Serie TV > Sherlock (BBC)
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Autore: lyssa    04/04/2016    1 recensioni
O, cinque volte in cui Sherlock non ha chiamato Moriarty per nome e una in cui l'ha fatto.
Scopre anche che la sensazione della penna sull'avambraccio le fa il solletico e che, nonostante stringa le labbra in una linea retta, gli angoli della sua bocca si sollevano verso l'alto.
«Questa volta non cancellarlo.»
«Moriarty…»
«Jane. Chiamami Jane.»

Genderbender ; Femslash ; Fem!Sherlock (Sherlock Holmes) e Fem!Moriarty (Jane Moriarty).
Genere: Generale, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash | Personaggi: Jim Moriarty, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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1.

«Moriarty»

Sherlock pronuncia il nome sotto voce, come un segreto che non è ancora pronta a condividere. Sente il sapore che lascia sulle labbra, si concentra sul movimento che la lingua deve compiere per dire la parola. Lo ripete più volte – sempre piano, con una punta di ammirazione nella voce e con le labbra che alla fine si increspano in un piccolo sorriso – per lasciarlo libero di fluttuare nell'aria e riempire la camera da letto così come ha fatto con la sua mente.

Moriarty non è come i criminali e gli assassini con cui Sherlock ha a che vedere quasi ogni giorno. Non è prevedibile, non è banale, non fa errori da principiante che lasciano dietro una scia di prove più evidente e sgargiante di un cartellone al neon.

Moriarty è diverso. È il luccichio che brilla dietro gli occhi azzurri ogni volta che si trova davanti ad una sfida più difficile della precedente, è l'energia che le fa passare notti insonni a camminare avanti e indietro per l'appartamento, è quella punta di genuino entusiasmo che le fa buttare la testa all'indietro con una risata cristallina ad accompagnare il conto alla rovescia anche se l'ostaggio è un ragazzino coperto di semtex – quel caso era così brillante, perché mai si sarebbe dovuta trattenere?

Uno sbuffo di fumo lascia la sua bocca. Persino il sapore di nicotina diventa blando e insignificante se paragonato a Moriarty. Potrebbe usare "Moriarty mi aiuta a smettere di fumare" come scusa per giustificare il suo comportamento agli occhi di Joan, pensa distrattamente Sherlock, sistemandosi meglio il portatile sulle gambe nude e aprendo l'unico sito salvato tra i preferiti. Muove il mouse, poi spegne la sigaretta quasi intera nel posacenere. Non ne ha bisogno.

Le dita battono veloci sulla tastiera.

"Trovati. I piani Bruce-Partington. Per favore vieni a prenderli. La piscina. Mezzanotte."

Sherlock si rende conto di avere le labbra sollevate in un sorriso solo quando lo schermo spento del computer riflette la sua immagine.

***

La camminata di Sherlock ostenta una ferma sicurezza che in realtà non esiste; se il ticchettio delle scarpe sulle piastrelle è ritmico e preciso, lo stesso non si può dire del suo cuore, il cui battito è talmente forte da rendere i suoni esterni quasi ovattati. Pulsa a livello delle tempie, rende le membra leggere e i movimenti rapidi e scattanti, le impedisce di stare ferma e la costringe a muoversi in tondo per scaricare parte dell'emozione che attraversa il suo corpo in una scarica elettrica.

I pensieri scivolano tra le sue dita come fumo. Non riesce ad afferrarli, scompaiono ancora prima di prendere forma e diventare idee complete, la lasciano con frammenti di informazioni che in quel momento sono più inutili che mai, perché osservare lo stato in cui si trova l'edificio o fare un'abbozzata stima della concentrazione di cloro nell'acqua – basata sull'odore più pungente del normale – non l'aiuterà di certo nel suo confronto con Moriarty.

Deve focalizzarsi sulle cose davvero importanti. Come il fatto che le gradinate siano completamente buie. Come il fatto che Moriarty sia lì, da qualche parte, ad osservarla. Il pensiero le manda sulla schiena un brivido che è più di eccitazione che di paura.

«Ti ho portato un piccolo regalo per conoscerci meglio.»

Esclama a gran voce, labbra che si piegano verso l'alto alla fine della frase. Solleva la chiavetta USB che stringe tra le dita.

Dopotutto, quello è un po' il loro primo appuntamento, il loro primo incontro dopo giorni di flirt e di corteggiamenti: l'unica differenza è che al posto dei fiori – o qualunque altra stupidaggine le coppiette si regalino a vicenda, Sherlock non ha né esperienza in materia né intenzione di colmare questa sua lacuna – ci sono omicidi e crimini vari, conditi da frasi e dichiarazioni che in bocca di altri potrebbero addirittura suonare romantiche.

«Volevi distrarmi da questo, non è vero?»

La risposta non viene da dove Sherlock si sarebbe aspettata. Abbassa la testa di scatto e punta lo sguardo di fronte a sé, sulla porta dello spogliatoio maschile.

I secondi tra il cigolio della maniglia e l'apertura della porta sembrano non passare mai. Si dilatano a formare una bolla dove il tempo diventa vischioso e non scivola più, un universo in cui, come in un sogno, un singolo battito di ciglia dura minuti interi. Le palpebre calano sugli occhi di ghiaccio, ora brillanti e caldi di quel fuoco che solo Moriarty sa accendere. Le solleva scoprendo che ha il respiro un poco accelerato e un groppo in gola che non riesce a mandare giù neanche deglutendo, che la pistola nella tasca destra della giacca è pesante e bollente contro il fianco, che sta apprezzando la tensione – Moriarty non ha ancora varcato la soglia eppure già aleggia nell'aria, la punge come un sospiro in una mattinata di inverno – più di quanto sia consono.

Sherlock si passa la lingua sul labbro inferiore, secco e screpolato – un po' come lei.

Moriarty è ancora avvolto dalle tenebre quando la sua voce raggiunge le orecchie di Sherlock.

Oh. È una donna.

«Ti ho dato il mio numero… Pensavo avresti chiamato.»

L'accento inglese è scivolato via dalle sue parole, rimpiazzato da una cadenza tipicamente irlandese ma annacquata da anni passati a Londra. Non è l'unica cosa ad essere cambiata. Sono spariti i modi impacciati e l'incertezza, è sparita la maglietta scollata, è sparita la banalità che la fidanzata di Hooper indossava come un profumo e che ha portato Sherlock ad accartocciare e gettare via il biglietto con il numero di telefono. Si chiede cosa sarebbe successo se non l'avesse fatto. Il pensiero non dura più di un secondo: il rumore dei tacchi di Moriarty la riporta alla realtà.

«Jane Moriarty» Sorride e si lecca le labbra. Sherlock le punta contro l'arma. «Ciaaaaaaao~

Moriarty avanza leggera, il passo morbido nonostante le scarpe che le aggiungono almeno dodici centimetri di altezza. Il suo sguardo non scivola sulla pistola neanche per un secondo. Cammina tranquilla, come se non ci fosse alcun pericolo, come se osservare Sherlock fosse la cosa più importante e bella del mondo – e forse è davvero così perché, Dio, le sue pupille sono incredibilmente dilatate, sembrano inghiottirla – come se nel sorriso che le increspa le labbra tinte di rosso avesse la risposta ad ogni domanda dell'universo.

È quello il momento in cui Sherlock si rende davvero conto di aver di fronte Moriarty.

È un'assassina e una criminale – no, non sono parole che riescono a renderle giustizia, Jane è qualcosa di più, appartiene ad una categoria superiore fatta unicamente per lei, deve trovare altri termini per definirla, parole che la vestano bene come il completo fatto su misura che indossa – nonostante sembri quasi una bambola, pelle di porcellana e folte ciglia nere. Ha mani piccole con dita sottili, Sherlock riesce a osservarle prima che scivolino nelle tasche della giacca, mani delicate e gentili che portano il sangue di centinaia di innocenti.

È un ossimoro, mente affilata e tratti morbidi e Sherlock la trova bella nello stesso modo in cui sono belle le scene del crimine e i cadaveri freschi.

Per qualche ragione, Moriarty le ricorda un angelo della morte.

«Ti ho dato solo un assaggio, Sherlock, solo un piccolo assaggio di tutto ciò che succede nel grande mondo cattivo.» Fa una piccola pausa, arriccia le labbra. «Sono una specialista, capisci…»

Abbassa appena la testa, sposta la ciocca di capelli che le finisce davanti al volto. Sembra stia recitando un copione, battute che ha ripetuto per giorni interi davanti allo specchio, eppure, quando solleva il capo e la guarda dritto negli occhi ancora una volta, Sherlock vede un luccichio che non può essere programmato. Non riesce a capire se sia desiderio o euforia. Entrambi, forse.

«Come te!»

Oh. Ha finalmente trovato il modo per definirla.

«Moriarty, consulente criminale.»

La pistola trema tra le sue dita, si abbassa appena, perde la mira. Se uno dei cecchini di Moriarty ora le sparasse, non riuscirebbe ad uccidere Jane a sua volta.

«Brillante.»

 

2.

Sherlock non dorme da quasi settantadue ore, Jane ha occupato la sua mente più di quanto le piaccia ammettere – le due cose sono strettamente correlate, dormire è uno spreco di tempo quando Moriarty è là fuori, orchestrando puzzle e crimini che non aspettano altro di essere risolti – e la sagoma che ha notato con la coda dell'occhio potrebbe essere qualunque cosa.

Potrebbe, ma non lo è. Quando Sherlock si volta, in un movimento che non è discreto neanche la metà di quello che pensa, ogni dubbio scompare: Jane le fa l'occhiolino, seduta a uno dei tavolini del bar all'angolo della strada. Sherlock deglutisce a vuoto. Deve usare una dose non indifferente di autocontrollo per non andarle subito incontro.

«Ho una cosa da fare. Tu torna pure a casa.»

Gli occhi di Joan sono grandi e azzurri, si posano su di lei con una delicatezza e un affetto a cui Sherlock non è abituata, le fanno venire voglia di allontanarsi per un motivo che neanche lei riesce a comprendere davvero, lo stesso che la porta ad ignorare l'aiuto di Mycroft ogni volta. Sostiene comunque lo sguardo, ignorando la preoccupazione malcelata nelle iridi chiare. Sa quello che Joan sta pensando e trova stupido impuntarsi su una cosa del genere; è successo solo una volta, la lista era corta e l'ultima cosa che Sherlock vuole è essere guardata come se fosse una tossicodipendente bisognosa di aiuto. Anche se, dopotutto, potrebbe esserlo.

«Sherlock… »

«Non ci vorrà molto.»

Joan non è convinta, ma Sherlock sa di riuscire a farle cambiare idea.

Sa di poterlo fare perché da quando Moriarty è entrata nella sua (nelle loro?) vita, le cose sono migliorate. Non ci sono più giorni interi in cui Sherlock sta sdraiata sul divano senza fare nulla e Joan la osserva in silenzio, consapevole di non poterle dare ciò di cui ha realmente bisogno e strapparla così dall'apatia che le fa menzionare desideri suicidi con una tranquillità preoccupante. Non ci sono più frustrazioni e parole represse per troppo tempo che prendono forma in urla e sibili affilati, niente più litigi che si concludono con la porta che sbatte abbastanza forte da far tremare le finestre e Joan che torna a casa qualche ora dopo, scuse trascinate su labbra che portano il sentore di alcol.  

«Per favore?»

Un sospiro. Sherlock sa di aver vinto nell'esatto momento in cui Joan abbassa lo sguardo.

«D'accordo.»

Non appena la sua schiena diventa un puntino indistinguibile in mezzo a tanti altri, Sherlock si incammina verso il bar. Si siede al tavolo di Moriarty senza dire nulla, negli arti una fretta ed un'impazienza che si manifestano nel forte rumore che produce nel spostare la sedia. Una manciata di persone dei tavoli circostanti si gira a guardarla, Jane sorride.

«Sei preoccupata che scopra tutti i tuoi piani?»

Cerca di nascondere l'entusiasmo nella sua voce, ma evidentemente non ci riesce perché Jane ride, di una risata leggera e genuina che la illumina più di quel sole di fine Aprile e la rende morbida e calda.

«Buongiorno anche a te, Sherlock.» Beve un sorso del caffè che ha davanti. «E no, anche perché quelle che ti concedo sono solo briciole. Semplicemente, mi piace guardarti.»

Non è la prima volta che lo dice eppure è come se lo fosse, perché la voce adesso è la sua e le parole suonano un po' più vere, entrano un po' più in profondità.

Jane la guarda come se fosse un'opera d'arte. Non c'è affetto nei suoi occhi scuri, solo interesse ed un'ammirazione talmente grande da avvicinarsi alla devozione e Sherlock, nel sostenere il suo sguardo, si rende conto di trovarlo piacevole. Nasconde questa considerazione in un cassetto nel suo palazzo mentale, per non pensare alle implicazioni, per non dare soddisfazioni a Jane, che parla di nuovo.

«Piuttosto… Perché ti sei seduta qui al mio tavolo?»

«Noia.» Scrolla le spalle sapendo che è vero solo in parte. «O forse voglio arrestarti.»

«Se vuoi ammanettarmi puoi dirlo direttamente, tesoro.»

Lo sguardo di Sherlock scivola sulle sue mani come acqua. Si sofferma sui polsi sottili per un secondo in più del necessario, immagina il metallo stretto intorno ad essi. Afferra la tazza di Jane per bagnarsi le labbra improvvisamente secche. Non appena il liquido ormai tiepido tocca la sua lingua, torce la bocca in una smorfia di disgusto.

«Pensavo ti piacesse il vero caffè, non questa…» Un'altra smorfia, più esagerata e teatrale della precedente «montagna di zucchero.»

Jane arriccia le labbra in un mezzo sorriso che Sherlock ci mette un secondo di troppo a comprendere.

«Non pensavo spendessi il tuo tempo a immaginare cosa mi piace.»

«Era solo un'ipotesi.»

Un mugolio accondiscendente e poco convinto è l'unica risposta che ottiene.

Per un minuto buono rimangono in silenzio, limitandosi a fissarsi negli occhi sbattendo le palpebre il meno possibile, come in un'infantile sfida fatta tra due ragazzini. C'è un momento – intorno ai trentadue secondi se vogliamo essere precisi; Sherlock li sta contando, anche se non riesce bene a capire il motivo – in cui qualcosa cambia nello sguardo di Jane.

Non la guarda più come se fosse un'opera d'arte, ma come se fosse un enigma da risolvere. La guarda nello stesso modo in cui Sherlock osserva le persone che la circondano, come se volesse aprirla a metà per vedere quello che c'è dentro, infilare le dita negli squarci che ha creato e spostare tutti gli organi per arrivare all'informazione che cerca e Sherlock si sente a disagio, perché ritrovarsi nella situazione opposta a quella a cui è abituata non le piace, perché non può fare lo stesso, perché Jane è una delle poche persone che non riesce a leggere.

Quando sta per raggiungere il limite, Jane distoglie lo sguardo. Lo punta sulla propria tazza e Sherlock inspira a fondo, come se qualcuno avesse rimosso un peso dal suo petto.

«Ho un'idea. » Aspetta un secondo, risolleva la testa. La guarda in modo diverso da prima, per fortuna. «Ti va di giocare?»

Quando Jane si piega in avanti e accorcia la distanza tra di loro, il cuore di Sherlock perde un battito.

«Prendo il tuo silenzio per un sì.»

***

Nel gioco di Jane non ci sono complessi casi da risolvere per fermare lo scoppio di una bomba nel centro di Londra o impedire la morte di una delle persone sedute a pochi tavoli di distanza da loro. Non ci sono puzzle o sfide e, quando Jane sorride e sussurra "dimmi ciò che hai dedotto su di me e ti dirò se hai ragione", Sherlock non può fare a meno di roteare gli occhi e curvare le labbra in una smorfia che porta il sentore amaro della delusione. Pensa sia noioso, eppure non si alza.

È grata di non averlo fatto. Il gioco si rivela essere più interessante del previsto.

Sherlock scopre che Jane ama la matematica, che ha scritto due libri che non ha mai pubblicato perché sarebbero stati criticati e snobbati a prescindere in quanto scritti da una donna – e qui sul suo volto compare un'espressione di puro disgusto di cui Sherlock conosce fin troppo bene il sapore.

Scopre che non è eterosessuale – Jane ride di gusto all'idea, si fa più vicina e mormora "ti ucciderei se tu pensassi che mi piacciano gli uomini" sulla sua pelle; Sherlock non riesce a capire se stia scherzando o meno  –, che ha altri interessi oltre al suo lavoro, che alla piscina indossava un completo maschile non perché segretamente vuole essere un uomo ma perché, per usare le sue parole, la fa ancora più figa e voleva essere al meglio per il loro primo appuntamento.

Scopre che ciò che è successo con Carl Powers, qualunque cosa sia, è ancora un tasto dolente. Tocca un nervo scoperto che rende la sua postura più rigida e i suoi occhi più scuri. Jane la fissa in silenzio per una manciata di secondi, non risponde e, per la prima volta da quando si sono incontrate, Sherlock sente un brivido che può attribuire alla paura. Anche se non ci sono minacce sibilate tra i denti a riempire l'aria. Scopre che Jane cambia velocemente, che il sorriso si distende presto sul suo volto come se non fosse successo nulla e allora può rilasciare un respiro che non sapeva di avere trattenuto.

Scopre anche che la sensazione della penna sull'avambraccio le fa il solletico e che, nonostante stringa le labbra in una linea retta, gli angoli della sua bocca non possono fare a meno di sollevarsi.

«Questa volta non cancellarlo.»

«Moriarty…»

«Jane. Chiamami Jane.»

Se ne va senza aggiungere altro, lasciandola con un numero di cellulare scritto sulla pelle e con l'immagine del suo caschetto nero appena smosso dal vento.

 

3.

Sherlock non chiama. Manda però un messaggio, una semplice riga di testo che informa Jane dell'appuntamento che Joan ha con Mary, la sua ragazza. È un invito implicito che viene subito accettato con una faccina ammiccante – Sherlock arriccia il naso di fronte all'emoji – e neanche dieci minuti dopo Jane si presenta alla sua porta, un sorriso sulle labbra e una costosa bottiglia di vino rosso tra le mani.

Ogni volta Jane arriva con qualcosa di diverso. Un mazzo di fiori, velenosi e al centro di uno degli ultimi casi che le ha lasciato, una scatola di cioccolatini, una sciarpa simile a quella che già ha ma di fattura migliore, una manciata di vetrini proprio il giorno in cui Sherlock ne ha accidentalmente rotti alcuni.

Dopo poco i messaggi diventano inutili. Quando Sherlock torna a casa aspettandosi di trovare l'appartamento vuoto, Jane è lì, sdraiata sul divano o abbandonata sulla sua poltrona – mai quella di Joan, si rende conto – con un libro sulle ginocchia e gli occhi più scuri che mai.

Probabilmente ha installato delle telecamere al 221b per controllare i suoi movimenti o forse uno dei suoi uomini pedina Joan in modo da sapere quando la casa è libera; in ogni caso, Sherlock scopre di non trovare la cosa inquietante come dovrebbe.

Nasconde questo pensiero in un angolo remoto della sua mente, ignorandolo così come ignora l'accelerare del battito cardiaco e il modo in cui l'angolo delle labbra si arriccia verso l'alto ogni volta che sale le scale di casa. (A volte apre la porta solo per trovarsi di fronte ad un appartamento vuoto che sembra un po' più triste di quando l'ha lasciato e in bocca sente improvvisamente un sapore amaro che non se ne va neanche quando si lava i denti più di una volta, lo spazzolino che sfrega con più forza del necessario. Anche questo è qualcosa su cui non ama soffermarsi.)

Jane ha la testa sulle sue ginocchia e gli occhi chiusi. È tranquilla, rilassata, innocua e Sherlock vuole accarezzarle i capelli senza alcun motivo, in un gesto permeato da quella dolcezza che non le appartiene e non ha mai fatto parte né della sua personalità né tantomeno del loro rapporto. L'idea non fa in tempo a diventare atto: Jane solleva le palpebre e il momento si spezza, Sherlock rimane con la mano a mezz'aria, in una posizione che fa piegare le labbra dell'altra in un sorriso divertito, come se sapesse il significato dietro quel gesto interrotto a metà.

«Sherlock…»

Fa una lunga pausa dopo aver pronunciato il suo nome, un silenzio che Sherlock sa preannunciare una constatazione o una domanda importante, un silenzio che vorrebbe durasse di più, perché quando tra di loro entrano in gioco le parole tutto diventa complicato, frustrante.

«Perché devo fare sempre tutto io?»

Sherlock sospira. Non le piace dove la conversazione si sta dirigendo.

«Non capisco di cosa tu stia parlando.»

Jane schiocca la lingua contro il palato.

«Non mi chiami mai, non mi fai mai regali. Sono sempre io a venire a casa tua e per quanto la cosa ti faccia piacere – e no, non provare a contraddirmi, so che sei felice quando rendo più interessanti le tue noiose giornate – non fai mai un passo nella mia direzione.»

C'è un fondo di verità nelle sue parole che mette Sherlock sulla difensiva e irrigidisce la sua postura; le fa venire voglia di scollarsi Jane di dosso in un rapido movimento che non compie unicamente per non sembrare infantile. Non si allontana quindi, si limita a fissare l'altra negli occhi, lo sguardo un po' più duro di prima e le sopracciglia aggrottate.

«Davvero ti soffermi su questi dettagli?»

Jane non batte ciglio. Il suo rimanere impassibile le dà sui nervi, in qualche modo le ricorda Mycroft.

La differenza – una delle tante in realtà, considerando che hanno due personalità diametralmente opposte – tra lui e Jane è che Sherlock ormai conosce il fratello maggiore.

Neanche volendo potrebbe dimenticare la sua infanzia, quei giorni in cui la sua età non aveva ancora raggiunto la doppia cifra e il mondo conservava ancora la bellezza e l'unicità che ora non riesce più a vedere, quei pomeriggi passati a giocare ai pirati con Redbeard e Mycroft. Ricorda il suono della propria risata, le ginocchia sbucciate, la sfumatura ramata dei capelli del fratello esaltata dal sole.

Poi, all'improvviso, qualcosa è cambiato.

Adolescenza la chiamerebbero i più, senza sapere. Certo, non avrebbero tutti i torti, gli ormoni hanno sicuramente fatto la loro parte, ma la "trasformazione" (se così si può chiamare) nella persona cinica e disinteressata che è ora non si può attribuire solamente all'età. L'affetto del fratello si è trasformato da un abbraccio caldo e confortevole – in senso metaforico si intende, gli Holmes non sono mai stati tipi da contatto fisico – a una catena soffocante. Adesso la sola idea di seguire gli ordini di Mycroft le dà fastidio.

La differenza tra Mycroft e Jane è che il primo è facile da leggere. È facile vedere la rassegnazione e l'amore nascosto nelle iridi azzurre, è facile notare il modo in cui le spalle si abbassano un poco ogni volta che Sherlock non gli presta attenzione.

Jane è invece un libro scritto in una lingua che ancora non è stata tradotta. Sherlock può riuscire a capire qualche parola simile a ciò che già conosce, ma non riesce a leggerne il contenuto. È ciò che l'ha affascinata fin dall'inizio, spingendola ad approfondire il loro rapporto, ma in alcuni momenti la irrita. Si trova in una situazione di svantaggio dopo anni passati in controllo.

«Di cosa hai paura, Sherlock?»

Viene strappata ai suoi pensieri. La voce di Jane è morbida, ma priva di inclinazione. Solamente alla fine si abbassa di tono e oh, quando la lingua si arrotola intorno al suo nome, Sherlock percepisce una sfumatura di familiare tristezza che risuona proprio al centro del suo petto. Decide di ignorarla, come fa con tutte le deduzione scomode, come ha fatto con la cotta che Joan aveva per lei e che – per fortuna – le è passata quando ha conosciuto Mary.

«Stai diventando ridicola. La stupidità non ti si addice.»

Jane si sposta e si rimette seduta. Le ginocchia di Sherlock rimangono tiepide.

«Sai cosa non si addice a quel bel faccino che hai?» Il suo tono non è stizzito o aggressivo e questa, forse, è la cosa che la preoccupa di più. «Il tuo atteggiamento alla "oh, Moriarty si è introdotta in casa mia, ora sono costretta a passare dl tempo con lei", come se tu non riuscissi ad accettare il fatto che certo, siamo nemiche, ma c'è qualcosa di più.»

«Cosa vuoi, che ti mandi un messaggio pieno di cuoricini ogni volta che penso a te?»

«No, Dio no.» Sgrana gli occhi, scuote appena la testa. «Anche perché altrimenti avresti sempre il cellulare in mano.» Una piccola risata si libera dalle sue labbra. Dura troppo poco per poter allentare la tensione. «Vorrei solo che abbandonassi i tuoi sensi di colpa. O qualunque altra cosa ti tenga attaccata a quelle stupide etichette da cui non riesci a liberarti.» Torna a fissarla e si fa più vicina, annulla la distanza fino a quando le loro gambe si sfiorano, in un sospiro delicato che le manda brividi lungo la spina dorsale. Lo sguardo di Jane si fa più serio. «Possiamo essere nemiche e volerci uccidere a vicenda anche trascorrendo tempo insieme.»

«Continuo a non capire il tuo problema. Spendiamo tempo insieme. Parecchio, da quando le cose tra Joan e Mary sono diventate serie.»

Un sospiro. Jane si allontana quel poco che basta per rompere il contatto fisico.

«Mhn, solo perché io decido di venirti a trovare.»

«Io ti ho inviato i messaggi.»

«Le prime volte, ma non è questo il punto.» Abbassa la testa, la frangia le copre gli occhi.

Per quasi un minuto intero non succede nulla. Rimangono immobili, Jane con lo sguardo puntato verso il basso e Sherlock che continua a guardarla senza avere il coraggio di toccarla o accettare il significato dietro le sue parole. Aspetta, conta i battiti del proprio cuore, memorizza la posizione delle lentiggini sul naso di Jane – non indossa il fondotinta oggi, quindi sono visibili. Pensa che dovrebbe apparire al naturale più spesso.

Jane solleva il capo e riprende a parlare. Sherlock perde il conto.

«Pensavo mi capissi, lo pensavo davvero.»

Il primo istinto di Sherlock è quello di contraddirla. Dirle, con voce un po' troppo affrettata, che lei è l'unica a comprenderla, l'unica in grado di risolvere i suoi crimini, l'unica a capire cosa significa annoiarsi davvero,  vivere in un mondo che si muove al rallentatore e che non riesce a stare dietro alla sua mente, avere bisogno di una distrazione per evitare di iniettarsi droghe in endovena o peggio.

Non dice nulla. È troppo orgogliosa per apparire disperata.

«Pensavo che tu provassi le stesse cose che provo io. Invece mi ritrovo a dare le mie attenzioni a qualcuno che neanche riesce a chiamarmi per nome.»

«Tutto questo discorso perché non ti chiamo Jane?»

Si rende conto di aver detto la cosa sbagliata quando le parole sono già fuoriuscite dalle sue labbra.

«Dio, sei così stupida!» Esclama, voce improvvisamente alta. «A volte mi disgusti.»

Si immobilizza. Jane ha superato una linea invisibile – una linea di cui, se deve essere sincera, lei stessa non era a conoscenza fino a quel momento – perché Sherlock non ha mai pensato una cosa del genere, neanche quando Jane ha ucciso persone innocenti senza fare distinzioni tra vecchie e bambini o ha minacciato di ucciderla. I sentimenti che prova per Moriarty sono molteplici e contraddittori, non sono chiari e lineari neanche ai suoi occhi, ma non comprendono l'odio e il disgusto. Dava per scontato fosse reciproco.

Il gelo cala sul volto di Sherlock. Labbra tirate in una linea sottile, sopracciglia solo appena aggrottate e mandibola dura che rende il suo volto ancora più spigoloso e affilato, facendola assomigliare più ad una statua di marmo che ad una persona in carne ed ossa.

«Allora cosa ci fai qua?»

Se Sherlock è ghiaccio puro, sguardo duro e freddo, Jane è fuoco alimentato da benzina.

«Allora cosa ci faccio qua? Bella domanda.» Si alza in piedi, raccoglie le scarpe con il tacco che si era tolta e cammina a piedi nudi fino alla porta. «Ci vediamo. O forse no, dipende da te.»

«Come se riuscissi a starmi lontana.»

È un'uscita infantile e lo sa. Per questo, quando Jane ride, Sherlock non ne è sorpresa. Quello che non si aspetta è la frase che ne segue.

«Tesoro, l'ho fatto per più di vent'anni.»

Il suo cuore perde un battito.

 

4.

A volte lo sguardo scivola sul cellulare.

Succede di notte, quando Joan sta dormendo e Sherlock non trova più alcun interesse nell'esperimento che sta conducendo o quando il giornale non riporta nessun crimine interessante e Lestrade non si fa sentire da giorni. Succede quando schiude le labbra per lasciare andare un sospiro che porta con sé il peso di una mente troppo brillante.

Ci sono giornate in cui si sente più sola del solito e arriva persino ad aprire la schermata dei messaggi, polpastrelli che digitano parole che verranno sempre cancellate prima di essere inviate, stralci di conversazioni che sono l'incipit di decine di "e se?" che non prenderanno mai vita se non nella sua immaginazione.

Sherlock torce le labbra in una smorfia, getta il cellulare sul divano. Si sente come una ragazzina alle prese con la prima cotta e lo detesta, perché dovrebbe essere grata di non avere più nulla a che vedere con Moriarty, perché la sua vita (e quella delle persone che ama) è un po' più al sicuro adesso e non dovrebbe sentire la mancanza del peso della sua testa delle ginocchia, del suono leggero della sua risata o del modo in cui il suo respiro caldo le fa venire la pelle d'oca ogni volta che si fa un po' troppo vicino.

Se deve essere sincera, non pensava che Jane sarebbe resistita tanto a lungo. O meglio, pensava che le avrebbe comunque lasciato qualcosa con cui distrarsi. Come dimostra il patetico caso che ha accettato – un banale omicidio coniugale fatto passare per suicidio, talmente semplice e privo di inventiva che persino Scotland Yard saprebbe risolverlo – tutti i criminali degni di questo nome sembrano essere andati in vacanza, lasciando la capitale britannica a persone per le quali Sherlock non può provare altro che disgusto e pena.

Sherlock si alza in piedi di scatto. Afferra il cappotto e il pacchetto di sigarette, cammina rapidamente e si chiude la porta del 221b alle spalle prima di lanciare un'altra occhiata il telefono.

Non riesce a smettere di pensare al cellulare abbandonato sul divano neanche quando il fumo le riempie i polmoni.

***

Servono un mese di noia e un paio di bicchieri della bottiglia che Joan e Mary hanno stappato per annunciare il loro fidanzamento perché l'indice prema il pulsante di invio.

"Londra è noiosa."

I pollici si fermano a mezz'aria.

Non è ubriaca – ha bevuto quel poco che basta per rendere felice la coppia di novelle fidanzate ed evitare lamentele su quanto "dovrebbe sorridere di più" e "lasciarsi andare" – ma i pensieri continuano a scivolare tra le sue dita come saponette e… quali erano le ragioni per cui aveva resistito alla tentazione per trentacinque giorni? Improvvisamente non riesce a ricordarle.

"Senza di te, intendo."

Conclude nel secondo messaggio. Fissa lo schermo freddo del display per due minuti – Jane ha sempre risposto dopo pochi istanti – ma dopo centoventisette secondi di assoluto nulla, decide di lasciar perdere e concentrarsi su altro. Con scarsi risultati, dato che l'archetto continua a bloccarsi sulle stesse note, rendendola ancora più frustrata di quello che non sia già.

Con un'imprecazione tra i denti si butta a peso morto sulla poltrona.

Persino Joan e Mary si rendono conto che c'è qualcosa che non va.

***

Si deve essere addormentata, perché quando torna ad essere cosciente e apre gli occhi, realizza di avere una coperta addosso. Deve essere stata Mary, pensa, sbadigliando e cercando il cellulare a tentoni, senza premurarsi di coprire con il palmo della mano la bocca spalancata.

La coperta scivola per terra nell'esatto momento in cui Sherlock nota il lampeggiare del display del telefono.

"Sherl, lo sai che non lavoro per te, vero?"

Ogni traccia di sonno scompare, trasformandosi nell'impazienza che si deposita agli angoli del suo sorriso. Non si aspettava una risposta, specialmente non dopo messaggi tanto ridicoli – nel rileggerli Sherlock non riesce ad evitare l'ondata di caldo imbarazzo che rende rosse le orecchie – e il modo in cui Jane si è comportata l'ultima volta che si sono viste.

"Oh, indubbiamente. Questo però non toglie che io sia l'unica in grado di apprezzare davvero quello che fai."

Questa volta non deve aspettare ore per la risposta.

"Forse."

Le dita rimangono ferme per qualche secondo, tremano appena nell'aria improvvisamente carica di aspettative.

Ha solo una possibilità per stupire Jane. Sherlock è sicura che, nel caso in cui dicesse la cosa sbagliata o si rivelerebbe noiosa e prevedibile, l'altra non ci penserebbe due volte a troncare la conversazione e mettere la parola fine al loro rapporto. Nonostante sia l'ultima cosa che desidera, non riesce a smettere di sorridere. Si trova davanti a una prova infinitamente più  stimolante di tutti i casi che ha accettato recentemente. I pollici si muovono sul display quasi alla stessa velocità dei suoi pensieri.

"So che ti manca avere qualcuno che sia in grado di vedere quello che gli altri non vedono. Qualcuno che vede collegamenti inesistenti agli occhi dei più, dettagli apparentemente insignificanti come le scarpe di Powers."

Il cellulare vibra tra le sue mani pochi secondi dopo, il cuore accelera il proprio battito.

"Il tuo ego è persino più grande del tuo cervello. Sai tesoro, ho conosciuto diverse persone brillanti quasi quanto me."

Deglutisce a vuoto, mandando giù la frecciatina con un grumo di saliva.

"Loro però sono diversi da noi, non è vero? È per questo motivo che non ti piace giocare con mio fratello."
"Un'altra cosa che abbiamo in comune, tra l'altro."

"A volte anche la grande e stoica Sherlock Holmes fa battute, sono sorpresa."

Nella sua mente, il volto di Jane è talmente vivido da sembrare reale. Riesce praticamente a vedere i grandi occhi scuri, neri tanto quanto luminosi, brillanti di quella scintilla di puro interesse che Sherlock ama pensare di essere l'unica ad innescare. Vede le labbra increspate in un sorriso, la punta della lingua che rapida fuoriesce per andarle a lambire, attirando la sua attenzione. Riesce a sentire la sua risata, contenuta e appena macchiata dalla malizia, attaccata alle parole del messaggio. È un buon segno.

"So che manca anche a te. Sarò anche dalla parte degli angeli, avrò anche usato la mia mente per qualcosa che reputi noioso e patetico, ma riesco a capirti. Siamo uguali, penso che anche i nostri desideri e bisogni, combacino."

 Si rende conto della verità nelle parole – all'inizio volutamente esagerate per raggiungere lo scopo desiderato – solo quando le scrive. Si morde il labbro inferiore, invia un altro messaggio ad accompagnare il precedente.

"Inoltre, non capisco cosa ci sia in Australia che tu non possa trovare qua."

"Qualcuno è una brava ragazza che ha fatto i compiti a casa."
"I koala sono piuttosto carini, comunque."

Sherlock sospira di sollievo. Il cuore però, continua a batterle impetuoso all'interno del petto, costringendola a stare sull'attenti e a muoversi di scatto ogni volta che il telefono vibra tra le sue mani.

"Pensavo fossi più tipa da ragni."

"Anche. Le due cose non si contraddicono."

"Mhn, penso tu abbia ragione."

Allo stesso modo, loro possono essere due cose diverse: nemiche e qualcosa di più, qualcosa che cade in uno spazio non definito dalle linee del linguaggio umano, qualcosa a cui persino due menti tanto brillanti come le loro faticano a dare un nome.

"Torno a Londra tra un mese e mezzo, se tutto va bene. Cerca di non bucarti nel mentre."

Legge il messaggio due, tre, quattro volte. Gli occhi azzurri scorrono lenti come le mani di un amante sulla linea di testo, attenti si soffermano su ogni singola parola, come per farsi sicuri di aver compreso pienamente il significato. Ce l'ha fatta. Una piccola risata scivola via dalla sua bocca, timida va a riempire l'aria della stanza, svuotando il suo petto da quel peso a cui non era riuscita a dare il nome.

Il sorriso sulle labbra assume il dolce sapore della soddisfazione. (E forse, anche della felicità.)

"Cara Moriarty, puoi rimediare alla mancanza di crimini interessanti ed impedire che mi spari un proiettile in mezzo agli occhi?"

"Vedrò cosa posso fare."

Le dita si muovono sul display ancora una volta, andando a formare le parole "Grazie, Jane".

Il messaggio però non viene inviato, tempo qualche secondo e i pixel si ricolorano di bianco. L'SMS si va ad aggiungere a tutti gli altri che non ha voluto – o non è riuscita – ad inviare.

 

5.

Con una notte passata insonne e una tazza di caffè perennemente appoggiata alle labbra, è riuscita a scoprire data, ora e aeroporto di quello che con ogni probabilità è il volo di Jane. Se però ha scoperto anche il numero dell'aereo di linea – cosa che l'ha inizialmente stupita, prima di ricordare lo strano divertimento che Moriarty prova nell'assumere identità fittizie e ordinarie – deve però ringraziare Mary.

Sono innumerevoli le cose che Sherlock è in grado di fare, ma entrare in database più o meno protetti per cercare informazioni specifiche non rientra tra queste. Per fortuna, Mary non le ha fatto pesare questa sua lacuna. Ha semplicemente sorriso per poi sedersi di fronte al computer, il ticchettio delle dita sui tasti ad accompagnare domande che hanno sempre ricevuto "per favore non dirlo a Joan" come risposta.

Non le ha raccontato tutto, ovviamente.

Tutto quello che Mary sa è che Sherlock deve incontrare qualcuno per questioni non prettamente lavorative, una donna che per qualche motivo sta assumendo una falsa identità. Nonostante il nome di Moriarty non abbia lasciato le sue labbra neanche una volta, non è una conclusione troppo difficile da trarre e c'è una buona probabilità che l'altra ci sia arrivata.

Per fortuna, a parte un "sei sicura?" pronunciato con voce un po' troppo seria e preoccupazione nello sguardo, Mary non ha sollevato altre obiezioni, limitandosi a fissare lo schermo del computer e fare ogni tanto battutine su come anche una come Sherlock possa avere una cotta. Inutile dire che Sherlock non si è degnata di rispondere alle provocazioni.

Sherlock ignora il messaggio di Mary – un "buona fortuna!!!" accompagnato da una di quelle faccine che, come Jane, sembra amare – e si siede su una delle scomode sedie dell'aeroporto.

È un'attesa completamente diversa rispetto a quella di mesi prima alla piscina. Non ci sono piani top secret o cecchini coinvolti, non ci sono pericoli nascosti in ogni centimetro non illuminato dalle luci fredde o bombe in grado di far saltare in aria un edificio intero. Eppure, non riesce a rilassarsi. Il cuore pulsa più velocemente del normale, batte ad un ritmo che Sherlock scandisce sul pavimento con il tacco della scarpa.

Per rilassarsi – il suo nervosismo è stupido, sa di essere in anticipo, sa di non aver fatto un errore ed essersi presentata all'orario sbagliato – si mette ad osservare le persone che la circondano.

Si tratta di un gioco che la ha sempre divertita, fin da quando era bambina.

Analizza uomini e donne come se fossero oggetti, li spoglia della loro umanità e si focalizza su dettagli e comportamenti in grado di aprire spaccati nelle loro vite, aperture dalle quali può assistere a frammenti delle loro esistenze.

C'è un ragazzo che nervoso controlla il cellulare ogni pochi secondi, apre la fotocamera interna per controllare lo stato della frangia e sorride al nulla, lo sguardo luminoso e un lieve rossore sulla pelle abbronzata. Chiunque capirebbe che sta aspettando la sua ragazza – anzi, ragazzo, si corregge Sherlock, una volta che ha notato la foto usata come sfondo del cellulare.

C'è una donna con un biglietto in mano e sulle labbra un sorriso più grande dell'enorme trolley che si trascina dietro. È pronta a lasciare il paese e incominciare una nuova vita, lontana dalla persona che le ha causato i lividi intorno al polso che cerca continuamente di coprire con la manica della maglia. Il suo è un biglietto di sola andata.

Ci sono decine di altre persone. Alcuni se ne vanno, altri aspettano, altri invece ritornano e camminano velocemente nonostante le valigie ingombranti per buttarsi tra le braccia dell'amato che non vedono da tempo. Le loro vite sono prevedibili e altrettanto banale presto diventa anche il gioco. Per scacciare il pensiero di Jane dalla sua mente – o, quantomeno, per affievolirne l'intensità – si trova costretta a cambiare esercizio mentale. Immagina come potrebbe ucciderli.

La prima volta che ha organizzato la morte di qualcuno aveva quindici anni e gli occhi gonfi dal pianto dopo aver litigato con Mycroft. La seconda era a scuola e lanciava occhiatacce a coloro che la ritenevano “anormale” per la sua intelligenza. La terza era semplicemente annoiata e aveva deciso di tramutare in un gioco le pulsioni più torbide e scure della sua personalità, convinta che sfogarle in un ambiente sicuro e controllato come la sua mente fosse meglio che reprimerle.

Una donna di trent'anni è seduta di fronte a lei e continua a ripetere sottovoci parti di un discorso imparato a memoria. Le dita sono strette un po' troppo forte attorno al foglio di carta e hanno unghie laccate di rosa antico mangiucchiate all'estremità, Sherlock pensa quanto semplice sarebbe mettere qualche goccia di veleno nello smalto ed aspettare che si uccida da sola a causa del suo tic nervoso. L'angolo delle labbra si solleva appena, in un movimento quasi impercettibile. Usando una sostanza che impiega un po’ ad entrare in circolo dovrebbe riuscire a farla franca senza alcun problema.

Passa ad un uomo sulla cinquantina seduto poco distante. Sherlock è impegnato a pensare il metodo con cui lo ucciderebbe – no, non può usare nuovamente una sostanza tossica, rischierebbe di essere prevedibile – quando una voce familiare si erge tra le altre e rende tutto il resto insignificante.

Sherlock si alza in piedi di scatto. Si guadagna un paio di occhiate curiose a cui non presta la minima attenzione.

Cammina a passo veloce fino a trovarsi di fronte a Jane Moriarty. Una Jane Moriarty leggermente diversa dal solito, dalla pelle appena abbronzata e occhiaie profonde e scure sotto occhi ancora più scuri, vestita con una maglietta bianca che le cade un po' larga e qualche chilo in meno. Là, dove il trucco si è sciolto a causa delle numerose ore di volo, ci sono macchie violacee, tracce di lividi che ci mettono troppo tempo a guarire e scomparire del tutto, ombre che come fantasmi raccontano la loro storia.

Qualunque cosa sia successa, Jane ha dovuto "sporcarsi le mani".

Sherlock continua a fissarla, occhi spalancati e cuore che batte veloce, incapace di spostare lo sguardo. Lascia che gli aloni scuri si imprimano nella sua mente, lascia che la stanchezza depositata all'angolo degli occhi scuri – anche quella non fa parte del travestimento scelto, non è un accessorio al look da turista dato dai vestiti – entri nel suo petto e renda un po' più difficile respirare.

Non è sicuramente la prima volta che Jane è stata costretta ad abbandonare il suo ruolo da dietro le quinte, eppure Sherlock non riesce a mandare giù un sapore amaro e pesante a cui non riesce a dare un nome. Aleggia lì, sulla punta della lingua, la rende ancora più confusa. Si trasforma in qualcosa di diverso e più pungente quando con dispiacere si rende conto che non è lei la causa del malessere di Jane. Dovrebbe sentirsi in colpa per questo suo pensiero. Nel suo egocentrismo, non riesce ad esserlo.

«Sherlock.»

La voce di Jane è un sussurro delicato quanto una carezza, flebile e leggero quasi si perde nel vociare dall'aeroporto eppure la fa trasalire ed entra più in profondità di qualunque urlo. È una parola sola, ma è talmente carica di significato e di conversazioni non dette che Sherlock non sa cosa rispondere.

Non dice nulla.

Si fa avanti e la bacia.

È un contatto sperimentale, è un primo passo in una terra inesplorata, è come camminare a tentoni nel buio. Le loro labbra si incontrano in modo maldestro, i loro nasi si scontrano prima che Sherlock realizzi di dover inclinare appena il capo eppure Jane trattiene comunque il fiato e chiude gli occhi, un sospiro soffocato che muore lì dove le loro bocche si toccano e i loro respiri si mescolano.

È un bacio come tanti altri. Non è nulla di speciale, anzi è un tantino imbarazzante e maldestro. Forse è anche per questo che Sherlock sente il bisogno di avere più informazioni.

Quando si rincontrano di nuovo dopo essersi separate, è più naturale.

Le labbra di Jane sono dischiuse e diventa facile allora far scivolare la lingua tra di esse, approfondire il contatto mentre le mani fanno a posarsi sulle guance, polpastrelli che piano carezzano il volto. La pelle di Jane non è l'unica cosa ad essere morbida. È morbido anche il suo corpo quando la tira di più verso di sé, è morbido il tocco delle sue dita e il piccolo soffice suono che si incastra nella sua gola quando il bacio diventa più profondo.

Si staccano con il respiro affannato e le gote arrossate, con occhi grandi dalle pupille dilatate e il bisogno di baciarsi nuovamente, in quel modo che ti lascia con i polmoni in fiamme e rende chi ti circonda a disagio. Jane decide di assecondarlo prima che Sherlock abbia il tempo di chiamarla per nome.

Non si staccano neanche quando sentono una voce maschile alla loro destra.

«E che cazzo, finalmente.»

Sherlock scoprirà che l'uomo dai capelli biondi e metà volto solcato da cicatrici si chiama Sebastian Moran e che ha l'irritante superpotere di interromperle e disturbarle sempre nei momenti meno opportuni.

 

(+1.)

L'ha chiamata Jane in mezzo a baci affannati, con labbra rosse e polmoni in fiamme. L'ha chiamata Jane con voce impastata dal sonno e riccioli ribelli davanti agli occhi, con un braccio intorno alla vita per impedirle di alzarsi e costringerla a passare altri cinque minuti in lenzuola di seta che portano il loro odore. L'ha chiamata Jane in fronte a Joan, cosa che le ha fatto guadagnare in risposta un'occhiata perplessa che ha allontanato con una scrollata di spalle nonostante abbia reso le sue orecchie rosse e calde di puerile imbarazzo.

L'ha chiamata Jane diverse volte e ora il nome scivola naturale e spontaneo sulla sua lingua, lascia dietro un dolce retrogusto domestico che tuttavia non è stucchevole, in quanto contrastato dal sapore forte e aspro che ha sempre associato a Moriarty.

«Sherlock…»

Jane sussurra il nome direttamente sulla pelle, con labbra morbide ma rovinate dai morsi. Indugia sulla porzione tra collo e spalla per un po', ne sente il sapore sulla punta della lingua, poi stringe i denti intorno ad essa con forza. Il tocco delicato e gentile viene sostituito con uno completamente agli antipodi. Mentre il dolore entra in lei come uno spillo affilato – e si lascia andare a un piccolo gemito che fa arricciare le labbra dell'altra in un'espressione soddisfatta, cosa per la quale si maledice – non può fare a meno di pensare a come quel repentino cambio sembri quasi una metafora della loro relazione. Il pensiero la fa sorridere.

«Dillo.»

Quella che si libera dalla bocca di Sherlock è una piccola risata, un suono leggero e divertito che muore nella sua gola e si trasforma in un mugolio strozzato quando Jane la morde nuovamente. Ha ancora le labbra sollevate in un accenno di sorriso.

«Costringimi.»

Jane si china tra le sue gambe senza aggiungere altro. Entrambe sanno che è solo questione di minuti prima che Sherlock urli il suo nome.

 

 

 

   
 
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