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Autore: Averroe    31/03/2009    4 recensioni
Anno 4322: terza guerra mondiale. Mentre gli uomini sono impegnati a sterminarsi a vicenda, la Terra ha dato inizio ad un irreversibile processo di autodistruzione. Cinque anni dopo questo processo sta per giungere a termine. Il genere umano sta evacuando il pianeta per dirigersi su Marte, ma tra gli ultimi rimasti c’è chi è convinto che non ne valga la pena.
È la prima fanfic che scrivo da sola, per favore siate compassionevoli (qualsiasi errore di tipo grafico è dovuto alla mia incapacità cronica di gestire qualunque cosa riguardi l’informatica). Questa fanfic è dedicata a _FrancySoffi_ e carlottasole, mie esimie colleghe nonchè comari, sebbene la storia non ci riguardi minimamente (per fortuna). Vuole essere semplicemente un segno di affetto nei loro confronti.
Genere: Malinconico, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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“Gwen. Dobbiamo andare.”

Non mi mossi, continuando a dargli la schiena. Stavo ferma, di fronte alla finestra. Lo sentii sospirare.

“Gwen.”

Se anche avessi voluto voltarmi a guardarlo, non avrei potuto. Ero praticamente ipnotizzata. Era come se avessi perso il controllo sul mio corpo. Fissavo immobile il desolante panorama, perfettamente conscia del destino incontro a cui sarei andata se non avessi ascoltato le esortazioni di Dave. Eppure non mi muovevo. Non potevo muovermi. Ogni fibra del mio essere si tendeva inspiegabilmente verso ciò da cui sarei dovuta fuggire, mentre il poco di razionalità che mi era rimasta mi incitava a voltarmi e seguire il ragazzo fermo sulla soglia. Il contrasto di impulsi mi inchiodava sul posto.

“Gwen”, chiamò ancora Dave, secco. Dave era sempre secco. Mi ero sempre detta che dietro la barriera di distacco doveva esserci una profonda sensibilità – lo dicevano tutti – ma sinceramente era da un po’ che avevo cominciato a dubitarne seriamente. Anzi, forse non ci avevo mai creduto.

“Gwen, stammi a sentire.”, sibilò a denti stretti. “Non ho intenzione di morire per i tuoi capricci.”

“Nessuno pretende che tu compia un simile sacrificio.”

Tacque per qualche istante. Osservavo rapita le colonne di fumo scuro che si erigevano in lente e impassibili volute all’orizzonte. Appoggiai una mano sul vetro della finestra. Era più facile, in quel modo, rendermi conto di quanto fosse vero ciò che avevo davanti agli occhi. Ero assolutamente consapevole del fatto che ciò che vedevo stava accadendo realmente, ma l’idea era difficilmente concepibile, tendeva a sfuggire dalla mente, a cambiare forma. Invece avere la mia mano lì davanti, familiare e assolutamente concreta, forniva al mio instabile subconscio la prova che altrettanto concreto era il paesaggio lì fuori.

“Basta, Gwen. Dobbiamo andare.”

“E allora vai.”

“Ho detto dobbiamo, Gwen. Tu verrai con me.

Non risposi.

“Non c’è tempo”, disse ancora, ma ormai aveva perso convinzione. “L’ultima navetta è in partenza.”

“Già. Dovresti fare in fretta.”

“Piantala.”

“Vattene.”><= /o:p>

“Piantala, Gwen.”

Continuai a fissare l’orizzonte. Seminascosti dal fumo, potevo scorgere i vulcani di recente formazione, che eruttavano ininterrottamente con devastanti esplosioni. La lava incandescente aveva percorso molto spazio molto in fretta, la distruzione che aveva seminato era lì, davanti ai miei occhi, neanche poi così lontana. Una scossa sismica, l’ennesima scossa, fece vibrare le pareti dell’edificio. L’epicentro doveva essere lontano, perché mentre dove ci trovavamo non aveva provocato danni – non più delle precedenti, perlomeno – vidi in lontananza due alti palazzi dalle vetrate a specchio crollare improvvisamente, e diverse crepe aprirsi nel terreno. Una navetta sfrecciò rapida non molto distante dal tetto del palazzo e prese immediatamente quota. Era certamente diretta a New York, per unirsi alle altre. New York costituiva uno dei porti più importanti del pianeta, ora er= a in gran parte lì che ci si radunava per l’evacuazione. Ma io non avevo intenzione di raggiungerla. Io non avevo intenzione di andarmene e seguire il resto dell’umanità su Marte. Già, Marte R Era l’unica possibilità. Una possibilità a cui in quel momento stavo deliberatamente sputando in faccia. Questo era ciò che la parte razionale del mio cervello mi gridava ininterrottamente. Ma che senso avrebbe avuto andarsene? Salvarsi? A che scopo? Sarei sopravvissuta, sarei arrivata su un pianeta su cui fino ad allora c’erano state solo sedi i ricerca e sperimentazioni i cui scopi non erano di dominio pubblico. E una volta lì? Che cosa avrei dovuto fare? Ricominciare? Ricominciare cosa? Ce l’avevo, io, qualcosa da ricominciare?

Sentii i passi di Dave avvicinarsi. “Perché?”, chiese semplicemente, accostandosi a me.

Restammo immobili davanti alla finestra, i volti imporporati dal caldo bagliore emanato dalla lava incandescente e dai repentini lampi di luce scaturiti dalle continue esplosioni.

Tutta quella devastazione era opera dell’uomo. Come sempre.

Anno 4322. Dopo le pericolose tensioni, dopo i vani tentativi di accordo, dopo le infinite e inutili trattative, ciò che tutti temevano da tempo era avvenuto. Il terzo conflitto mondiale era esploso. Ed era stato assolutamente devastante. Le previsioni dicevano che = la Terra sarebbe stata distrutta per via delle armi nucleari, in quel momento liberate alla massima potenza. E invece il pianeta aveva resistito. Fino ad ora, se non altro.

Avevo visto con i miei occhi molte delle atroci conseguenze della guerra, ma i ricordi erano confusi. Per non parlare di prima. Il pensiero suscitò in me la rabbia e la frustrazione che mi travolgevano sempre di pari passo quando evocavo le immagini sbiadite del conflitto e tentavo inutilmente di fare altrettanto coi fatti che lo precedevano. Tentai di ignorare il pensiero.

La Terza Guerra Mondiale aveva ridotto a meno della metà gli abitanti del pianeta. Ora l’area asiatica ed europea era una zona vietata, abbandonata, blindata, inaccessibile. I controlli erano severissimi, per via dell’alta radioattività del posto. A rigor di logica io ero tra le persone che sarebbero dovute morire, se non durante uno scontro, per le conseguenze dell’esposizione alla radioattività liberatasi. E invece ero viva e vegeta. Un miracolo, mi ripeteva sempre il professor Michaelson. Un fenomeno inspiegabile neanche troppo fortunato, pensavo io.

Ricordavo sfocati attimi di terrore, sofferenza, disperazione, soprattutto delle persone che mi circondavano, sebbene non riuscissi a rievocare i loro volti. E poi la fine. La fine della guerra, ma non del dolore.

I soccorsi – e fortunatamente non i rinforzi, che avrebbero rappresentato altri scontri – erano arrivati numerosi, dotati di tutto ciò che occorreva per ripararsi dalle radiazioni e avevano scandagliato la zona in cerca di superstiti. Io ero una di loro, ed ero stata portata insieme agli altri in America. Coloro che erano sopravvissuti e stati salvati furono ricoverati d’urgenza in un numero elevatissimo di ospedali nei principali centri degli Stati Uniti e del Canada, che avevano collaborato il più efficientemente  possibile. Ma tre quarti di loro morirono poco dopo il salvataggio. Due terzi dei restanti nei mesi a seguire. La maggior parte dei pochi rimanenti in due o tre anni.

Questo era ciò che mi era stato raccontato. Ciò che ricordavo era … ben poco. Un’esplosione. Urla. Terrore. Case che crollavano. Un campo aperto devastato, arido, morto. Persone altrettanto devastate e aride, altre morte. Sfuggenti immagini di scontri, di navette, di altra distruzione. E poi nessuno. Ero sola. Le navette sfrecciavano rapide nel cielo, lasciandosi le consuete scie di fumo dietro. Vedevo le luci intense puntate al suolo. Sapevo che ci stavano cercando. Che mi stavano cercando. Ma erano così lontani... Tendevo la mano verso di loro, tentando di attirarne l’attenzione, ma non mi vedevano. Spalancavo la bocca, nel tentativo di urlare. Io volevo urlare, lo desideravo con tutte le forze. Ma non ci riuscivo. Non potevo. Eppure  non avevo intenzione di rinunciarvi. Volevo essere salvata, non sapevo perché, ma lo volevo, lo desideravo disperatamente. Non volevo morire, non volevo. E poi il buio.

A risvegliarmi era stata una luce abbagliante, bianca, fredda. Nel bagliore frastornante, si era stagliata a un tratto la sagoma nera di un uomo. Mi si era avvicinato, mi aveva teso la mano. Mi parlava sorridendo, ma non lo sentivo. Non sentivo neanche me stessa, in quel momento, credo. E poi un secondo risveglio all’ospedale. Da lì ricordavo tutto bene. Ero stata trasferita in una casa famiglia e poi dopo poco nell’ Yven College. La struttura scolastica era cambiata moltissimo nel corso del tempo, amava ripetere sempre il famoso professor Michaelson.

Era lì che ero vissuta fino ad ora, era lì che mi trovavo in quel momento, mentre avrei dovuto essere da tutt’altra parte. Eppure l’idea di andarmene mi ripugnava profondamente. Amavo la stabilità, per quanto potesse essere difficile per una come me concepire il significato di una parola del genere. In ogni caso il pensiero di un trasferimento su un altro pianeta mi risultava orribile. Lo avrei fatto per salvarmi. Ne valeva davvero la pena?

Sospirai piano. Avrei dovuto essere terrorizzata dallo spettacolo agghiacciante che avevo davanti agli occhi, immagino. Ma non lo ero affatto. Era come se avessi raggiunto uno stato di perfetta serenità imperturbabile, simbolicamente protetta dalle pareti tra cui ero vissuta negli ultimi cinque anni, e che riconoscevo come l’ambiente più simile a quello di una famiglia, sebbene sapessi perfettamente che un termine del genere non era neanche lontanamente adatto a descriverla. Eppure era lì che negli ultimi tempi avevo vissuto, dormito, studiato, insieme alle persone che ci lavoravano, a quelle che ne frequentavano le lezioni e che al pomeriggio rientravano a casa e ad altri dieci ragazzi orfani che vi risiedevano stabilmente. Dieci ragazzi ora tutti al sicuro. Beh, tutti tranne uno. Un emerito imbecille cocciuto che voleva sottrarmi alla catastrofe a tutti i costi.

Dave adesso mi fissava immobile, i suoi occhi chiari erano puntati su di me, accesi a scatti dalle esplosioni – questa volta naturali – sempre più vicine. Sembravano passati secoli dal termine della guerra, e invece erano trascorsi solo cinque anni. Cinque anni in cui la Terra aveva inspiegabilmente attivato un meccanismo autodistruttivo – forse suscitato dai danni causati dal conflitto, come sostenevano in molti – che ora stava per giungere a compimento.

“Gwen”, sussurrò Dave.

Dannazione, perché non scappi?, pensai serrando la mandibola. Cosa aspetti? Vuoi morire anche tu? Chi sono io per te, perché diamine vuoi che ti segua?

“Vattene, Dave. Va' via. La navetta starà partendo.”

“Appunto.”

Alzai lo sguardo su di lui. “Non ho intenzione di seguirti.”

L’espressione di Dave si indurì, per quanto si possa indurire un’espressione già dura. “Che razza di cretinate vai dicendo? Vuoi restare qui e morire?”

Lo guardai scettica. “No, voglio restare qui e sopravvivere. Secondo te?”

“Forse non ci hai fatto caso, presa com’eri a seguire le tue tendenze suicide, ma questo non è propriamente il momento più adatto per scherzare.”

Mi voltai verso la finestra. La distruzione era sempre più vasta e sempre più vicina. Vedevo le case crollare, i torrenti di lava attraversare aree un tempo abitate.

“No. Io resto.”>

“Stammi a sentire, adesso o vieni o ti porto via io con la forza. Accettare le catastrofi è un conto, ma scegliere volutamente di morirci avendo la possibilità di salvarsi è tutt’un altro discorso. Tu sei pazza, Gwen.”

“Pensavo te ne fossi accorto prima. E io che ti facevo una persona perspicace.”

“Va’ al diavolo.”

Restammo di nuovo in silenzio. Desideravo che se ne andasse. Non volevo che morisse per colpa mia. Perché doveva costringermi ad andarmene, se non era quello che volevo? C’era una ragione se mi comportavo in quel modo. Più di una, forse. Imbecille. Maledetto imbecille, perché non si metteva in salvo?

“Ascolta”, sussurrai. “So che il mio ti sembra un comportamento immotivato e stupido. Ma non è così. Hai una vaga idea di che impressione dia la sensazione che la propria vita non abbia né capo né coda, che sia un ammasso di avvenimenti senza rilievo piazzati a casaccio nel nulla, che sia un inutile lasso di tempo senza un principio e senza uno scopo effettivo? Hai una vaga idea di che cosa si provi nel sapere che in realtà un principio c’è stato, e anche uno scopo, ma che tu non puoi sapere quale fosse?”

Dave restò in silenzio per qualche istante. Non ci eravamo mai parlati molto – in realtà non avevo mai parlato molto con nessuno, preferivo ascoltare senza essere necessariamente coinvolta – e forse un discorso del genere lo spiazzava, ma del resto non avrei avuto più occasioni per farglielo capire, quindi tanto valeva spiegarglielo subito ed evitare di essere ricordata come Gwen, la pazza suicida.

Dave aveva abbassato lo sguardo alla finestra. “No”, disse piano. “Non ne ho idea. Ma a volte ricordare è peggio. Tu pensi che non sia così, ma almeno nella tua condizione non hai nulla da rimpiangere.”

Lo fissai allibita. “Tu non capisci. Io non rimpiango nulla del passato, questo è vero. Ma il motivo è che non lo conosco, il mio passato! Il ricordo più antico che ho risale alla fine della guerra. Prima di allora c’è il vuoto totale. Ho un’istruzione piuttosto articolata, e non so chi me l’abbia inculcata. Conosco una serie notevole di nozioni, e non ho idea di come abbia fatto ad apprenderle. Non so chi fossero i miei genitori, non so se avessi fratelli o sorelle … Non so neanche chi fossi io, come mi comportassi, quale fosse il mio carattere, il mio modo di pensare… Dannazione, è una sensazione orribile!”

“Non ho detto che la tua sia una situazione piacevole.”

“Già. Ma non comprendi ciò che voglio dire.”

Dave restò in silenzio.

Gli scoppi roboanti si facevano sempre più vicini. Una forte scossa seguita da scrosci schioccanti ci annunciò che l’edificio non avrebbe retto a lungo.

“Ti prego, Gwen”, sussurrò Dave. Lo guardai sconvolta dal suo tono morbido, che non gli era mai appartenuto.

“Perché vuoi trarmi in salvo a tutti i costi?”, domandai con voce quasi rabbiosa. “Perché? Non capisco. Cosa ti importa se muoio? Io non sono nessuno per te.”

Dave mi guardò in silenzio, i riflessi cremisi danzavano sul suo volto dai tratti decisi.

“Ti prego, Gwen” , si limitò a ripetere. “Ti prego. Vieni con me.”

Lo fissai immobile, incapace di replicare alle sue parole, che pure erano così banali. Ma era il modo in cui le pronunciava a spiazzarmi. Non avrei mai creduto che sarebbe stato capace di parlare così. Dannazione. Quell’insopportabile soccorritore indesiderato era riuscito a fare leva sulla sensibilità che proprio a lui mancava, ma che io sfortunatamente possedevo. Quello che inizialmente era un ordine autoritario ora mi veniva proposto come supplica, e come supplica sentita, anche – almeno così mi sembrava –, e  in questa forma riusciva ad esercitare su di me qualcosa di decisamente più efficace, dal suo punto di vista.

“Dave …”

Accidenti. Aveva appena mandato in fumo il mio piano di morire in pace. Finchè mi esortava in modo secco e freddo l’idea di ascoltarlo non mi sfiorava neppure, ma ora che usava quel tono… Era quasi riuscito a farmi sentire in colpa. Accidenti a me.

“Perché dovrei seguirti?”, mi ostinai. “Perché? Poniamo che lo faccia. Ci salviamo arriviamo su Marte. E poi?”

“E poi niente. Saremo vivi.”

“Appunto! Non vedo a che scopo …”

Scosse piano il capo, con ar ia di palese disapprovazione. Non era difficile capirlo. Quella difficile da capire ero io.

“Ascolta, Dave, non lo sto facendo per pessimismo, o perché sono in un momento melodrammatico. Ho preso una decisione con piena cognizione di causa. Ho analizzato attentamente la situazione sotto tutti i punti di vista, e la risposta che ne ho ottenuto è semplicemente che ora come ora preferisco morire che vivere. So che sembra una pazzia, ma è così. Ho ragionato, davvero. Non sono una stupida.”

“Lo so.”

“E allora …

“Lo so, Gwen, che hai i tuoi motivi. Non riesco a mettermi dal tuo punto di vista, ma so che non prenderesti una decisione del genere senza delle ragioni più che buone. Ma ti prego …”

Di nuovo. Di nuovo il tono vellutato e supplichevole. Evidentemente aveva capito come comportarsi. Ti prego. Come diamine faceva con due banalissime parole a farmi sentire in torto marcio?

“No, Dave, no”, tentai ancora di impormi, ma adesso ero io che avevo perso convinzione.

Mi guardava immobile, sul suo volto un’espressione che non lo avevo mai visto assumere.

“Non vengo”, dissi ancora.

“Allora resto anch’io.”

“NO!” Il mio fu quasi un grido, un urlo disperato. L’idea che qualcuno potesse morire solo per una mia decisione era assolutamente agghiacciante. L’idea che Dave potesse morire era agghiacciante.

“No”, dissi ancora, piano. “No, no, no … Tu devi andare. Adesso.”

“Non se tu resti.

Lo guardai negli occhi, senza sapere cosa dire per mandarlo via. Per far sì che sopravvivesse. Dave si avvicinò. Perché? Doveva fare l’esatto opposto, doveva andarsene.

“Dave, va’ via.

Dave si chinò su di me e mi baciò sulle labbra.

Restammo immobili per qualche istante, mentre il rombo della distruzione si faceva sempre più vicino.

Mi ritrassi lentamente e lo guardai inarcando un sopracciglio.

“Pensi che basterà questo a convincermi?”

“Non me ne andrò senza di te.”

Di nuovo mi trovai in silenzio. Cosa avrei potuto rispondergli? Mi dispiace, questo significa che morirai? Una violenta scossa percorse l’intero edificio come un brivido.

“Vieni con me”, sussurrò ancora Dave.

“Sì”, mormorai senza neppure accorgermene.

Il sorriso che per un attimo gli illuminò il volto mi lasciò sbalordita. Poi la sua espressione si fece concentrata. Mi cinse le spalle con un braccio, come per assicurarsi che non mi allontanassi all’ultimo istante, e mi guidò – anzi, praticamente mi trascinò – fuori dalla stanza. L’Yven college nel suo complesso era già messo peggio di quanto immaginassi. Dave mi portava velocemente attraverso le aree più sicure, verso l’uscita.

Io non mi opposi.

Gli stavo permettendo di fare tutto quello che voleva, non sapevo perché, ma mi limitavo a lasciarmi trasportare come un fantoccio. Eppure fino a pochi istanti prima avevo ben altre intenzioni.

La navetta era pronta davanti all’ingresso del college.

Ci salimmo in fretta, e Dave si mise alla guida. Evidentemente chi c’era prima si era dato alla fuga chiedendo un passaggio ad un’altra navicella di passaggio. Non lo si poteva biasimare.

In fuga dal pianeta che avrebbe dovuto accoglierci.

Vedevo dall’alto i torrenti viscosi e al contempo impetuosi di lava incandescente scorrere rapidi sotto di noi. Vedevo i palazzi distrutti, le maestose sopraelevate ridotte ad un ammasso di macerie crollate al suolo, i pochi alberi rimasti sradicati e riarsi.

Ci lasciavamo alle spalle quella devastazione, ma non sapevo se la nostra destinazione sarebbe stata molto meglio. Per la verità non sapevo assolutamente nulla. Non sapevo quale sarebbe stata la nostra vita su Marte, non sapevo neppure se ci saremmo arrivati, su Marte. Non sapevo se quello era un inizio o una fine. Un’alba o un tramonto. Non sapevo nulla del passato e nulla del futuro.

Non sapevo nulla.

Solo che io e Dave per il momento eravamo salvi.

  
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