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Autore: Vitani    28/03/2009    7 recensioni
Questa è una storia d'amore, di odio, di una carriera musicale ed artistica, di una maturazione, di come gli incontri detti "del destino" possono cambiare la vita. È la storia di due ragazzi in particolare: Mana, un chitarrista, e Gackt, un cantante. Entrambi passionali, entrambi sognatori.
"Simile ad una fiaba è questa storia, dove una dama e un cavalier rincorrono l’amore con solerzia, pronti in nome di esso a dare tutto. Si leggeranno lacrime, amore, risate e fremiti di gelosia, d’angoscia e di paura. Saranno tormentosi i nostri canti, piene di gioia le risate, e se malinconia occuperà il cuore, ci basterà cantare una canzone."
Genere: Commedia, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri, Gackt, Mana
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Mad Tea Party -

- Mad Tea Party -


ATTO SECONDO, SCENA QUINTA
-
Le Confessioni del Giglio Bianco

 

 

 

 

Si buttò sul letto di schianto e mai altro letto gli era parso tanto morbido in vita sua. Annusò con calma le lenzuola linde e gli venne da ridere e probabilmente lo fece da quel candido idiota che era. Oddio non ci poteva credere di essere in una stanza chiusa e soprattutto di avere Mana che si faceva la doccia nella stanza accanto. E naturalmente stava pensando certe cose perché aveva bevuto e ovviamente quando beveva non rispondeva più di se stesso. Non del tutto, perlomeno.

Mana gli aveva detto di voler fare la doccia per smaltire la sbronza, e lui non è che avesse tanti motivi per dubitarne. Alla fine, non erano finiti lì per fare chissà cosa. Per quanto in quella situazione ci fosse una certa ambiguità di fondo che lo disturbava.

E in più, lui la sbronza proprio non l’aveva smaltita in alcun modo. Chiuse gli occhi. Accidenti, che nottata si preannunciava… ma se si azzardava a toccare Mana anche solo da lontano veniva giù l’inferno poco ma sicuro, e lui non voleva ancora morire. Non in quel momento almeno.

Sentì dei passi e un rumore di ciabatte battere il pavimento rivestito di moquette color crema dell’albergo, e buttò là un occhio stanco in tempo per vedere Manabu uscire dall’altra stanza coi capelli neri e chilometrici ancora umidi e avvolto in uno degli accappatoi bianchi che erano in bagno. Si costrinse a richiudere quell’occhio subito dopo, non tanto per il mal di testa quanto perché aveva l’orrendo presentimento di stare per arrossire come un peperone e la cosa poco gli piaceva. Avrebbe sensibilmente detestato sentirsi tanto succube di un’altra persona in altre circostanze. Eppure sentiva che invece a quella persona in particolare avrebbe permesso qualunque cosa, e quella certezza sicura e così repentina lo sconcertava tanto quanto lo colpiva. Perché la accettava come un qualcosa di totalmente naturale, come uno stato di cose di cui era consapevole e che non gli interessava o non aveva motivo di cambiare.

Si chiese quanto a lungo sarebbe durata quella strana specie di infatuazione, perché sì, alla fine di quello si trattava.

Ripensò per un singolo istante alla prima volta che l’aveva visto e a come quella figura solitaria che pareva mischiarsi col mondo e allo stesso tempo uscirne e staccarsene quasi fosse venuto da un altro tempo e da un altro luogo l’avesse attirato all’inverosimile, fin da subito.

« Tutto a posto? » si sentì domandare.

Era a posto?, si chiese.

Suppose di sì, tutti i suoi arti erano al loro posto e ciò valeva anche per il suo stomaco – lo capiva dai segni di squilibrio imminente che gli dava – ma non poteva dir lo stesso del suo cervello. Quello stava ancora evidentemente pasteggiando in abbondanza a birra e champagne.

Oh, ma non aveva bevuto champagne.

No?

Non era tanto certo di ricordarlo.

Vide per un istante una luce vorticosa.

Strinse gli occhi come a volerla far sparire. Voleva farla sparire. Gli provocava brutti pensieri.

Annuì con l’entusiasmo di uno che non ci crede affatto.

« Sì… »

« Non mi sembri del tutto convinto. »

Manabu Satou voleva forse fare del sarcasmo?

« Secondo te… come faccio a essere convinto di qualcosa in queste condizioni? »

Tentò di sollevarsi un poco puntellandosi su un gomito ma il coraggioso tentativo gli riuscì solo in parte e si ritrovò di nuovo lungo disteso sul letto. Solo più vicino di qualche centimetro al culo di Mana che se ne stava lì seduto, nella fattispecie.

« Come siamo flosci, Camui. »

Ora te lo faccio vedere io se sono floscio, fu il tremolante pensiero che corse dietro due iridi color nocciola per un istante attraversate da un lampo di consapevolezza tale da far spavento.

Vide Mana girarsi, alzare un sopracciglio con scarsa convinzione e sollevarsi di nuovo in piedi iniziando a passeggiare per la stanza. Non sbandava neanche un pochino, eppure Gackt poteva dirsi quasi certo che avesse bevuto quanto lui o giù di lì.

Ma come cavolo faceva a essere tanto in forma? Gli aveva fatto bene la corsa, o la sbroccata di prima? Satoru Okabe sentiva che avrebbe potuto passare l’intera nottata a chiederselo.

E in verità – e questa è una cosa che il sunnominato Satoru Okabe avrebbe ignorato per sempre – Mana stava meglio non per qualche sua abilità trascendentale ma semplicemente perché subito prima di entrare in albergo aveva inventato una scusa e s’era allontanato trotterellando sulle sue zeppe fino all’angolo di strada successivo, provvedendo una volta lì a liberarsi dei “materiali in eccesso”… tradotto, a vomitarsi pure l’anima. L’anima, il fegato, le budella e qualsiasi altra cosa fosse stata toccata da quel che si era ingurgitato quella sera.

Ecco perché ora stava meglio.

« Vai a farti una doccia anche tu, dopo ti sentirai un po’ più a posto. »

Sì, come se avesse avuto la minima voglia di alzarsi.

E poi, cos’era quella vena di compassione insita nel tono di voce di quella serpe malefica del sarcasmo?

« Non mi va. »

« Ma puzzi. »

Avesse potuto, probabilmente si sarebbe alzato e l’avrebbe strozzato sul posto. Ma da quand’è che era diventato tanto irriverente? Prima non era certo in quel modo! O forse in verità era ancora sbronzo?

Bah, aveva decisamente rinunciato a capire qualcosa di quel ragazzo.

Molto tempo dopo avrebbe detto che assieme formavano un ritratto quanto mai squilibrato.

E be’, forse non era semplice vedere assieme un ragazzo dai capelli lunghi e castani alto e robusto come un lottatore di wrestling e una creatura seducente dalle chiome lunghissime e nere abboccolate con meticolosa cura, che gli sedeva accanto con una postura a metà tra il viziosamente scomposto e il superbamente elegante.

« Parla per te, che ti sei bevuto una distilleria di whisky! »

Una smorfietta che curvò appena le sottili labbra rosa.

« Non vedo come potrei puzzare, visto che mi sono appena lavato. »

« Ah sì? Fammi sentire l’alito! »

E Gackt si alzò con uno scatto, o ci provò. Tutto il suo corpo spasimò nello sforzo di tirarsi su fino a raggiungere Mana e per un istante poté anche dire di avercela fatta.

Fu lì lì per esultare, ma a Manabu bastò spostarsi di un centimetro per vanificare le sue speranze.

Crollò come un sacco con la testa e le braccia penzolanti giù dalla sponda del letto.

Rimase in silenzio.

« …Camui? »

« …sto per vomitare. »

E nei suoi occhi gli sembrò di vedere Mana sollevare perplesso un sopracciglio.

 

« Ora va meglio? »

Oh be’, poteva forse dire di stare meglio dopo essere stato trascinato di peso fino al bagno ed essere stato riportato più o meno traballando fino al letto, per poi finirci schiantato sopra modello pacco da scaricare?

Ebbene sì, stava meglio.

Non certo per merito di Mana, che a dispetto dell’eleganza che decantava aveva dei modi molto più rudi di quel che appariva. Se stava meglio era solo perché finalmente il suo stomaco aveva accettato – o almeno sembrava – di dargli un momento di tregua. Certo dopo aver fatto tutto quello che voleva e come gli pareva.

« Ora sì che ci vorrebbero Takeshi e le sue medicine antisbronza… »

Rantolò quella frase in un sospiro e fu certo di essersi giocato il fegato.

« Ma poi ci romperebbe la testa a suon di chiacchiere. »

Anche quello era vero, dovette dare di nuovo atto che Manabu aveva ragione. Il chitarrista s’era di nuovo seduto esattamente al punto di prima, e non dava segno di volersi muovere. Satoru avrebbe giurato che quella schiena che vedeva fosse la schiena di un chitarrista ventiquattrenne sommamente imbarazzato da quella situazione nel complesso ma che tentava disperatamente di non darlo a vedere.

Così lui semplicemente lo fissò, fissò quelle ciocche nere di ebano che gli scendevano lungo la schiena sperando che preludessero a un minimo segno di vita del loro proprietario.

« Che hai da guardare? »

Sospirò e chiuse di nuovo gli occhi nocciola. Non gli sfuggiva niente…

« Non ti stendi? »

Calò il silenzio.

Più che evidente che a Mana non andava di rispondere e che la questione di dormire con lui la considerava alquanto pruriginosa per non dire scomoda. Della serie, da sbronzi può anche andare tanto dopo ti scordi di tutto, ma in lui era ritornato già l’autocontrollo. Fin troppo.

« Be’ comunque sei stato davvero forte prima, poco ci mancava che ammazzassi pure me! »

E finalmente, Manabu Satou si girò a guardarlo.

Dapprima con sconcerto, poi con una luce di vaga rimembranza in fondo alle iridi nere.

« Perché, chi stavo ammazzando? Non me lo ricordo bene. »

Oh, dèi del cielo.

Il trauma doveva essere stato proprio profondo se aveva già rimosso tutto.

Oppure aveva davvero fatto tutto quel macello sotto la spinta delle Malefiche Particelle Alcoliche – e sperava di sì visto che lui stesso aveva rischiato di finire spiaccicato sotto qualche tavolo – e se aveva rimosso tutto non era stato per il trauma ma per il semplice effetto di una riottenuta sobrietà.

Quale che fosse la situazione, decise che non era il caso di rivelargli che aveva una ciocca di capelli di meno.

Da dove l’aveva tirata fuori quella forza poco prima Gackt se lo stava ancora domandando, ma comunque era questione di vita o di morte (sua) che Mana non sclerasse in quel momento e in quella stanza. Decise per cui di soprassedere anche sulla questione “si dorme o non si dorme”.

Tanto lui non avrebbe dormito in ogni caso, soffriva di insonnia.

« Be’, che facciamo? » domandò, tanto per stemperare un po’ l’atmosfera.

« Detta da te questa suona quasi come una proposta oscena. »

Ecco, e ora chi era l’idiota dei due? Ancora non ce l’aveva chiaro.

Tossicchiò un paio di volte poi si puntellò su un gomito e lo guardò da sotto in su con un sorrisetto falso e ingenuo stampato sulla sua splendida – modestamente – faccia da schiaffi.

« E se ti dicessi che lo è tu che faresti? »

Mana con sua grande delusione non parve minimamente impressionato da quello sfoggio di feromoni maschili a potenza massima.

« Ti direi di starmi lontano perché io coi miei amici non ci scopo e con te men che meno. »

« Come siamo drastici. »

« Non è questione di essere drastici è questione che è vero. »

E a quel punto a Gackt Camui venne un sospetto.

Un sospetto atroce.

Probabilmente aveva preso un grosso granchio a ritenere che a Mana fosse passata la sbornia.

Tirò su col naso e restò perfettamente immobile come se d’improvviso il chitarrista si fosse trasformato in un qualche strano gigantesco serpente a sonagli.

E Mana lo guardò di nuovo.

Con sul viso un ghignetto sardonico che lo spaventò più di mille altre risse come quella di prima.

Gackt sudò disperatamente freddo. Forse s’era andato a cacciare in una situazione che alla lunga avrebbe preferito davvero evitare.

Poi Mana gli fu addosso, rapidissimo.

Lo schiacciò contro il materasso e lui si ritrovò con la testa sprofondata tra i cuscini rendendosi conto solo in quel momento di stare esattamente sull’orlo di un precipizio. Ma esattamente a un passo dall’andar di sotto.

« Naa… non va, te l’ho detto che sei floscio. »

Non si chiese dove lo stesse toccando e soprattutto con cosa. Solo giurò che non avrebbe più toccato una goccia d’alcol per… una settimana? Anzi no due erano meglio.

Intanto quel demonio maledetto con gli occhi neri gli stava ancora appiccicato addosso come un polipo e lo stava scrutando con un certo sottile e beffardo interesse che sottintendeva che i guai non erano ancora terminati.

« Senti ma… io ti piaccio? »

Oh cazzo. Oh cazzo. Oh cazzo oh cazzo oh cazzo merda e cazzo un’altra volta!

« No perché sai… certe volte ho come l’impressione che tu mi stia diciamo… corteggiando. »

Quella non era un’affermazione del tutto errata.

« Be’… magari sì. »

Un lampo di rabbia nell’iride nera gli fece capire che la risposta non era aggradata a un Mana sempre più in là con la testa.

« Che vuol dire magari sì? Guarda che ti riduco all’impotenza razza di mentecatto! »

E Gackt ebbe la fulminea intuizione di spostarsi. Si drizzò seduto più rapidamente che poté evitandosi una colossale scalciata di Mana diretta in modo evidente alle sue parti basse.

Il crack che fecero le doghe del letto fu qualcosa di spettacolare.

Evidentemente tanti anni di arti marziali a qualcosa erano serviti… specie se si trattava di combattere la più splendida creatura che avesse mai visto mentre era sbronza e potentemente inacidita.

« Mana… calmati, su. »

« Dammi una risposta chiara e io mi calmo. »

E che gli doveva rispondere, che gli piaceva ma non era niente di serio?

Ora era lui che stava tornando sobrio.

« Senti, facciamo così. Ora tu ti stendi e ti riposi un pochino, va bene? »

« Sì, così finisco violentato. »

« Veramente è passato il periodo in cui scopavo tutti i giorni. »

« Minchia, allora avevo ragione che sei un porco. »

Ma che era, a quel ragazzo si scatenava pure il turpiloquio oltre alla vena perversa quando beveva?

« Ti ho anche detto che mi è passata mi pare. Quel periodo della mia vita per tua informazione non ha superato la soglia dei vent’anni. »

« Tsk. »

Tsk?

Mana gli sembrò all’improvviso più docile, quasi che fosse stato disposto a ritrattare. Ma non ci credeva. Finché non gli vedeva passare chiaramente la sbronza non avrebbe creduto più a niente. Così stette ad osservarlo con una punta di sospetto quando lo vide arretrare fino al bordo del letto e alzarsi in piedi sistemandosi la cintura dell’accappatoio attorno alla vita.

Gli parve per un istante che stesse minacciando di levarselo quell’accappatoio.

Allora si chiese per la prima volta chi stesse giocando a corteggiare chi.

E capì per intuito che la risposta non era così semplice né così scontata.

La cosa lo preoccupò di striscio.

Aveva ben altro a cui pensare in quel momento.

Tipo osservare Mana che schizzava di nuovo di corsa verso il bagno sussurrando un “mi sento male” strascicato e tenendosi le mani premute davanti alla bocca.

Per qualche minuto regnò il completo silenzio, e Gackt si sarebbe pure preoccupato se non l’avesse sentito tirare lo sciacquone poco dopo. Almeno era ancora vivo, non era svenuto e non era inciampato scivolando con le ciabatte sul tappetino del bagno e rompendosi la testa contro il lavandino.

Si diede un cazzotto in faccia. Certo che lui pure non scherzava in quanto a immaginazione.

Quando Mana tornò, massaggiandosi leggermente le tempie con una mano, si guardarono.

« Ah, sto di merda », disse Mana.

« Non ti si addicono le parolacce », rispose Gackt.

« E a te non si addicono espressioni come “mi si addice”. »

D’improvviso, scoppiarono a ridere.

Come due grossi, enormi, indiscutibili cretini.

Poi, non seppe mai bene perché, Camui si fece più serio. Iniziò a guardare la lampada sul soffitto, pensando a quella luce luminosa e vorticante che poco prima gli aveva sconvolto lo sguardo e la mente e ricordando quante altre volte l’aveva vista prima.

Sì, era accaduto la prima volta quand’era piccolo.

Quando aveva sette anni.

« Tu… ti è mai capitato di pensare di morire? »

Lo chiese a Manabu quasi tanto per dire e nemmeno certo di ottenere una risposta. Anzi, forse qualcun altro l’avrebbe presa per la domanda di uno scemo in piena sbornia triste.

Mana attese qualche secondo prima di rispondere, ma gli parve più un silenzio di riflessione che non un’imbarazzata presa in giro.

« Forse sì. E chi è che non ci ha mai pensato una volta nella vita? »

« Io stavo per annegare nel mare di Okinawa. Avevo sette anni. »

Il chitarrista non replicò nulla, semplicemente gli si sedette vicino sul letto e finse di perder tempo a sistemarsi a random lunghe ciocche di capelli neri.

« Non ricordo il perché, so solo che a un certo punto mi mancò la sabbia sotto i piedi e che la corrente era fortissima. E che per quanto respirassi, mi entrava dentro solo acqua. E avevo tanta paura, tantissima. »

Non interpretò il silenzio di Mana in alcun modo, semplicemente continuò.

« E… a un certo punto non sentii più niente, neanche un suono. E una sensazione di calore avvolgente mi circondò, come un abbraccio. Come se mi stessi addormentando. Sapevo che sarei morto, ma era incredibilmente bello essere sollevati in quel modo dal dolore e dalla paura. E a quel punto apparve… una luce. »

« Luce? »

« Sì… una luce fulgida e brillante che si muoveva come roteando su se stessa. »

E quella era stata solo la prima di tutta una lunga serie di volte in cui quella medesima luce gli era apparsa, e lui aveva capito che compariva quand’era vicino alla morte. E per un motivo o per un altro, lui vicino alla morte c’era stato spesso da quel giorno nel mare di Okinawa.

« E da quel momento… ora non ci crederai, ma… ho iniziato a vedere delle cose. »

Si voltò per un istante verso Mana, solo per vedere che non lo guardava ma se ne stava tranquillo e seduto ad ascoltare, con gli occhi bassi e battendo solo le ciglia di tanto in tanto.

« Erano cose… cose morte. Io non riuscivo più a distinguere le persone vive da quelle che non lo erano più. E ci parlavo, perfino. E la gente se ne stupiva all’inizio, ma poi mi prendeva per pazzo. »

Ancora lo scrutò, come a voler cercare anche nel suo sguardo la conferma che lo credeva un cretino, un folle. Ma Mana semplicemente chinò il capo e inarcò le sopracciglia leggermente, invitandolo a continuare. Non pareva sconvolto, né altro. Anzi – e Gackt non avrebbe saputo dire se era l’effetto della troppa birra – sembrava un poco divertito da quel racconto.

« Una volta parlai con mio zio, morto da tempo, e quando i miei mi chiesero con chi stavo parlando e glielo dissi, loro risero. Però io penso che semplicemente avessero paura di affrontarmi. Crescendo l’ho imparato, che gli adulti finché possono cacciano la testa sotto la sabbia. Finché non vedi va tutto bene, finché non te ne accorgi non c’è niente che non va. Però a me sembra solo un modo di fare dettato da una sorta di codardia dilagante, non so se mi spiego… non do la colpa di quel che mi successe ai miei genitori solo perché probabilmente avrebbero reagito tutti così al posto loro. »

« Che ti successe? »

Satoru corrugò appena la fronte e chiuse per un attimo gli occhi. Tutto quel parlare gli stava facendo venire mal di testa, eppure mai come in quel momento aveva sentito il bisogno di raccontare quelle cose a qualcuno. Se non altro, a quanto sembrava Mana era disposto a starlo a sentire senza ridere.

« Alla fine cominciai a essere considerato un “bambino mentalmente disturbato”. La gente parlava di me, e io ad essere sinceri non capivo un granché bene. Avevo sette anni e vedevo i morti. Solo che proprio per questa ragione io la vita non ho mai capito cosa significhi. Invece mi sono sempre interessato alla morte, proprio perché volevo capire. »

« E che cosa c’è da capire? »

« Uh? »

Manabu lo fissava con appena un velo di apprensione su un viso dal trucco sfatto ma apparentemente attento e vigile.

« Voglio dire, io credo nella reincarnazione, nelle vite precedenti, negli spiriti, credo a tutto quello che mi può rendere la vita interessante. E alla fine penso che la morte non abbia tanto senso andarsela a cercare, tanto gira che ti gira arriva da sola. E si muore una volta sola. Per cui basta aspettare e avrai tutte le risposte che ti pare, non credi? »

Scoppiò a ridere, passandosi una mano sul volto stanco.

« Oddio, forse non sono tanto da me certi discorsi. »

E invece magari erano proprio da lui.

Gackt se n’era accorto subito, che Mana faceva tanto il sostenuto ma sotto sotto era molto meno ghiacciolo di quel che appariva. Sempre che su di lui non si stesse sbagliando di grosso, s’intendeva.

« Comunque, continua. »

E Gackt continuò, obbedendogli senza protestare.

« Be’, per farla breve… un giorno, a dieci anni, ebbi un collasso. Crollai per terra con fortissimi dolori al ventre senza riuscire a muovermi. »

Ricordava benissimo quel dolore, ricordava la paralisi, ricordava come ogni minima fibra del suo corpo fosse stata tesa fino allo spasimo nel tentativo disperato di contrastare il male o quantomeno di impedire al se stesso bambino di morire soffocato.

« Sono stato portato all’ospedale e visitato in ogni parte, ma le cause di quella crisi rimasero sconosciute. Mi dissero che probabilmente avevo una qualche sorta di malattia infettiva, e mi isolarono. Isolarono un bambino di dieci anni. »

Ed era stata tremenda, la solitudine di allora. Isolato, confinato, lasciato in un reparto d’ospedale che somigliava piuttosto a una prigione.

« E sai, Mana, qual era la cosa più tremenda dello stare lì? Che ogni singola volta che facevo amicizia con un bambino del reparto di pediatria, quel bambino moriva. Erano tutti come me, casi disperati, bambini che non potevano fare altro che aspettare la morte e che era come se non fossero mai nati. Parlando con loro o anche solo guardandoli aggirarsi imprigionati nei corridoi del reparto, o perfino immaginandoli a consumarsi nelle loro stanze, spesso pensavo “quel bambino domani morirà” e il giorno dopo sentivo i passi delle infermiere andare giù fino alla hall e allora sapevo che uno dei miei amici era morto. Quello era l’inferno, Mana. Era l’inferno. »

Gli si spezzò per un attimo la voce e allora riprese fiato limitandosi a respirare profondamente per qualche istante. Non era così piacevole ripensare a certi eventi, nemmeno per lui. Avrebbe tanto voluto poterli dimenticare per sempre.

« Mi chiesi perché ero anormale e alla fine capii che “normali” erano persone come i dottori, persone che i miei consideravano corrette. E iniziai a comportarmi un po’ come loro. Venni dimesso dopo qualche giorno. »

Non che per lui fosse mai cambiato davvero qualcosa, comunque. Semplicemente, aveva sacrificato la sua felicità alla propria sopravvivenza.

« So che è sbagliato e che probabilmente fu un errore. Ma io in quell’ospedale non ci volevo ritornare. »

« Be’, è comprensibile direi. »

Non c’era traccia di pietà nella voce di Mana, anzi c’era una sorta di vaga e incomprensibile tenerezza. Quel che era certo era che non lo stava in alcun modo compatendo, e gliene fu immensamente grato.

« Sempre per questo motivo ho deciso che non avrò mai figli. Ora non ne sono sicuro, ma credo che queste capacità si trasmettano coi geni. E se avessi un figlio con le mie stesse capacità e dovesse passare quello che ho passato io, non lo sopporterei. Assolutamente non voglio che i miei geni siano replicati altrove. »

Mana non gli rispose, probabilmente perché quell’argomento non lo interessava.

Gackt allora si alzò a sedere, sistemandosi meglio accanto a lui.

Probabilmente sarebbe stata ancora molto lunga quella notte, visto anche il fatto che Mana aveva preso a guardarsi le corte unghie smangiucchiate e non sembrava essere particolarmente interessato a metterci del suo in quel lungo racconto autobiografico che stavano mettendo su.

E tuttavia, dopo qualche minuto di silenzio proprio lui parlò.

« Non c’è che dire. Sei interessante. Ma interessante davvero. »

Gli fece perfino un occhiolino, cosa che inquietò ed incuriosì un pelo Satoru, e tornò a pensare che in Mana c’era qualcosa di davvero temerario ed incosciente a tratti. C’erano momenti – come quello – in cui aveva gli stessi occhi meravigliosi di un bambino, quelli che lui invece aveva perso troppo presto.

Il chitarrista s’alzò in piedi, e Gackt lo guardò armeggiare con le ante degli armadietti della stanza. Avevano preso quella più economica ma comunque il minimo indispensabile c’era.

« Avevo ragione. »

Fu la schiena di Mana a parlargli, mentre si chinava a raccogliere qualcosa che gli era caduto a terra.

« Sei esattamente la persona di cui avevo bisogno. »

Gackt si soffermò a guardare una volta di più quei suoi splendidi capelli di ebano che coscienziosamente venivano ravviati ancora e ancora dietro le orecchie, e di nuovo gli scappò un sospiro. Cielo se era bello… sì, Mana era bello e lui era completamente andato.

Ah, ma probabilmente erano soltanto i fumi dell’alcol che ancora indugiavano da qualche parte del suo cervello. Si ricordò en passant che lui con quella persona ci doveva suonare in una band e che – santo cielo – non era il caso di farci altro.

« Che dici, ce la facciamo una tazza di tè? »

Mana s’era girato tirando su due tazze e mostrando il bollitore che era dentro uno degli armadietti. Ah, altro che tazza di tè…

Satoru si costrinse a girarsi dall’altra parte per non guardarlo.

« Ehi! »

Niente da fare, Mana scherzava col fuoco e la cosa divertente era che manco se ne accorgeva.

« Sto parlando con te, Camui. »

Stava iniziando a piacergli perfino quel modo sdegnoso e vagamente irritante con cui pronunciava il suo “cognome” quando aveva le palle girate. E tutto ciò era spaventoso. Spaventoso e pericolosissimo.

All’improvviso se lo ritrovò davanti, in accappatoio e che lo guardava fisso con ancora in mano quelle due tazze da tè.

E insomma… era incantevole quanto la tentazione che il serpente aveva offerto ad Eva nella religione cristiana. E santo cielo, lui a quella mela un morsettino gliel’avrebbe dato volentieri.

« Non vedo perché no », mormorò.

E la stessa cosa l’aveva mormorata una certa vocina maligna dentro di lui che tanto di buon grado avrebbe fatto tacere in altre circostanze. No, non era così fesso. Non ancora. Forse.

Sentì appena i passi di Manabu che s’allontanava di nuovo, presumibilmente per andare a fare quel tè.

S’alzò in piedi.

Sospirando lo seguì e quando gli fu alle spalle gli toccò un braccio, costringendolo a girarsi fino a guardarlo.

« Tu prima… hai detto che con i tuoi amici non ci faresti mai niente, vero? »

« Esatto. »

Si osservarono per un istante e negli occhi luminosi di Mana lesse una certa aggressività che covava forse un disagio ben più profondo e malamente espresso.

« Io invece ho scordato di dirti una cosa al riguardo. »

« Cioè? »

« Che io i miei amici li bacio. »

E lo baciò davvero, afferrandogli con forza un polso sottile perché non potesse scappare. Ma sbagliava, perché Mana non ci provò nemmeno a scappare.

Fu un bacio lungo, pur senza un reale trasporto da parte del chitarrista.

Quello Gackt lo sentì perfettamente, che Mana non era né particolarmente sorpreso né particolarmente scocciato. Pareva anzi che se lo stesse aspettando.

Era così, probabilmente, e Satoru trovò il coraggio di abbracciarlo perfino.

Tanto, qualsiasi cosa fosse accaduta erano ubriachi.

Non avrebbero ricordato più nulla, l’indomani.

Più nulla.

 

 

 

- continua -

 

N.d.A. Come al solito mi trovo a dovermi scusare per il ritardo con cui posto questo capitolo, dovuto più che altro a esami universitari + problemi personali che mi avevano castrato l’ispirazione. Ma Madama Ispirazione (© Caleb XD) s’è rifatta alla grande in questi ultimi tre giorni tenendomi su a scrivere fino alle quattro del mattino, forte anche della mia ormai ben nota insonnia quasi perenne. Insomma, questo capitolo è forse un po’ meno demente del precedente, nonché forse più sconcio a causa dei pensieri turpi di Gackt Camui (riuscirà a tramutarli in realtà?), però contiene comunque alcuni passi da tener presenti. In primis, ho voluto raccontare un po’ dell’infanzia di Satoru, argomento su cui avevo glissato nei capitoli precedenti ma che ha certamente un suo perché nel dare spessore al personaggio. Poi, con questo capitolo dovrebbe concludersi la prima metà del secondo atto, e di fatto finire la parte più strettamente introduttiva della storia. Le basi sono state gettate, la band c’è, i sentimenti pure, il morale è alto e i personaggi sembrano anzi più collaborativi di quello che avrei sperato. Ringrazio tutti coloro che hanno recensito la fan fiction finora e colgo l’occasione per rassicurarli che la storia continuerà e verrà regolarmente portata a termine. Il finale ce l’ho in mente, resta solo da vedere quando ci si arriverà. Io tenterò di attenermi al ritmo iniziale di un capitolo al mese, e se eventualmente ci saranno ritardi cercherò di contenerli il più possibile.

Mi scuso di nuovo e vi invito a recensire (le vostre recensioni mi aiutano a galvanizzare i personaggi che così collaborano ancora meglio e scusate se è poco! :P).

Grazie di cuore a tutti.

 

 

Vitani

 

   
 
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