei modi molto
più rudi di quel che appariva. Se stava meglio era solo perché finalmente
il suo stomaco aveva accettato – o almeno sembrava – di dargli un momento di
tregua. Certo dopo aver fatto tutto quello che voleva e come gli pareva.
« Ora sì che ci vorrebbero Takeshi e le sue
medicine antisbronza… »
Rantolò quella frase in un sospiro e fu certo
di essersi giocato il fegato.
« Ma poi ci romperebbe la testa a suon di
chiacchiere. »
Anche quello era vero, dovette dare di nuovo
atto che Manabu aveva ragione. Il chitarrista s’era di nuovo seduto esattamente
al punto di prima, e non dava segno di volersi muovere. Satoru avrebbe giurato
che quella schiena che vedeva fosse la schiena di un chitarrista
ventiquattrenne sommamente imbarazzato da quella situazione nel complesso ma
che tentava disperatamente di non darlo a vedere.
Così lui semplicemente lo fissò, fissò quelle
ciocche nere di ebano che gli scendevano lungo la schiena sperando che
preludessero a un minimo segno di vita del loro proprietario.
« Che hai da guardare? »
Sospirò e chiuse di nuovo gli occhi nocciola.
Non gli sfuggiva niente…
« Non ti stendi? »
Calò il silenzio.
Più che evidente che a Mana non andava di
rispondere e che la questione di dormire con lui la considerava alquanto
pruriginosa per non dire scomoda.
Della serie, da sbronzi può anche andare tanto dopo ti scordi di tutto, ma in
lui era ritornato già l’autocontrollo. Fin troppo.
« Be’ comunque sei stato davvero forte prima,
poco ci mancava che ammazzassi pure me! »
E finalmente, Manabu Satou si girò a guardarlo.
Dapprima con sconcerto, poi con una luce di
vaga rimembranza in fondo alle iridi nere.
« Perché, chi stavo ammazzando? Non me lo
ricordo bene. »
Oh, dèi del cielo.
Il trauma doveva essere stato proprio profondo
se aveva già rimosso tutto.
Oppure aveva davvero fatto tutto quel macello
sotto la spinta delle Malefiche Particelle Alcoliche – e sperava di sì visto
che lui stesso aveva rischiato di finire spiaccicato sotto qualche tavolo – e
se aveva rimosso tutto non era stato per il trauma ma per il semplice effetto
di una riottenuta sobrietà.
Quale che fosse la situazione, decise che non
era il caso di rivelargli che aveva una ciocca di capelli di meno.
Da dove l’aveva tirata fuori quella forza poco
prima Gackt se lo stava ancora domandando, ma comunque era questione di vita o
di morte (sua) che Mana non sclerasse in quel momento e in quella stanza.
Decise per cui di soprassedere anche sulla questione “si dorme o non si dorme”.
Tanto lui non avrebbe dormito in ogni caso,
soffriva di insonnia.
« Be’, che facciamo? » domandò, tanto per
stemperare un po’ l’atmosfera.
« Detta da te questa suona quasi come una
proposta oscena. »
Ecco, e ora chi era l’idiota dei due? Ancora
non ce l’aveva chiaro.
Tossicchiò un paio di volte poi si puntellò su
un gomito e lo guardò da sotto in su con un sorrisetto falso e ingenuo stampato
sulla sua splendida – modestamente – faccia da schiaffi.
« E se ti dicessi che lo è tu che faresti? »
Mana con sua grande delusione non parve
minimamente impressionato da quello sfoggio di feromoni maschili a potenza
massima.
« Ti direi di starmi lontano perché io coi miei
amici non ci scopo e con te men che meno. »
« Come siamo drastici. »
« Non è questione di essere drastici è
questione che è vero. »
E a quel punto a Gackt Camui venne un sospetto.
Un sospetto atroce.
Probabilmente aveva preso un grosso granchio a
ritenere che a Mana fosse passata la sbornia.
Tirò su col naso e restò perfettamente immobile
come se d’improvviso il chitarrista si fosse trasformato in un qualche strano
gigantesco serpente a sonagli.
E Mana lo guardò di nuovo.
Con sul viso un ghignetto sardonico che lo
spaventò più di mille altre risse come quella di prima.
Gackt sudò disperatamente freddo. Forse s’era
andato a cacciare in una situazione che alla lunga avrebbe preferito davvero
evitare.
Poi Mana gli fu addosso, rapidissimo.
Lo schiacciò contro il materasso e lui si
ritrovò con la testa sprofondata tra i cuscini rendendosi conto solo in quel
momento di stare esattamente sull’orlo di un precipizio. Ma esattamente a un
passo dall’andar di sotto.
« Naa… non va, te l’ho detto che sei floscio. »
Non si chiese dove lo stesse toccando e
soprattutto con cosa. Solo giurò che
non avrebbe più toccato una goccia d’alcol per… una settimana? Anzi no due
erano meglio.
Intanto quel demonio maledetto con gli occhi
neri gli stava ancora appiccicato addosso come un polipo e lo stava scrutando
con un certo sottile e beffardo interesse che sottintendeva che i guai non
erano ancora terminati.
« Senti ma… io ti piaccio? »
Oh cazzo. Oh cazzo. Oh cazzo oh cazzo oh cazzo
merda e cazzo un’altra volta!
« No perché sai… certe volte ho come
l’impressione che tu mi stia diciamo… corteggiando. »
Quella
non era un’affermazione del
tutto errata.
« Be’… magari sì. »
Un lampo di rabbia nell’iride nera gli fece
capire che la risposta non era aggradata a un Mana sempre più in là con la
testa.
« Che vuol dire magari sì? Guarda che ti riduco
all’impotenza razza di mentecatto! »
E Gackt ebbe la fulminea intuizione di spostarsi. Si drizzò seduto più
rapidamente che poté evitandosi una colossale scalciata di Mana diretta in modo
evidente alle sue parti basse.
Il crack che fecero le doghe del letto fu
qualcosa di spettacolare.
Evidentemente tanti anni di arti marziali a
qualcosa erano serviti… specie se si trattava di combattere la più splendida
creatura che avesse mai visto mentre era sbronza e potentemente inacidita.
« Mana… calmati, su. »
« Dammi una risposta chiara e io mi calmo. »
E che gli doveva rispondere, che gli piaceva ma
non era niente di serio?
Ora era lui che stava tornando sobrio.
« Senti, facciamo così. Ora tu ti stendi e ti
riposi un pochino, va bene? »
« Sì, così finisco violentato. »
« Veramente è passato il periodo in cui scopavo
tutti i giorni. »
« Minchia, allora avevo ragione che sei un
porco. »
Ma che era, a quel ragazzo si scatenava pure il
turpiloquio oltre alla vena perversa quando beveva?
« Ti ho anche detto che mi è passata mi pare.
Quel periodo della mia vita per tua informazione non ha superato la soglia dei
vent’anni. »
« Tsk. »
Tsk?
Mana gli sembrò all’improvviso più docile,
quasi che fosse stato disposto a ritrattare. Ma non ci credeva. Finché non gli
vedeva passare chiaramente la sbronza non avrebbe creduto più a niente. Così stette ad osservarlo con
una punta di sospetto quando lo vide arretrare fino al bordo del letto e
alzarsi in piedi sistemandosi la cintura dell’accappatoio attorno alla vita.
Gli parve per un istante che stesse minacciando
di levarselo quell’accappatoio.
Allora si chiese per la prima volta chi stesse
giocando a corteggiare chi.
E capì per intuito che la risposta non era così
semplice né così scontata.
La cosa lo preoccupò di striscio.
Aveva ben altro a cui pensare in quel momento.
Tipo osservare Mana che schizzava di nuovo di
corsa verso il bagno sussurrando un “mi sento male” strascicato e tenendosi le
mani premute davanti alla bocca.
Per qualche minuto regnò il completo silenzio,
e Gackt si sarebbe pure preoccupato se non l’avesse sentito tirare lo
sciacquone poco dopo. Almeno era ancora vivo, non era svenuto e non era
inciampato scivolando con le ciabatte sul tappetino del bagno e rompendosi la
testa contro il lavandino.
Si diede un cazzotto in faccia. Certo che lui
pure non scherzava in quanto a immaginazione.
Quando Mana tornò, massaggiandosi leggermente
le tempie con una mano, si guardarono.
« Ah, sto di merda », disse Mana.
« Non ti si addicono le parolacce », rispose
Gackt.
« E a te non si addicono espressioni come “mi
si addice”. »
D’improvviso, scoppiarono a ridere.
Come due grossi, enormi, indiscutibili cretini.
Poi, non seppe mai bene perché, Camui si fece
più serio. Iniziò a guardare la lampada sul soffitto, pensando a quella luce
luminosa e vorticante che poco prima gli aveva sconvolto lo sguardo e la mente
e ricordando quante altre volte l’aveva vista prima.
Sì, era accaduto la prima volta quand’era
piccolo.
Quando aveva sette anni.
« Tu… ti è mai capitato di pensare di morire? »
Lo chiese a Manabu quasi tanto per dire e
nemmeno certo di ottenere una risposta. Anzi, forse qualcun altro l’avrebbe
presa per la domanda di uno scemo in piena sbornia triste.
Mana attese qualche secondo prima di
rispondere, ma gli parve più un silenzio di riflessione che non un’imbarazzata
presa in giro.
« Forse sì. E chi è che non ci ha mai pensato
una volta nella vita? »
« Io stavo per annegare nel mare di Okinawa.
Avevo sette anni. »
Il chitarrista non replicò nulla, semplicemente
gli si sedette vicino sul letto e finse di perder tempo a sistemarsi a random
lunghe ciocche di capelli neri.
« Non ricordo il perché, so solo che a un certo
punto mi mancò la sabbia sotto i piedi e che la corrente era fortissima. E che
per quanto respirassi, mi entrava dentro solo acqua. E avevo tanta paura,
tantissima. »
Non interpretò il silenzio di Mana in alcun
modo, semplicemente continuò.
« E… a un certo punto non sentii più niente,
neanche un suono. E una sensazione di calore avvolgente mi circondò, come un
abbraccio. Come se mi stessi addormentando. Sapevo che sarei morto, ma era
incredibilmente bello essere sollevati in quel modo dal dolore e dalla paura. E
a quel punto apparve… una luce. »
« Luce? »
« Sì… una luce fulgida e brillante che si
muoveva come roteando su se stessa. »
E quella era stata solo la prima di tutta una
lunga serie di volte in cui quella medesima luce gli era apparsa, e lui aveva
capito che compariva quand’era vicino alla morte. E per un motivo o per un
altro, lui vicino alla morte c’era stato spesso da quel giorno nel mare di
Okinawa.
« E da quel momento… ora non ci crederai, ma…
ho iniziato a vedere delle cose. »
Si voltò per un istante verso Mana, solo per
vedere che non lo guardava ma se ne stava tranquillo e seduto ad ascoltare, con
gli occhi bassi e battendo solo le ciglia di tanto in tanto.
« Erano cose… cose morte. Io non riuscivo più a
distinguere le persone vive da quelle che non lo erano più. E ci parlavo,
perfino. E la gente se ne stupiva all’inizio, ma poi mi prendeva per pazzo. »
Ancora lo scrutò, come a voler cercare anche
nel suo sguardo la conferma che lo credeva un cretino, un folle. Ma Mana
semplicemente chinò il capo e inarcò le sopracciglia leggermente, invitandolo a
continuare. Non pareva sconvolto, né altro. Anzi – e Gackt non avrebbe saputo
dire se era l’effetto della troppa birra – sembrava un poco divertito da quel
racconto.
« Una volta parlai con mio zio, morto da tempo,
e quando i miei mi chiesero con chi stavo parlando e glielo dissi, loro risero.
Però io penso che semplicemente avessero paura di affrontarmi. Crescendo l’ho
imparato, che gli adulti finché possono cacciano la testa sotto la sabbia.
Finché non vedi va tutto bene, finché non te ne accorgi non c’è niente che non
va. Però a me sembra solo un modo di fare dettato da una sorta di codardia
dilagante, non so se mi spiego… non do la colpa di quel che mi successe ai miei
genitori solo perché probabilmente avrebbero reagito tutti così al posto loro.
»
« Che ti successe? »
Satoru corrugò appena la fronte e chiuse per un
attimo gli occhi. Tutto quel parlare gli stava facendo venire mal di testa,
eppure mai come in quel momento aveva sentito il bisogno di raccontare quelle
cose a qualcuno. Se non altro, a quanto sembrava Mana era disposto a starlo a
sentire senza ridere.
« Alla fine cominciai a essere considerato un
“bambino mentalmente disturbato”. La gente parlava di me, e io ad essere
sinceri non capivo un granché bene. Avevo sette anni e vedevo i morti. Solo che
proprio per questa ragione io la vita non ho mai capito cosa significhi. Invece
mi sono sempre interessato alla morte, proprio perché volevo capire. »
« E che cosa c’è da capire? »
« Uh? »
Manabu lo fissava con appena un velo di
apprensione su un viso dal trucco sfatto ma apparentemente attento e vigile.
« Voglio dire, io credo nella reincarnazione,
nelle vite precedenti, negli spiriti, credo a tutto quello che mi può rendere
la vita interessante. E alla fine penso che la morte non abbia tanto senso
andarsela a cercare, tanto gira che ti gira arriva da sola. E si muore una
volta sola. Per cui basta aspettare e avrai tutte le risposte che ti pare, non credi?
»
Scoppiò a ridere, passandosi una mano sul volto
stanco.
« Oddio, forse non sono tanto da me certi
discorsi. »
E invece magari erano proprio da lui.
Gackt se n’era accorto subito, che Mana faceva
tanto il sostenuto ma sotto sotto era molto meno ghiacciolo di quel che
appariva. Sempre che su di lui non si stesse sbagliando di grosso, s’intendeva.
« Comunque, continua. »
E Gackt continuò, obbedendogli senza
protestare.
« Be’, per farla breve… un giorno, a dieci
anni, ebbi un collasso. Crollai per terra con fortissimi dolori al ventre senza
riuscire a muovermi. »
Ricordava benissimo quel dolore, ricordava la
paralisi, ricordava come ogni minima fibra del suo corpo fosse stata tesa fino
allo spasimo nel tentativo disperato di contrastare il male o quantomeno di
impedire al se stesso bambino di morire soffocato.
« Sono stato portato all’ospedale e visitato in
ogni parte, ma le cause di quella crisi rimasero sconosciute. Mi dissero che
probabilmente avevo una qualche sorta di malattia infettiva, e mi isolarono.
Isolarono un bambino di dieci anni. »
Ed era stata tremenda, la solitudine di allora.
Isolato, confinato, lasciato in un reparto d’ospedale che somigliava piuttosto
a una prigione.
« E sai, Mana, qual era la cosa più tremenda
dello stare lì? Che ogni singola volta che facevo amicizia con un bambino del
reparto di pediatria, quel bambino moriva. Erano tutti come me, casi disperati,
bambini che non potevano fare altro che aspettare la morte e che era come se
non fossero mai nati. Parlando con loro o anche solo guardandoli aggirarsi
imprigionati nei corridoi del reparto, o perfino immaginandoli a consumarsi
nelle loro stanze, spesso pensavo “quel bambino domani morirà” e il giorno dopo
sentivo i passi delle infermiere andare giù fino alla hall e allora sapevo che
uno dei miei amici era morto. Quello era l’inferno, Mana. Era l’inferno. »
Gli si spezzò per un attimo la voce e allora
riprese fiato limitandosi a respirare profondamente per qualche istante. Non
era così piacevole ripensare a certi eventi, nemmeno per lui. Avrebbe tanto voluto
poterli dimenticare per sempre.
« Mi chiesi perché ero anormale e alla fine
capii che “normali” erano persone come i dottori, persone che i miei
consideravano corrette. E iniziai a comportarmi un po’ come loro. Venni dimesso
dopo qualche giorno. »
Non che per lui fosse mai cambiato davvero
qualcosa, comunque. Semplicemente, aveva sacrificato la sua felicità alla
propria sopravvivenza.
« So che è sbagliato e che probabilmente fu un
errore. Ma io in quell’ospedale non ci volevo ritornare. »
« Be’, è comprensibile direi. »
Non c’era traccia di pietà nella voce di Mana,
anzi c’era una sorta di vaga e incomprensibile tenerezza. Quel che era certo
era che non lo stava in alcun modo compatendo, e gliene fu immensamente grato.
« Sempre per questo motivo ho deciso che non
avrò mai figli. Ora non ne sono sicuro, ma credo che queste capacità si
trasmettano coi geni. E se avessi un figlio con le mie stesse capacità e
dovesse passare quello che ho passato io, non lo sopporterei. Assolutamente non
voglio che i miei geni siano replicati altrove. »
Mana non gli rispose, probabilmente perché
quell’argomento non lo interessava.
Gackt allora si alzò a sedere, sistemandosi
meglio accanto a lui.
Probabilmente sarebbe stata ancora molto lunga
quella notte, visto anche il fatto che Mana aveva preso a guardarsi le corte
unghie smangiucchiate e non sembrava essere particolarmente interessato a
metterci del suo in quel lungo racconto autobiografico che stavano mettendo su.
E tuttavia, dopo qualche minuto di silenzio
proprio lui parlò.
« Non c’è che dire. Sei interessante. Ma
interessante davvero. »
Gli fece perfino un occhiolino, cosa che
inquietò ed incuriosì un pelo Satoru, e tornò a pensare che in Mana c’era
qualcosa di davvero temerario ed incosciente a tratti. C’erano momenti – come
quello – in cui aveva gli stessi occhi meravigliosi di un bambino, quelli che
lui invece aveva perso troppo presto.
Il chitarrista s’alzò in piedi, e Gackt lo
guardò armeggiare con le ante degli armadietti della stanza. Avevano preso
quella più economica ma comunque il minimo indispensabile c’era.
« Avevo ragione. »
Fu la schiena di Mana a parlargli, mentre si
chinava a raccogliere qualcosa che gli era caduto a terra.
« Sei esattamente la persona di cui avevo
bisogno. »
Gackt si soffermò a guardare una volta di più
quei suoi splendidi capelli di ebano che coscienziosamente venivano ravviati
ancora e ancora dietro le orecchie, e di nuovo gli scappò un sospiro. Cielo se
era bello… sì, Mana era bello e lui era completamente andato.
Ah, ma probabilmente erano soltanto i fumi
dell’alcol che ancora indugiavano da qualche parte del suo cervello. Si ricordò
en passant che lui con quella persona
ci doveva suonare in una band e che – santo cielo – non era il caso di farci
altro.
« Che dici, ce la facciamo una tazza di tè? »
Mana s’era girato tirando su due tazze e
mostrando il bollitore che era dentro uno degli armadietti. Ah, altro che tazza
di tè…
Satoru si
costrinse a girarsi dall’altra parte per non guardarlo.
« Ehi! »
Niente da fare, Mana scherzava col fuoco e la
cosa divertente era che manco se ne accorgeva.
« Sto parlando con te, Camui. »
Stava iniziando a piacergli perfino quel modo
sdegnoso e vagamente irritante con cui pronunciava il suo “cognome” quando
aveva le palle girate. E tutto ciò era spaventoso. Spaventoso e pericolosissimo.
All’improvviso se lo ritrovò davanti, in
accappatoio e che lo guardava fisso con ancora in mano quelle due tazze da tè.
E insomma… era incantevole quanto la tentazione
che il serpente aveva offerto ad Eva nella religione cristiana. E santo cielo,
lui a quella mela un morsettino gliel’avrebbe dato volentieri.
« Non vedo perché no », mormorò.
E la stessa cosa l’aveva mormorata una certa
vocina maligna dentro di lui che tanto di buon grado avrebbe fatto tacere in
altre circostanze. No, non era così fesso. Non ancora. Forse.
Sentì appena i passi di Manabu che
s’allontanava di nuovo, presumibilmente per andare a fare quel tè.
S’alzò in piedi.
Sospirando lo seguì e quando gli fu alle spalle
gli toccò un braccio, costringendolo a girarsi fino a guardarlo.
« Tu prima… hai detto che con i tuoi amici non
ci faresti mai niente, vero? »
« Esatto. »
Si osservarono per un istante e negli occhi
luminosi di Mana lesse una certa aggressività che covava forse un disagio ben
più profondo e malamente espresso.
« Io invece ho scordato di dirti una cosa al
riguardo. »
« Cioè? »
« Che io i miei amici li bacio. »
E lo baciò davvero, afferrandogli con forza un
polso sottile perché non potesse scappare. Ma sbagliava, perché Mana non ci
provò nemmeno a scappare.
Fu un bacio lungo, pur senza un reale trasporto
da parte del chitarrista.
Quello Gackt lo sentì perfettamente, che Mana
non era né particolarmente sorpreso né particolarmente scocciato. Pareva anzi
che se lo stesse aspettando.
Era così, probabilmente, e Satoru trovò il
coraggio di abbracciarlo perfino.
Tanto, qualsiasi cosa fosse accaduta erano
ubriachi.
Non avrebbero ricordato più nulla, l’indomani.
Più nulla.
- continua -
N.d.A.
Come al solito mi trovo a dovermi scusare per il ritardo con cui posto questo
capitolo, dovuto più che altro a esami universitari + problemi personali che mi
avevano castrato l’ispirazione. Ma Madama Ispirazione (© Caleb XD) s’è rifatta
alla grande in questi ultimi tre giorni tenendomi su a scrivere fino alle
quattro del mattino, forte anche della mia ormai ben nota insonnia quasi
perenne. Insomma, questo capitolo è forse un po’ meno demente del precedente,
nonché forse più sconcio a causa dei pensieri turpi di Gackt Camui (riuscirà a
tramutarli in realtà?), però contiene comunque alcuni passi da tener presenti.
In primis, ho voluto raccontare un po’ dell’infanzia di Satoru, argomento su
cui avevo glissato nei capitoli precedenti ma che ha certamente un suo perché
nel dare spessore al personaggio. Poi, con questo capitolo dovrebbe concludersi
la prima metà del secondo atto, e di fatto finire la parte più strettamente
introduttiva della storia. Le basi sono state gettate, la band c’è, i
sentimenti pure, il morale è alto e i personaggi sembrano anzi più
collaborativi di quello che avrei sperato. Ringrazio tutti coloro che hanno
recensito la fan fiction finora e colgo l’occasione per rassicurarli che la
storia continuerà e verrà regolarmente portata a termine. Il finale ce l’ho in
mente, resta solo da vedere quando ci si arriverà. Io tenterò di attenermi al
ritmo iniziale di un capitolo al mese, e se eventualmente ci saranno ritardi
cercherò di contenerli il più possibile.
Mi
scuso di nuovo e vi invito a recensire (le vostre recensioni mi aiutano a galvanizzare
i personaggi che così collaborano ancora meglio e scusate se è poco! :P).
Grazie
di cuore a tutti.
Vitani