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Autore: Francine    20/03/2016    4 recensioni
Lei osserva quel dito come se fosse un oggetto mai visto prima, fresco fresco di sbarco da Marte. O da più lontano ancora. Plutone, forse.
«È un’usanza del mio paese», dici, protendendo il mignolo verso di lei. Incoraggiandola ad incrociarlo col suo.
«C’è una cosa simile anche in Giappone», dice. «Si chiama
Yubikiri
«Tutto il mondo è paese», chiosi, i becchi del colletto inamidati alla perfezione che puntano verso il basso. «Avanti», le dici. «Siamo solo io e te…»

[Post Soul of Gold]
Genere: Comico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Cancer DeathMask, Saori Kido
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'The Long and Winding Road'
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Soul of Gold ci ha lasciato con poche certezze ed un girotondo di perché.
Io voglio credere che, ad un certo punto, Saori/Athena li tiri fuori da quella statua pacchiana e li riporti indietro. Che cancellino Saint Seiya Ω con un colpo di spugna e via.
Questa storia si situa in quel meraviglioso futuro, con un Death Mask redivivo, senza occhiaie, senza pizzetto e l'aria strafottente di sempre.
E sì, ho tolto ad Aphrodite la sua camicia rosa cipria col fiocco sullo scollo, optando per il modello hibiscus di Valentino. Va un casino, quest'anno!!!


E ora, i disclaimer:

Saint Seiya © Masami Kurumada, Shueisha, Toei Animation, 1986

Tutto il resto è farina del mio sacco e no, non è possibile ispirarsi né citare questa storia se non previo permesso scritto (parodie comprese), visto che la telepatia ancora non l’ho sviluppata.

Questa è un’opera di finzione, e, come tale, mi sono presa alcune libertà. Spero non me ne vorrete!

Buona lettura!


 





Yubikiri

 


Non è il giuramento che ci fa credere all’uomo, ma l’uomo al giuramento.
(Eschilo)




Aphrodite ti scocca un’espressione indecifrabile. Aggrotta le sopracciglia, una mano che accarezza la schiena di Non Plus Ultra – che ronfa a piena potenza contro quell'assurda camicia grigio-viola a fiori rosso scuro – come se quel gesto ripetitivo potesse fornirgli la risposta al quesito che sta attraversando la sua testolina boccoluta. Fissa le tue mani, gli occhi color del mare al mattino ridotti a due mezzelune sospettose. Non Plus Ultra allunga le sue zampette verso di te.

Piano, bellezza. Non puoi giocare con queste.

Poi qualcuno accende la luce nella serra che Aphrodite ha al posto del cervello – e no, tu non ci credi che lui parli con le piante, nossignore! – perché gli senti dire: «Ah.», come se si fosse ricordato di qualcosa. La pentola sul fuoco, i rubinetti aperti o una telefonata importante – importantissima – da fare. E con questa nuova, improvvisa consapevolezza, Aphrodite gira sui tacchi e ti lascia passare, la mente persa dietro chissà quale volo di rondini, la coda di Non Plus Ultra che svetta come un pennacchio oltre la sua spalla.

 
Inginocchiato ai piedi del Trono, ti senti nudo. È come se gli occhi di Athena fossero puntati sulla porzione di nuca che s'intravede dal colletto della camicia, con lo stesso ardore che anima lo sguardo delle aquile. O delle civette.
Athena – al secolo, Saori Kido – tace, il chitone candido drappeggiato con finta noncuranza sulle spallucce da uccellino. Poi si alza, in un frusciare di stoffa, e scende gli scalini. Siete solo tu e lei. Le sue dita sfiorano le tue, poi le sue mani si chiudono attorno al tuo polso.
«Guardami, Karkinos», ti dice.
E quando obbedisci, quando alzi gli occhi su di lei, incroci il suo sguardo. E ti viene da sorridere.

 
Glaucopide.
Significa dagli occhi scintillanti, come quelli delle civette. Molti lo traducono dagli occhi azzurri, ma Athena non ha gli occhi azzurri. Nemmeno a pagare. Athena ha occhi che riescono a vedere quello che per la gente comune – per gli altri dei – non ha importanza. Uno spazio, una crepa, un pertugio, che vuoi che cambino sul muro invalicabile? Nulla. Ma dove la gente comune vede poco più che un graffio, Athena scorge una possibilità. Una breccia in cui infilarsi per far crollare il muro invalicabile come se stesse soffiando su un dente di leone. Le riesce bene. Benissimo. E la cosa la diverte da matti, sin dai tempi di quello scherzetto del cavallo di legno con la pancia piena di agguerritissimi Achei.
No, gli occhi di Athena non sono azzurri, né scintillano del cozzare delle spade. I suoi occhi sono verdi. Ma c’è un lampo, un bagliore metallico, in quelle iridi che scrutano il mondo come a volergli prendere le misure per un abito – o un sudario – intessuto come una volta: ed è lo stesso, argenteo riflesso che galleggia sul verde delle foglie dell’ulivo.
 
I suoi occhi ti dicono che sì, hanno capito.
Ché sì, le piace il presente. Ma le sue mani non lasciano il tuo polso. Nemmeno per sogno. Vuole che tu le spieghi. Vuole sentire la tua voce. Perché i gesti contano più delle parole. Acta, non verba, come dicevano a Roma. Ma le parole hanno il loro dannatissimo peso. Le parole sono importanti. E possono esserti rinfacciate, quando meno te l’aspetti. E sanno far male, come uno schiaffo a mano aperta. E non importa quanto le tue guance abbiano imparato ad incassare: ci sono schiaffi che bruciano peggio della pece. E che lasciano il segno anche a distanza di anni. L’impronta di cinque dita sulla pelle arrossata.
 
Athena se ne intende, di uomini e di schiaffi dati sull’anima. Tu ne sai qualcosa. Lascia il segno, come si dice. Un segno, come il graffio di un’amante rabbiosa, come la tirata d’orecchie di una madre che vuole riportarti alla ragione.
I maschi imparano presto ad essere sordi alle urla e alle scenate. Sono sfuriate, tempeste momentanee, burrasche da lasciar sfogare, ché non puoi fare altro. Che fai, dici al cielo «Basta pioggia!»?
No, non lo fai. Perché non puoi, ché anche se ti sgoli, il cielo è sordo e se ne va per fatti suoi. Quindi conservi le energie e aspetti che passino i cinque minuti. Ma quando è Athena ad avere i cosiddetti cinque minuti?
Oh, allora le cose si fanno davvero complicate. Perché non puoi cavartela con una scatola di cioccolatini o un mazzo di rose rosse. Non funziona.
L’aria da cane bastonato?
Inutile.
Le promesse?
Fastidiose.
Le scuse?
Indisponenti.
No, fare un torto ad Athena è peggio che farlo alla tua donna. Perché Athena, no, non la incanti con le moine, non la plachi con i baci. Athena richiede sangue. Il tuo. E non sarà soddisfatta sino a quando i suoi artigli non ti avranno dilaniato il cuore e ne avranno sparso i resti a terra.


«Ho visto questi fiori ed ho pensato a te.»
Peccato che tu non stia stringendo un mazzolino avvolto nella carta crespa, di quella che ti lascia il colore sulla pelle. Le tue dita le stanno porgendo un ramoscello d’olivo, le foglie verde-argento che dondolano nell’aria immobile di questo Marzo troppo caldo per essere appena primavera.
Lei inarca un sopracciglio. Lampi di tempesta nel suo sguardo all’ombra.
«Si dice così, giusto? Spero lo accetterai, anche se non sono fiori.»
Ma le sue dita no, non mollano la presa.
Non ti chiede se sai quello che stai facendo, perché non vuole offendere la tua intelligenza. Tace. E a te fa piacere quella stretta. Possessiva. D’acciaio. Come gli artigli della civetta sulla schiena del topolino.
«Devo proprio?», chiedi. Con una strafottenza che non ti aspettavi di avere, quattro grammi ripescati sul fondo della tua anima. Senti Acubens scintillare, lassù, oltre il cielo, oltre il Sole che splende sereno, oltre le galassie ed il tempo.
E i suoi occhi ti dicono che sì, devi. O lei non ti lascerà mai il polso. Potete restare così fino alla fine dei tempi, e tutto sommato non è che la cosa ti dispiaccia poi tanto, vero?
Eppure, sospiri, ché sai da te che certe storie – certi pensieri – non portano mai ad una bella fine. E che l’arroganza non paga, specie quando hai a che fare con gli dei. E a te, di fare la fine della cicala, no, non va. Affatto.

«È la Domenica delle Palme», inizi a dire, ché sarà pure una divinità, ma Athena è pur sempre una donna – una femmina. E alle femmine piace sentire la voce dei maschi riempire l’aria. «Si ricorda l’entrata di Cristo a Gerusalemme. La gente lo ha accolto agitando dei rami di palma al suo passaggio. Sì, poi gli hanno fatto la festa. Ma sono dettagli.»
Lei annuisce, un gesto appena percettibile.
«Quello è un ramoscello d’ulivo.»
«Da me si usa questo, al posto delle palme. Sai com’è, sono più reperibili», dici, lo sguardo più innocuo del tuo repertorio, lo stesso che mettevi su quando Tonio ti strattonava fino a casa di Angelica tirandoti per un orecchio. «E poi…»
«E poi?»
Ti stringi nelle spalle, la camicia celeste chiaro che segue la curva dei muscoli. «L’ho ritenuto… appropriato», dici. E vedi il suo sguardo allargarsi. Le sue mani lasciano il tuo polso ed afferrano il ramoscello.
«Appropriato», la senti mormorare alle foglie dal riflesso d’argento. «Appropriato, per cosa
«Per la mia dea», rispondi. Senza respirare. «Per te.»
Lei ti fissa. Tace.
«Facciamo pace, Athena?», e le porgi il mignolo della mano destra, ché la sinistra, no. La sinistra è la mano del diavolo, come diceva Angelica quando facevate pace. E ti piaceva il suo profumo, e ti piaceva allungare lo sguardo sulla sua scollatura, e ti piaceva la pelle morbida delle sue mani.
Lei osserva quel dito come se fosse un oggetto mai visto prima, fresco fresco di sbarco da Marte. O da più lontano ancora. Plutone, forse.
«È un’usanza del mio paese», dici, protendendo il mignolo verso di lei. Incoraggiandola ad incrociarlo col suo.
«C’è una cosa simile anche in Giappone», dice. «Si chiama Yubikiri
«Tutto il mondo è paese», chiosi, i becchi del colletto inamidati alla perfezione che puntano verso il basso. «Avanti», le dici. «Siamo solo io e te…»
Lei sorride, un lampo pericoloso nello sguardo. E tu gongoli di trionfo, le labbra che si arcuano all’insù. Ti ho colto in castagna, Athena…

Il suo mignolo incrocia il tuo. Serri la presa.
«Bene. Poi si fa così», e, dondolando le vostre mani, aggiungi:«Mannaggia al diavoletto che ci ha fatto litigar! Pace, pace, pace!», e fai per lasciarla quando lei stringe il suo mignolo. Una forza incredibile. Potrebbe spezzarmi il dito, se solo volesse, pensi.
Le scocchi uno sguardo, come a dire «Beh?». E vedi le sue labbra curvarsi in un lampo rosa pastello fin troppo pericoloso e seducente.
«Noi, invece, diciamo qualcos’altro», e, dondolando le vostre mani, recita una litania di cui afferri qualche sillaba qua e là, prima che lei esclami «Yubi kitta!» e ti lasci il dito.
Lo senti pulsare.
«Che accidenti hai detto?», le chiedi. Dimentico di tutto, di dove sei, di con chi sei, di quello che hai appena fatto.
Lei si mette a sedere sui talloni, come fanno i calciatori sulle figurine, la gonna bianchissima ripiegata sotto le ginocchia. Sorride.
«Se rompi la promessa, ti faccio ingoiare mille aghi», traduce. «Riga dritto. Intesi?» E poi piega la testa di lato, come una bambina dispettosa.
Ti ha fregato, c'è poco da dire.
«Tutto qui?», chiedi, tirando un sospiro di sollievo. «Chissà che mi credevo!», aggiungi, portandoti una mano sulla fronte con fare teatrale.
«Una promessa…»
«… è una promessa, Athena», chiosi. Perché Athena sarà pure una dea, ma, sotto sotto, è una donna – una femmina – come tutte le altre.
«L’unica della mia vita», aggiungi, come sovrappensiero, perdendoti nel suo sguardo verde e argento. 



Note:
la canzone dello Yubikiri (Yubikiri no Uta) si recita quando si fa una promessa a qualcuno. Si incrociano i mignoli e si cantilena:
指切りげんまん、うそついたら針千本飲ます - 指切った。
(yubikiri genman, usotsu itara harisenbon nomasu. Yubikitta.)
(Promessa dei mignoli incrociati. Se dici una bugia, ingoierai mille aghi. Ho seprato le dita.)
Il taglio del mignolo è un'azione che indica serietà, onore e fedeltà alla parola data. È un'usanza che risale al periodo Edo (1600- 1868), quando le geisha donavano ai propri clienti l'estremità del mignolo (o più probabilmente, spacciavano per il proprio quello di qualche defunto). Poi passò come simbolo di fedeltà tra gli affiliati malavitosi (se vi imbattete in qualcuno a cui manca l'ultima falange del mignolo della mano destra, fate attenzione: potrebbe essere un mafioso!) ed è rimasto famoso l'episodio in cui, durante la Seconda Guerra Mondiale, Fosco Maraini - il padre della scrittrice Dacia - si taglio il mignolo all'interno del campo di concentramento in cui tutta la famiglia era internata (a causa della non adesione alla Repubblica di Salò dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943).


Glaucopide è l'epiteto per eccellenza della dea Athena. Significa, letteralmente , dagli occhi glauchi, ossia scintillanti, o dagli occhi di civetta. La civetta è l'animale totem della dea - tant'è che il nome scientifico della civetta è, appunto, Athene Noctua - perché la sapienza permette all'uomo di vedere attraverso l'oscurità dell'ignoranza. Ma nella dea Athena è confluito il ricordo di una divinità preesistente, una divinità femminile dalle ali d'uccello e le zampe di rapace, che presiedeva ai culti di morte e rigenerazione. Ed è appunto morto e rigenerato death Mask in questa storia.
E no, il riflesso degli occhi di Athena non è azzurro, ma argenteo, lo stesso delle foglie dell'ulivo.

E dulcis in fundo, Non Plus Ultra è il gatto che ho appioppato ad Aphrodite. È un norvegese delle foreste dalla candida pelliccia. Potete conoscerlo qui e qui.
   
 
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