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Autore: Suzerain    19/03/2016    0 recensioni
Ogni giorno è routine che si ripete. E' serrare le labbra dinanzi a quell’imperfezione, ritrovarsi per motivi ignoti a tendere verso la stessa la mano fino a quando la vista s’annebbia e v’è un calore sconosciuto a scivolare lungo le gote – è dalla solitudine lasciarsi vincere e dalla consapevolezza che sostituibile è la propria esistenza lasciarsi corrodere.
E’ routine che si ripete, mentre le ali si ripiegano su se stesse e lui al loro interno si rifugia, infante per un attimo anche nei gesti.

{religion!au | osomatsu/choromatsu}
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Choromatsu Matsuno, Osomatsu Matsuno
Note: AU | Avvertimenti: Incest
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Titolo: Endlessly.
Autrice: Suzerain
Fandom: Osomatsu-san! (おそ松さん)
Rating: Giallo, per la presenza di tematiche religiose.
Pairing: OsoChoro.
Personaggi: Choromatsu Matsuno, Osomatsu Matsuno.
Desclaimer: I personaggi di Osomatsu-san non mi appartengono, e sono sotto il copyright di Fujio Akatsuka. L'icon utilizzata è di mia proprietà.
Ambientazione: Religion!AU. Rielaborazione personale di quella che è la AU a tema religioso creata dal fandom e che trae fortemente le proprie basi dalla douijnshi “Before the rainstorm stop”.
Note dell'autrice : Succede che Osomatsu-san e questo pairing mi hanno un po’ rovinata nell’ultimo periodo, che la religion!AU mi ha spezzato il cuore e che il fandom si compone di persone orribili in grado di farti a pezzi l’anima. Quindi l’altro giorno ho semplicemente aperto word, seguito la scia di pensieri che mi attraversava la mente e ne è uscito questo scritto, che non mi spiace ad essere sinceri.
Questi due sono adorabili e fanno un po’ male, ecco la verità.
Mi scuso se il titolo è poco inerente, ma purtroppo ho sempre un po’ di problemi nella scelta!

 


Nel poggiarsi sul bianco marmo, lucido e curato come si conface alla casa d’un dio, sono brividi che vanno a scuotere la pelle rosata. Si diffondono lenti, impadronendosi di quelle immacolate carni a poco a poco, sino a giungere alle braccia lasciate scoperte dalla tunica candida, che di quella ricca pavimentazione richiama il colore e i cui bordi sono adornati di piccoli fili d’oro.
Choromatsu assottiglia lo sguardo, e le ciglia lunghe e quasi femminee si ritrovano a contornare occhi di fatti di smeraldo vivo che, animati di curiosità sincera come tra i mortali accade con gli infanti, si spostano verso il basso, ad osservare il mondo degli uomini. Si accosta con il corpo al bordo, le ali piumate a sostenerlo e impedirgli quella che altrimenti sarebbe una rovinosa caduta, la chiara intenzione di cogliere di quella realtà ora così distante dalla propria ogni aspetto, positivo o negativo che fosse.
E’ il suo compito dal giorno dell’inizio del mondo – di quel nuovo mondo; curarsi gli esseri umani senza però interferire nelle loro esistenze, permettere loro d’agire secondo quanto concesso dal libero arbitrio. Ogni giorno è routine che si ripete, è cercare con lo sguardo minuscole figure che s’affannano alla ricerca di obiettivi insignificanti dimenarsi all’interno di un’unica grande tela; cedono al vizio, al peccato, dimenticano quelle virtù che dalle bestie li distinguono e regrediscono sino ad essere poco più che esistenze dall’animo spezzato e tinto dei colori più neri.
Ogni giorno è routine che si ripete. E' serrare le labbra dinanzi a quell’imperfezione, ritrovarsi per motivi ignoti a tendere verso la stessa la mano fino a quando la vista s’annebbia e v’è un calore sconosciuto a scivolare lungo le gote – è dalla solitudine lasciarsi vincere e dalla consapevolezza che sostituibile è la propria esistenza lasciarsi corrodere. 
E’ routine che si ripete, mentre le ali si ripiegano su se stesse e lui al loro interno si rifugia, infante per un attimo anche nei gesti.

Gli occhi restano chiusi trovando nella mancanza di luce sollievo, e si rannicchiano al petto le gambe magre, mentre la stoffa dell’abito produce un lieve fruscio. Si diffonde in una stanza vuota, coprendo per un istante anche il lento battito del suo cuore, fragile in quei momenti come potrebbe esserlo un cristallo che rischia d’infrangersi al suolo; e cade di nuovo il velo del silenzio, appesantendo ulteriormente spalle da troppo tempo di pesi caricate.
Choromatsu trema, stringendo di più le palpebre.
E’ routine che si ripete e niente di più.

Immobile come fosse del tempo l’incarnazione, sulla pelle diafana residui di quei brividi che poc’anzi la stessa andarono ad agitare; tremulo il respiro che abbandona le labbra appena dischiuse e dinanzi al quale un sorriso abbandona quelle del demone che in quell’attimo stesso gli sta dinanzi, le mani che dietro la schiena s’incrociano e il volto chino perché mera sia la distanza che lo separa da quello della sua eterna nemesi. Non si muove ancora, il dio. Seguita a restare chino su se stesso.
Il demone schiocca la lingua contro il palato in un suono che non cela il divertimento che prova, e ardono le sue iridi come quelle fiamme infernali che donarono loro la vita; ma è con i suoi tempi e una calma che con la sua parvenza quasi contrasta che parla, allungando la mano verso quel corpo minuto e lasciando che quello stesso diletto s’appropri anche delle sue labbra, quando la pelle a seguito di quel contatto brucia.
«Guardati.» è la sua prima parola. Si china ulteriormente, il viso che ancora una volta s’inclina – quasi sembra studiarlo, quando è in realtà per farsi beffe di lui che si trova lì. «Sei così fragile ora, mio piccolo dio.»
Melliflua è la sua voce, Choromatsu l’ha sempre pensato. E’ il suono della tentazione, quello cui gli umani altro non possono che cedere e che scuote un’anima dall’interno, facendo leva sulle debolezze che mortale la rendono e delle stesse appropriandosi. Gli dice di stare lontano la razionalità, quell’unico fiato cui in genere dà ascolto e che, nell’attimo in cui le dita di lui gli sollevano il volto causando l’incontrarsi dei loro occhi scalpita, dimenandosi per essere udito.
Gli intima d’allontanarsi la ragione, mentre lui sbatte le palpebre e le iridi smeraldo con quelle vermiglio divengono un tutt’uno e s’acquieta, il tremolio che sino ad allora le sue carni aveva impunemente scosso.
«Sei crudele.» risponde. Ignorata è quella voce, respinta e costretta a sottomettersi come tutte le altre, così che nulla lo distoglie ora dalla figura che ha dinanzi, da un volto che al proprio più d’ogni altra cosa somiglia e sul quale ancora è ancora dipinto quel sorriso – quel sorriso ch’un tempo era stato odioso e che ora non sa come definire.
Il suo sorriso diviene risata, che a un ulteriore avvicinarsi s’accompagna. Ode il suo respiro ora, lo sente caldo contro la propria bocca. «E’ nella mia natura.» E’ una frase breve come quella pausa che l’ha preceduta.
Ma scuote il capo, il dio. «Sei sempre stato così,» e esita, addirittura. «Osomatsu nii-san.»

La sua mano è calda. E’ grande esattamente quanto la propria, quasi le loro dita esistessero con il fine unico d’intrecciarsi le une alle altre – lo pensa mentre la stringe, accettando l’onere che da quel tocco nasce e la consapevolezza d’aver ceduto ancora a quel peccato senza nome. Osomatsu l’aiuta ad alzarsi, l’attira contro il proprio corpo e di nuovo su quelle labbra sottili si dipinge un ghigno soddisfatto; la mano libera gli stringe la vita, sfiora con i polpastrelli lembi di pelle scoperta con l’intento di provocarle ingenui brividi – sino all’ultimo lo tenta, e sulle note d’una musica silenziosa lo guida in una lenta danza, spingendo affinché nulla fosse la distanza tra le loro essenze.
A parlare è ancora Choromatsu, del tempo il segno ancor difficile portare. S’appella ad un’antica promessa cercandone lo sguardo una volta ancora, portando le proprie mani ad intrecciarsi dietro il collo di lui e sfiorargli i capelli scuri; i polpastrelli bruciano opponendosi a quello sfiorarsi di pelli proibito, a quel toccare con mano l’essenza stessa della seduzione. «Ti ho cercato, Osomatsu nii-san.»
Osomatsu non risponde. La mano risale dalla vita alla schiena, muovendosi sul ritmo di quella musica inesistente e soffermandosi talvolta in un punto, altre in un altro; socchiude gli occhi vermigli e nasconde il volto alla vista dell’altro andando con la bocca a sfiorargli dell’invitante collo la pelle, morbida e dal sapore dolce.
Il minore sospira piano, e con le punte delle dita ancora gli tocca i capelli; ma nulla eccetto quel delicato suono l’abbandona, ed è chiaro al demone che nient’altro gli avrebbe concesso se non avesse risposto a quelle parole che tra loro ancora aleggiano. «Lo so. Sei fatto così.»
Sono parole sussurrate, suoni caldi dinanzi ai quali non riesce, Choromatsu, ad evitare di socchiudere gli occhi a propria volta.
«Così come?» Se lo lascia sfuggire, la voce flebile che del maggiore il tono imita; dal suo corpo si lascia cullare, da quelle sorde note guidare in quello che pare essere il valzer di due anime troppo a lungo separate. Ancora gli sfiorano la pelle, le labbra di lui, ed è per quello che chiaramente recepisce il suo sorridere pur essendo alla vista interdetto il suo volto.
«Mantieni le promesse che fai.» pronuncia, prima che alle carezze della bocca si sostituisca l’irruenza dei denti e marchiato d’improvviso si ritrovi ad essere quel candore, del demone il marchio innascondibile; s’allontana poi di nuovo, così che un’ultima volta possano i rubini insanguinati incontrare quegli occhi che del verde delle foglie paiono aver assorbito il colore. «E’ questo che ti distingue da me.»
Non gli impedisce di baciarlo sulle labbra, quando pronunciate quelle ultime parole si appresta a colmare quella flebile distanza che tra di loro ancora persisteva. Non lo allontana nemmeno quando avverte della lingua l’umidità e la stessa s’insinua all’interno della sua bocca, incontrando la propria che come se quel contatto fosse per un assetato vita ricambia, mettendo da parte temporaneamente le rispettive nature – tornano ad essere ciò ch’un tempo furono mentre a sé lo stringe, nel profondo il terrore di poterlo perdere ancora una volta, il terrore della solitudine che come nient’altro ha il potere di farlo tremare.
Tremulo è il respiro e languido lo sguardo quando il contatto ha termine. «Osomatsu nii-san,» sussurra, quando il più grande fa per zittirlo di nuovo – perché ha bisogno d’esternarlo, e perché premono quelle parole al punto che quasi dole la gola. «Osomatsu nii-san. Non lasciarmi di nuovo solo.»
Di nuovo impiega tempo prima di rispondere, perché della sua essenza un’ultima volta s’appropria, più a fondo imprime il suo segno; ma dolcezza è ciò che la voce marca nell’attimo in cui prendon vita le parole, in cui persino del principe degli inferi il fiato diviene tremulo. «… Sono a casa, Choromatsu.»
La routine si spezza.
E allora il piccolo dio non può che rispondergli con un flebile “Bentornato”.

 
   
 
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