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Autore: Arya Tata Montrose    26/03/2016    4 recensioni
Okay, questa storia è nata unendo tre scenari diversi, tutti AU, che mi ha proposto una mia amica. Racconta di come si sono trovati Gajeel e Levy in un'ambientazione moderna, senza magia. Sembra un primo incontro, strutturato su diverse settimane, che comincia nella maniera più strana possibile: Levy buttata fuori da scuola.
E niente, spero che vi piaccia ❤︎
[«Signorina McGarden, permette una parola?» fece, con voce atona e leggendo il suo nome dal foglio.
«Certamente» rispose Levy, un po’ sorpresa. Perché le voleva parlare? Aveva sbagliato qualcosa? Per un attimo la paranoia si impossessò di lei, si chiese cosa, come, dove e perché avesse sbagliato e si trattenne dal cacciarsi le mani tra i capelli a stringersi la testa, come faceva quando doveva pensare in fretta ad una scusa per levarsi dai guai al Magnolia College – il che accadeva davvero troppo spesso.]

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Hope you enjoy!
Tata
[Gajevy][over!5000 words]
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Gajil Redfox, Levy McGarden
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Il Metallaro e la Fata Turchina
 
 











Lunedì – Settimana uno

Da quando chiunque potesse avere ricordi di lei, Levy McGarden aveva sempre avuto i capelli di quella particolare tonalità di azzurro – turchino, precisava sempre Mirajane – e nessuno conosceva il vero colore dei suoi capelli. Da quando aveva fatto il suo ingresso al Magnolia College, a sei anni, i fili turchini e le pile di libri in strane lingue erano stati il suo tratto distintivo. Anche ora, a tre mesi dalla fine della quarta superiore e dalla chiusura temporanea della scuola che l’aveva accolta per anni, era davanti all’edificio che ospitava l’istituto superiore di tutto il Regno di Fiore e teneva quei capelli turchini corti e ribelli tenuti fermi da una fascetta nera.

Appena era entrata per farsi dire dove trovare la sua classe, la segretaria l’aveva squadrata da capo a piedi, sogghignando. Levy l’aveva ringraziata e poi aveva preso a guardarsi e studiarsi nel riflesso della porta a vetri dell’ingresso: indossava un bustino giallo, coperto da un gilet di jeans scuro, un paio di pantaloncini al ginocchio beige e un paio di sandali rossi dal tacco non troppo alto, come Lucy le aveva imposto il giorno prima. Non le sembrava di esagerare, anche perché perfino Evergreen – che si sapeva fosse un po’ fissata con queste cose, quasi più di Lucy – le aveva dato il suo consenso. Sempre davanti allo specchio improvvisato, provvide a sistemarsi un’ultima volta i capelli con la fascetta, poi raccolse i libri e si avviò verso la classe indicata da quella segretaria che, aveva già deciso, le stava antipatica.

 

Non appena varcò la soglia della classe, si ritrovò una ventina di sguardi puntati addosso, compreso quello del professore che, come la segretaria di poco prima, la squadrò con occhio critico da capo a piedi. Lei fece lo stesso con i suoi compagni di classe: per qualche secondo gettò lo sguardo su di loro, per farsi una piccola idea delle persone con cui avrebbe condiviso quell’ultimo anno. Notò che nessuno di loro, a differenza di come era abituata a Magnolia, nessuno aveva un segno distintivo. Ricordava Bisca che un giorno s’era presentata con i capelli verdi, Kana che aveva “personalizzato” la sua divisa con delle tasche aggiuntive per le sue fiaschette, Erza che indossava una spada con il fodero decorato, Gray che aveva la mania di spogliarsi, Jet e i suoi tutt’altro che normali cappelli… insomma, erano tutti diversi, perfino quando c’era l’obbligo di indossare la divisa. In quella classe, invece, le parevano tutti davvero noiosi, anche senza le divise tutte uguali; Levy si sentiva risaltare in mezzo a tutti loro.

Il professore gettò l’occhio alla cattedra, dove aveva l’elenco degli alunni e un piccolo fascicolo con le loro schede personali. Quella di Levy, come lei, risaltava tra le altre e in un attimo l’uomo fu in grado di trovarla e leggere il nome della ragazza.

 
«Signorina McGarden, permette una parola?» fece, con voce atona e leggendo il suo nome dal foglio.

«Certamente» rispose Levy, un po’ sorpresa. Perché le voleva parlare? Aveva sbagliato qualcosa? Per un attimo la paranoia si impossessò di lei, si chiese cosa, come, dove e perché avesse sbagliato e si trattenne dal cacciarsi le mani tra i capelli a stringersi la testa, come faceva quando doveva pensare in fretta ad una scusa per levarsi dai guai al Magnolia College – il che accadeva davvero troppo spesso.

Si riscosse solo quando il corpo alto e magro del professore le si parò davanti e chiuse la porta.

«Signorina, ha letto il regolamento della scuola, vero?» le chiese, decisamente scocciato.

«Ovviamente, prima di iscrivermi.»

«Mi dispiace, ma non posso ammetterla in classe. A settembre la preside ha vietato qualsiasi tipo di tinta per capelli, tatuaggi in vista o piercing. Sostiene siano inappropriati all’ambito scolastico.» le spiegò l’uomo, mentre si puliva gli occhiali e sbuffava ad ogni pausa che faceva. Si notava che la cosa non gli interessava minimamente, perché anche il suo “mi dispiace” iniziale, a Levy era sembrato davvero falso.

«Quindi?» si era limitata a chiedere, le mani che improvvisamente le sembravano prudere di rabbia mentre Levy ribolliva dentro e covava un grido indignato – «Io non potrei studiare perché ad una vecchia bisbetica non va bene come mi vesto?».

«Quindi temo che o lei cambia colore di capelli oppure lascia la scuola. E per oggi non posso ammetterla in classe.» il professore snocciolò il tutto quasi come fosse un automa, poi guardò l’orologio e concluse il suo penoso discorso con un «Spero di rivederla domani con un colore di capelli normale, signorina.» del tutto privo di interesse o simpatia. Rientrò in classe, lasciandola lì, sola come un’allocca nel corridoio.

 

Venerdì – Settimana uno

Alle nove del mattino, Levy esibiva ancora fieramente i suoi singolari capelli turchini e, per le vie del parco, era già partita speditissima nello studio del programma di quell’ultimo anno. Tramite Makarov, il preside del Magnolia College, aveva preso accordi con quella rompiscatole della preside della scuola che in quel momento avrebbe dovuto star frequentando perché lei studiasse da sola e, a fine anno, sostenesse l’esame di maturità, quindi si era fatta dare il programma e si era messa a studiare.

Il lunedì, appena fuori dalla scuola, aveva chiamato Makarov, che era una specie di nonno per gli studenti, e l’aveva informato della situazione. Lui aveva poi fatto pressione all’altra preside per questa soluzione, dato che sapeva benissimo che Levy fosse in grado di affrontare l’esame anche da autodidatta e, il giovedì, finalmente quella aveva ceduto e aveva provveduto ad inviarle il programma – nel mentre che lei si era già portata avanti seguendo il libro.

A quell’ora del mattino, le uniche persone che davano vita alla città erano gli anziani in pensione – aveva promesso che avrebbe partecipato ad una partita di scacchi, appena finiti gli esercizi – sulle panchine e le donne con bambini molto piccoli. Levy aveva scoperto che era davvero molto meglio studiare lì piuttosto che in casa quando, quell’estate, aveva individuato una panchina riparata da una quercia con tanto di tavolo in pietra, avvolta nel silenzio, un po’ isolata dalle altre panchine e al tempo stesso un buon punto di osservazione sul viale; a Levy piaceva molto guardare le persone che passavano oltre il tomo di turno e l’aria frizzante dell’autunno le riempiva e pizzicava i polmoni.

Concluse il piccolo cerchio che metteva sempre al posto dei puntini sulle i e, soddisfatta, chiuse il quaderno. Sistemò il libro di testo e il suo grosso volume nella borsa a tracolla che utilizzava da anni, nonostante le continue proteste della povera Lucy che, per la sera, l’obbligava sempre a sceglierne una più carina – nonostante le borse di Levy fossero sempre enormi perché dovevano contenere i libroni che piacevano tanto a lei – e si diresse dal signore a cui aveva promesso la partita a scacchi.

 



Mercoledì – Settimana due

Da un paio di giorni, oltre a lei, a quello che oramai considerava “il suo tavolo”, era seduto anche un altro ragazzo, molto probabilmente della sua stessa età. Aveva un ghigno che metteva in mostra i canini appuntiti, dei piercing al posto delle sopracciglia, ai lati del naso e due sotto il mento. I capelli erano folti, lunghi e color del buio, avevano l’attaccatura alta e, in qualche modo, pur restando liberi sulla schiena, rimanevano dietro le orecchie, lasciando che altri piercing facessero la loro bella figura. Per quel che poteva vedere Levy, era vestito di nero e l’unico colore che staccasse un po’, oltre al gridio del metallo, era il carminio dei suoi occhi.

Si limitarono ad un breve saluto, mentre poi lei occupò metà del tavolo con i suoi libri e lui l’altra metà con dei pezzi metallici.

A fine giornata, quando il sole stava ormai per tramontare, se ne andarono entrambi, rivolgendosi solo un saluto di cortesia.




Lunedì – Settimana tre

Quando arrivò al tavolo, quella mattina, non aveva visto il solito ragazzo con i pezzi di metallo sparsi per il tavolo e aveva scosso le spalle, per poi subito dopo ricominciare a studiare. Solo verso le quattro e mezza – aveva controllato sul suo orologio da taschino, un regalo di Lucy – aveva visto tornare quello strano ragazzo, silenzioso e sempre sulle sue nonostante l’aspetto da attaccabrighe e guerrafondaio.

Si era portato dietro i soliti pezzetti di metallo e qualche attrezzo e si era messo ad armeggiare con il materiale nel mentre che masticava un chiodo.

Levy si limitò ad un cenno veloce per salutarlo e se ne tornò alla sua interessantissima lettura.

 

 

Giovedì – Settimana tre

Voltò l’ennesima pagina di quel grande volume e spostò per qualche secondo la sua attenzione ad un blocchetto per appunti lì accanto, dove scarabocchiò qualche frase nella lingua nel libro, tradotta poi nel linguaggio moderno. Era tornata alla sua panca – “sua”, erano tre settimane che la occupava.

Sul momento, non si accorse dello sguardo che si era fissato su di lei. L’aveva visto di sfuggita, con la coda dell’occhio: una sorta di ombra nera – che poi aveva identificato come un ragazzo, quello che si sedeva sempre lì – si era accomodata sulla panca opposta al tavolo, mentre lei rimaneva appoggiata con la schiena al tronco dell’albero, che era cresciuto proprio accanto alla panca, con le gambe piegate a fare da leggio per il grande libro e una mano che reggeva la penna. Levy decise di aspettare pazientemente che quello si mettesse al lavoro, come aveva fatto per tutti i pomeriggi precedenti e lo ignorò, ma, evidentemente, lui non era dello stesso parere. Notò anche che di solito di mattina non veniva mai, solo al pomeriggio, intorno alle quattro e mezza.

 

«Cosa ci fa una ragazzina fuori da scuola a quest’ora?» chiese lui. Levy alzò lo sguardo dai caratteri che riempivano le pagine del tomo per osservare il ragazzo con uno sguardo tra lo stranito e lo scocciato.

«Prego?» Levy aveva alzato un sopracciglio e il suo tono esprimeva tutto il suo disappunto per quell’odiosa interruzione.

Il ragazzo, però, non parve per nulla scoraggiato o infastidito da quella risposta e, continuando ad esibire i denti bianchissimi, replicò come se nulla fosse. «Ho detto: cosa ci fa una ragazzina fuori da scuola?»

«Dubito siano affari tuoi.»

«Sono due settimane che ti vedo qui e stai sempre a leggere o studiare. Hai deciso di marinare la scuola?» insinuò ancora lui, poggiando un gomito sul tavolo e puntellando il mento sul palmo della mano. «Non mi sembri proprio il tipo.»

«No, infatti. Tu piuttosto sembri esserlo, il tipo.» ribatté Levy, che oramai aveva perso completamente interesse nel libro. Quel ragazzo la stava incuriosendo: perché un tipo del genere si interessava a quello che faceva una come lei? Non avrebbe fatto prima a ignorarla come nei giorni precedenti?

 Pose il segnalibro tra le pagine – odiava dovervi fare le orecchie e qualsiasi foglietto era utile come segno – e lasciò il volume sul tavolo per poi sistemare penna e blocchetto nella borsa.

«Infatti, ma più che altro mi hanno buttato fuori, ghihi.» aveva una risata strana, ma la piccola Levy dovette riconoscere che le piaceva; particolare e sommessa, così diversa da quelle a cui era abituata a Magnolia.

«Stessa cosa. La Reale di Crocus ha stabilito che i miei capelli “non sono consoni all’ambiente scolastico”.» rise Levy, imitando il tono del professore che le aveva snocciolato quella frase odiosa.

Il ragazzo ridacchiò e si espresse nel suo – Levy ne era certa – solito ghigno. «Alla Reale sono un branco di idioti. Ma io il diploma l’ho preso qualche anno fa, con la sufficienza presa a culo, proprio.» fece, aspettandosi una faccia leggermente indignata per il linguaggio scurrile da parte di lei, che invece rise.

Il ragazzo si stranì e lei, notandolo, spiegò: «Al Fairy Tail sono tutti casinisti senza un minimo di educazione, ne ho sentite di tutti i colori prima di lasciare Magnolia.» e poi si girò, per mostrare il tatuaggio che recava il simbolo del bar.

Il Fairy Tail era famoso in tutta Fiore per le abilità nel gioco e nelle competizioni sportive. Perché a Fiore gli atleti non competevano per le scuole o le palestre, ma per i bar, e tutti coloro che facevano parte della squadra di un bar, detto anche Gilda, aveva un tatuaggio che dimostrava la sua appartenenza a quella determinata squadra. Le squadre erano formate dagli elementi più disparati, che fossero specializzati in competizioni di stampo fisico o intellettuale.

 

Il ragazzo fece per ghignare di nuovo ma il sorriso gli morì sulle labbra quando Levy prese di nuovo la parola: «Sai, mi sono appena accorta di averti riconosciuto: Gajeel Redfox, affiliato dell’ex Gilda Phantom Lord, sciolta dopo che Fairy Tail le ha fatto il culo a strisce, come dice Natsu, alla competizione dello scorso anno.» Levy aveva un tono sicuro perché, nonostante quel ragazzo sembrasse una spaventosa montagna di muscoli e metallo, lei aveva capito che non era poi così cattivo solo avendolo visto durante quei pomeriggi; mai, in tutto quel tempo, aveva avuto uno sguardo cattivo come l’anno prima, mentre combatteva con Natsu sul ring.

 

«Hai fatto centro, piccoletta. Tu non sei mica la Fata delle Rune?» Gajeel non sembrò molto scosso, tanto che recuperò perfino il ghigno perso qualche minuto prima.

«Sorcerers mi chiama così.» fu la semplice risposta, fornita con un mezzo sorriso.

Gajeel buttò l’occhio sul tavolo, dove erano poggiati il libro e l’orologio da taschino della ragazza. «Scusa un attimo.» borbottò, prima di afferrare l’oggetto in argento e scrutare il quadrante interno. «Sono in ritardo, non vorrei mai che quello spilorcio di Gerard mi detragga troppo dalla paga per questa piccola pausa.» fece, poi chiuse l’orologio e, mentre scappava verso il suo stipendio, lanciò l’oggetto in mano a Levy che lo prese prontamente.

Levy sorrise e scosse la testa. Quel pomeriggio non l’avrebbe visto.

 

Sabato – Settimana tre

Anche quel giorno, Levy era al solito tavolo a studiare. C’era giusto un po’ di vento e ogni tanto si ravviava i capelli che, nonostante la fascetta – quel giorno era verde –  glieli tenesse un minimo in ordine,  finivano a solleticarle il viso. Per essere fine settembre, quell’anno faceva davvero caldo, tanto che ancora portava il panciotto blu e i pantaloncini bianchi. Aveva semplicemente integrato con delle maniche un po’ svasate, di tessuto bianco e fermate da nastri verdi, e delle parigine nere, per compensare il fresco portato dal vento.

Giusto il giorno prima aveva terminato il secondo capitolo del libro di matematica con relativi esercizi, mentre quel giorno si portava avanti con il programma di storia. Ovviamente le serviva a poco il libro di testo quando lei, a casa sua, aveva volumi e volumi della storia mondiale in ogni periodo, che aveva letto centinaia di volte per uno, ma voleva comunque farsi un’idea di come la raccontava quel libro, per non aggiungere troppo durante l’esame finale.

 

«Ciao Gajeel.» salutò lei, ad un tratto, senza sollevare lo sguardo dalla pagina che stava evidenziando in arancione.

«Fata delle Rune.»

«Mi chiamo Levy. Pensavo avessi cercato su internet ieri.» ridacchiò. Finalmente, chiuse l’evidenziatore e lo ripose nell’astuccio, sollevando lo sguardo fino al viso di lui.

«Allora, ciao Levy. Ghihihi.» Gajeel aveva sempre avuto quella strana risata e solo l’anno prima la trovava terribilmente inquietante, forse perché oltre che dal ghigno, era accompagnata da uno sguardo carico di odio per il mondo e – Levy l’aveva notato dalle registrazioni che si era vista la sera prima – per sé stesso. Ora, quella risatina e quel ghigno a lei sembravano addirittura teneri. Doveva essere solo una sua impressione perché, nel mentre, una madre aveva allontanato il figlio dicendo di non guardare “l’uomo nero che dà fastidio alla ragazza”.

 

Levy, udendolo, ridacchiò. «Giovedì hai detto di starmi guardando da due settimane. Però sei stato al tavolo solo lunedì. Lavori qui vicino?» chiese. Mise da parte il libro di storia, ora decisamente poco interessante.

Gajeel, come suo solito – Levy aveva ragione, quando l’aveva supposto quel giovedì – ghignò e si sedette subito di fianco a lei, sul tavolo sgombro, e le indicò un punto oltre la recinzione del parco, qualche decina di metri più lontano.

«Lavoro là.» disse semplicemente prima di voltarsi verso di lei e mettere i piedi sulla panca.

«Sì, devo dire che da lì si vede bene.» replicò Levy, contenta. «Accanto all’officina c’è una bellissima libreria.» spiegò e Gajeel non poté che ridacchiare: l’aveva davvero cercata su internet e aveva scovato un’intervista del Sorcerers dove mostrava la sua biblioteca personale, che comprendeva la sua stanza al Magnolia College, uno scantinato originariamente usato come cantina di vini e un’intera stanza al Fairy Tail.

«Immagino.» rise. «Oggi ho da fare ma giovedì ho il giorno libero, quindi ti accompagno a prendere i libri.» decretò.

«Quei volumi pesano parecchio, mi fa davvero comodo un aiuto.»

«Allora a giovedì. Io vado.» salutò il ragazzo, girandosi e scendendo agilmente dal tavolo.

«A giovedì, Kurogane.» Levy chiuse l’orologio che segnava mezzogiorno e mezzo e riprese il libro di storia.

 

Quel pomeriggio, Levy, alzando lo sguardo dal libro, aveva buttato lo sguardo oltre le fronde degli alberi che circondavano il viale e aveva notato una chioma corvina e scintillante metallo che armeggiavano con un’auto. La ragazza sorrise e si scostò una ciocca dal volto, prima di tornare alla foto di un Maggiolino Volkswagen della Seconda Guerra mondiale.

 

Mercoledì – Settimana quattro

Come aveva annunciato, Gajeel in quei giorni non si fece vedere al parco, tanto meno al tavolo di Levy, che alle due si era decisa a chiudere il libro di inglese per mangiare qualcosa. Così aveva lasciato il suo adorato tavolo ed era andata a mangiare nella pizzeria d’asporto lì vicina.

Quando era tornata, che già addentava una di pizza tirata fuori dal cartone, aveva trovato il tavolo già occupato. Riconobbe immediatamente la donna e il bambino di quel sabato, quando la donna aveva allontanato il figlio da Gajeel definendolo “uomo nero”.

Lei la salutò calorosamente e il bambino, squadrandola, saltò in piedi chiedendole se il ragazzo cattivo l’avesse lasciata in pace.

«Tesoro, si saluta!» lo riprese la madre.

«Non importa, stia tranquilla. Comunque, non è cattivo» disse Levy, rivolgendosi sia al bambino che, indirettamente, alla madre. Mise il cartone della pizza sul tavolo e si sedette nel suo angolino, dato che gli “ospiti” avevano occupato il lato che solitamente ospitava Gajeel. «Gajeel è un mio amico, non mi dava fastidio. Davvero.» aggiunse vedendo che il bambino continuava a guardarla poco convinto.

«Sicura?» fece ancora il marmocchio e se Levy fosse stata anche solo un pochino di più come Gajeel gli avrebbe risposto male. Ma lei era troppo pacata per fare una cosa simile, quindi si limitò ad annuire.

 

«Mi spiace per quanto ho detto sabato, signorina.» inaspettatamente, la madre prese la parola. «Non avevo idea che foste amici e lei mi sembrava un po’ infastidita…»

 Levy squadrò ancora la donna e nella sua espressione non trovò traccia di pentimento vero per quanto aveva detto. Le sue scuse non erano sincere e Levy combatté contro sé stessa per non storcere il naso.

 

«Non si preoccupi signora. Anche a me, la prima volta che l’ho visto, diede quest’impressione. Fortunatamente è molto diverso da come appare.» Levy però rise, ripensando che davvero, il loro primo incontro era stato tutt’altro che roseo. C’era voluta una bella scazzottata con Natsu – durante la quale le aveva prese di brutto – per fargli capire quanto il suo comportamento fosse orribile.

La ragazza, poi, tirò fuori dal cartone un’altra fetta di pizza e, dando un’occhiata all’orologio da taschino, sospirò. «Mi spiace, sono davvero in ritardo. Mi ha fatto piacere parlare con lei. Alla prossima!», disse. Poi prese il cartone della pizza con una mano, la sua borsa con l’altra e se ne andò a passo spedito, decretando che quel pomeriggio avrebbe studiato a casa.

 

Quella sera, bevendo la sua tazza di tè fumante, ripensò al tono della donna qualche ora prima e scosse la testa. Lui era davvero diverso dall’anno prima, se n’era accorta, e quella donna non poteva sapere quanto profondamente fosse cambiato. S’infilò a letto che era molto tardi e si addormentò contenta, perché il giorno dopo sarebbero usciti insieme – e anche perché avrebbe portato a casa nuovi libri, dove li avrebbe messi ora non era un problema.

 

Giovedì – Settimana quattro

Per quel giorno, Levy si era vestita come al solito: comoda; pantaloni beige con una maglia arancione con scollo a barca, decorata con righe nere e delle maniche, staccate dal resto, dello stesso colore, come le calze e il nastro che le domava i capelli. Non aveva nemmeno preso la sua solita borsa, aveva solo infilato il cellulare e il portamonete nelle tasche e si era avviata verso il parco, dove si erano sempre visti, sedendosi al suo tavolo.

Non dovette aspettare molto, nell’arco di mezz’ora Gajeel arrivò con la sua solita aria spavalda. «Andiamo, piccoletta. Immagino ci aspetterà una tonnellata di libri.» indicò col pollice alle sue spalle, verso la libreria e ghignò.

«Non mi chiamare piccoletta, ho un nome, io!» Levy protestò, gonfiando le guance, mentre Gajeel la alzava di peso e la portava con sé, esprimendosi nella sua usuale risatina.

«Non è divertente!»

«Invece è divertentissimo! Ghihihi.»

«Antipatico.»

 

La posò a terra solo una volta arrivati all’officina. Quattro passi più in là c’era la famosa libreria. Levy entrò per prima e Gajeel al suo seguito. Non era mai entrato in quella libreria – in nessuna libreria, per essere precisi – e si trovò a guardarsi intorno, per familiarizzare con quell’ambiente polveroso e pieno di libri dall’aspetto vecchio e pesante. I raggi del sole pomeridiano s’infiltravano dai vetri della porta e dalla vetrina, donando al luogo un che di surreale. Era una libreria d’antiquariato ma, per quanto ne sapeva Gajeel, di solito le librerie non erano luminose e pulitissime?

«Queste tendono ad essere un po’ meno frequentate e di solito agli appassionati piace questa atmosfera.» Levy gli rispose in tono pacato e solo allora Gajeel si rese conto di aver borbottato come una pentola di fagioli i suoi pensieri.

«Ah.» rispose semplicemente. Colto in fallo, si portò una mano tra i disordinati capelli corvini a grattarsi la testa, come faceva sempre quando era in imbarazzo.

 

Contrariamente a quanto Gajeel si era aspettato da quel pomeriggio, nella libreria trascorsero un’ora sola, il tempo necessario a fare l’inventario di tutti gli ordini, controllare la merce e caricarsela tra le braccia. L’espressione del ragazzo mutava da una sfumatura più lieve ad una più intensa mano a mano che il proprietario del negozio impilava i libri sul bancone e che Levy li scrutava contenta spuntando titoli dalla lista che teneva in mano.

«Quindi, dove li portiamo, Gamberetto?» fece Gajeel non appena, libri in mano, furono usciti dal negozio.

Levy gonfiò le guance, leggermente indispettita dal nuovo nomignolo. «A casa mia. In questa c’è spazio.» disse, muovendo alla cieca il primo passo verso la meta; la pila di libri, a lei, arrivava appena sopra gli occhi. «E poi che c’entra “gamberetto” con me?» chiese, curiosa.

Non lo vide ghignare, ma fu certa che l’avesse fatto. «Levy, Ebi*. Semplice, no?»

 

Levy nel frattempo si muoveva sicura per le vie della città, diretta al suo appartamento, mentre Gajeel la seguiva un po’ sorpreso: lui vedeva oltre la coltre di libri, lei no, eppure aveva il passo più sicuro e deciso del suo.

«Rallenta, piccoletta. Almeno vedi dove stai andando?» la fermò ad un tratto. Proprio non capiva e lui odiava non capire – anche se di solito mollava la cosa in questione e se ne andava a bere una birra o a fare a botte.

«Certo che sì» rispose. «Sono abituata, io» e ridacchiando riprese la marcia. Gajeel la seguì, scrollando le spalle per quanto gli era possibile. Lui pensava di dover stare delle ore in quella libreria, invece stava andando tutto al contrario di quanto aveva previsto.

 

Ci volle solo un quarto d’ora di intenso slalom tra i passanti e di sollevamento pesi per giungere all’appartamento di Levy. Era un semplice condominio nelle vicinanze della scuola, dallo stile moderno e minimalista. Levy, durante la camminata, gli aveva anticipato che l’aveva preso perché costava poco, dato che lei preferiva le case un po’ più vecchie, quelle costruite con stili e colori particolari. Gajeel non la trovava così male, come dimora. Certo, non se paragonata al suo monolocale in un caseggiato non proprio messo bene e che divideva con gente poco rispettabile.

Salirono otto rampe di scale, per arrivare all’ultimo piano, il quarto, dove viveva la ragazza.

«Attento a dove metti i piedi, ancora non ho sistemato gli scatoloni.» gli disse, mentre con una mano e con il ginocchio reggeva la sua pila di libri e con l’altra faceva scattare la serratura della porta d’ingresso.

 

Le imposte erano chiuse e la poca luce che filtrava illuminava il caos che dominava l’appartamento. Gajeel si trovò a ghignare, pensando che, dopotutto, non era l’unico disordinato che si curava  più dei bulloni – nel caso di Levy erano libri – che non dell’ordine in casa. Nemmeno se ne accorgeva, talvolta.

Levy posò immediatamente i libri sul tavolino già ingombro nel salotto, andando ad aprire le finestre e le persiane, così da non dover accendere la luce. Quando si arrampicò sul divanetto accanto ad una finestra per poter aprire anche quella, Gajeel aveva già spostato l’attenzione dal suo sedere – molto interessante – al resto dell’appartamento. Sul pavimento c’erano diverse scatole, alcune aperte, altre no, e un mucchio di libri in un angolo che attendevano di essere sistemati da qualche parte. Gajeel dovette presumere che fossero in attesa di una mensola, viste le assi di legno e i sostegni che giacevano come abbandonati sul pavimento. Ridacchiò e posò a sua volta i libri sul tavolino, facendo per raggiungerla.

«Grazie mille per l’aiuto, Gajeel. Posso offrirti qualcosa?» gli chiese, avviandosi verso la cucina.

«No, sono a posto. Piuttosto… Se ti aiutassi con le mensole» e indicò le assi «ti lasceresti portare a cena?»

Levy per un minuto tacque, facendo passare rapidamente lo sguardo dalle mensole a Gajeel e da Gajeel alle mensole.

«Quando?» fu la sua risposta.

 

Sabato – Settimana tredici

Le luci dei lampioni erano deboli e soffuse, così che le stelle risultassero perfettamente visibili anche per le vie della città. A Fiore, diversamente da molti altri Paesi, le persone erano in stretto contatto con la natura, il nome stesso dello Stato e delle città lo palesava.

Oramai l’aria era fredda e pungente e le persone avevano rispolverato i cappotti da qualche giorno, con la neve che si confondeva con le masse gassose nel buio del cielo. Levy osservava quei fiocchi meravigliata, avvolta nella sua calda e lunga sciarpa. Al suo fianco, Gajeel ghignava, osservandola. La trovava davvero adorabile con quello sguardo così scintillante che quasi spariva tra le pieghe del cappotto e della sciarpa.

«Ohi, Gamberetto, guarda che il chiosco chiude» Gajeel la richiamò.

Levy sembrò riscuotersi e si rivolse verso di lui con un gran sorriso. Annuì e si riportò al suo passo, procedendo assieme per le strade di Crocus. Quella sera c’erano poche persone e Levy adorava quell’atmosfera che sembrava quasi magica.

«Sembra di vedere la coda delle fate» bisbigliò. Gajeel non comprese quella frase ma si disse che doveva essere collegata con Fairy Tail, la Gilda di Levy. Non poteva certo sapere che i membri di quella Gilda citavano la prima Master davvero raramente, unicamente nei momenti che per loro erano più speciali.

 

Era tardi ma la città assumeva un’aria sempre più magica ogni minuto che la notte la dominava e agli occhi di Levy quella serata assumeva le sfumature della perfezione. Avevano cenato qualche ora prima ed erano rimasti a vagare per le vie di Crocus fino al termine della festa di paese. Non sapevano che ora fosse ma, poco prima che le bancarelle chiudessero, Levy ne aveva trovata una che vendeva delle fascette davvero bellissime e ne aveva comprate una per sé e una per Gajeel, che quando lavorava ne portava sempre per domare la zazzera corvina.

Ora si stavano dirigendo verso la casa di Levy, che era la più vicina. Erano ben pochi i negozi ancora aperti a quell’ora ma Crocus era la capitale e i turisti visitavano la città a qualsiasi ora, quindi si trattava per lo più di negozi di souvenir e chioschetti che offrivano leccornie di vario genere. Sulla loro strada, si affacciava sulla piazzola uno di questi chioschi, la cui insegna mostrava invitantissime crepes calde. Gajeel, quando vide l’espressione sognante di Levy nell’adocchiare quell’immagine, ghignò.

«Aspetta qui, Fata delle Rune, torno subito.» e le scompigliò i capelli prima di avvicinarsi al chiosco.

Levy, dal canto suo, aveva annuito, poco prima di adocchiare una vetrina illuminata, che esponeva diversi articoli di cancelleria, in particolare delle stilografiche magnifiche. Dimentica di tutto, si avvicinò alla vetrina, non molto lontana dal punto in cui di trovava prima – sei o sette passi, Gajeel l’avrebbe vista comunque – andando quasi a spiaccicare il naso sul vetro per osservare quelle meraviglie.

Dopo un tempo che le parve infinito, Levy si sentì picchiettare sulla spalla con un dito e si girò con un gran sorriso, aspettandosi di trovare Gajeel dietro di sé. Con sua somma sorpresa, però, alle sue spalle non c’era nessuna montagna di muscoli e metallo – le era proprio rimasta impressa quella descrizione del Sorcerer – bensì un ragazzo abbastanza alto e con lo sguardo che non prometteva nulla di buono. Barcollava e si vedeva lontano un miglio che di lucido aveva solamente gli occhi. A completare il quadro, un penetrante odore di sakè – di pessima qualità, aggiunse Levy nei suoi pensieri – e un sorriso tutt’altro che simpatico.

«Scusa, ma non potrebbe essere che ti ho vista su Sorcerer?» le fece, squadrandola dall’alto in basso.

Levy esitò un attimo, prima di rispondere, valutando ogni opzione di fuga. Il ragazzo gliele aveva tagliate tutte, intrappolandola tra le sue braccia lunghe e magre. «Sì. Nell’articolo dedicato a Fairy Tail» disse, decisa, con l’intento di spaventarlo. La Gilda aveva la fama di essere piuttosto irruenta e distruttiva.

Evidentemente, il ragazzo non si aspettava una risposta del genere e decise di ripartire all’attacco. «Ti è caduto il bracciale, bella.».

Levy non rispose, indecisa se provare più pena o disgusto per la quantità di pessimo sakè che aveva bevuto – davvero, Kana le aveva insegnato bene a riconoscere l’alcol di qualità e quello che si era scolato il tizio doveva essere quello dell’hard discount – perché lei, di bracciali, non ne aveva messi.

«Ma lo sai che sei abbastanza alta per fare… quella cosa lì?» disse, indicando con un’occhiata piuttosto eloquente il cavallo dei pantaloni.

Levy, appena compreso di che cosa stesse parlando, gli rivolse uno sguardo disgustato. Nella mente, le si figurò l’immagine di Erza che atterrava un pervertito nelle vicinanze del Fairy Tail con un calcio ben assestato e pensò che, date le condizioni del tizio, anche lei avrebbe potuto riuscirci.

«Sai per cosa sono abbastanza alta?» soffiò, guardandolo negli occhi per distrarlo dalle sue reali intenzioni.

«Non vedo l’ora di scoprirlo.» l’altro aveva già la bava alla bocca che si contorse in una smorfia di dolore nel giro di pochi secondi.

«Sicuro?»

Il tizio crollò in ginocchio, con le mani in mezzo alle gambe in un non troppo utile tentativo di alleviare il dolore ai gioielli di famiglia, mentre Levy si sbrigava a scavalcarlo e a raggiungere Gajeel, fermo immobile a fissare il punto in cui era lei qualche minuto prima, reggendo un paio di crepes piene di cioccolato.

 

Levy gli sorrise, guardando poi con occhi sognanti la crepe che Gajeel le porgeva.

«Grazie mille, Gajeel!» disse, mentre tornavano ad avviarsi verso casa sua.

«Che ti ha detto quel tizio per farti reagire così?» le chiese, curioso e ghignante. «Scommetto nulla di troppo pulito, ghihihi.»

Levy gli diede un leggero pugno sul braccio e riassunse in breve la scena.

«Quello ha davvero un pessimo repertorio.» rise.

«Perché, il tuo è migliore?» chiese Levy, finendo la sua crepe.

«Fino a prova contraria, sta sera con te ci sono io.»

 

Levy rise e, per concludere in bellezza, quella sera – o meglio, notte – Gajeel non tornò a casa. Quando Lucy venne a scoprirlo, un paio di giorni dopo, Levy era la sua ragazza e, nel giro di qualche giorno, si ritrovò ad essere chiamata perfino da Erza, in seduta comune con Kana e Lucy, per accertarsi del suo stato di salute.

«Era di Phantom, Levy!»

«Appunto, era. Sembra un orso in letargo quando dorme»

«Fatti valere, Fata Turchina!» urlò Kana in lontananza. «Il Metallaro» come lo chiamava lei «non ha scampo!»




 
[5 379 words]
Angolo autrice
Buonasera a tutti!
All'oramai alba di sabato, riescoa pubblicare questa one-shot che ho in lavorazione da tipo gennaio (il tempo scarseggiava, okay?).  Volevo dirvi due o tre cosette riguardo a questa strana storia, che a dire la verità potrebbe sembrare un pochino campata per aria e in effetti lo è:
  • É basata su tre cose, passatemi da NanaLuna❤︎, che non avendo letto FT ma dovendo sopportare i miei scleri (grazie ❤︎) ha soprannominato Gajeel e Levy appunto "Metallaro e Fata Turchina". Poi mi ha passato anche un articolo su una ragazza espulsa da scuola perchè aveva i capelli colorati e mi sono detta: Aggiungiamolo! 
    Idem per un articolo di Oltreuomo che riportava la frase sull'altezza. No comment.
  • La beta è proprio la Nana, se trovate delle cazzate colossali è colpa sua (poverina)
  • Il titolo fa schifo, ma non avevo di meglio. Se voi avete idee migliori, sarò ben felice di ascoltarvi. (No, sul serio, fa schifo, aiuto)
  • Dedico questa storia alla splendida Mary Linely❤︎, che mi sostiene sempre e mi aiuta quando può. Spero davvero che ti possa piacere, anche se la prima parte non è stata esattamente una sorpresa come avrei voluto. L'inghippo dell'OOC è sempre dietro l'angolo!
  • Ringrazio tutti voi che avete letto e, magari, recensirete anche. Mi fate davvero felicissima, soprattutto quando penso che le mie schifezze storie possano almeno strappare un sorriso a qualcuno!
​Con questo, termino il mio "angolino", che se no lo faccio diventare lungo come la storia. Spero non vi siate annoiati a leggerla, anche se è davvero molto lunga.
E niente, buona Pasqua e alla prossima.

Tata ❤︎

P.S.: i cuori blu sono i link per le loro pagine
P.P.S: se volete seguire i miei deliri, ho un profilo FB e uno Twitter, che potete raggiungere dalla mia pagina autrice. Potete anche mandarmi le maledizioni che state pensando in questo momento :v
Ein, zwei, drei! *sparisce*

 
 
   
 
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