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Autore: imunfjxable    11/04/2016    0 recensioni
E se ognuno di noi a «come stai?» rispondesse la verità le strade sarebbero invase da fiumi di lacrime.
June, July, April e October; ragazze che stanno per diventare donne e che affrontano le difficoltà della vita a testa alta, perché loro sono ragazze grandi che (non) piangono.
A 5 SECONDS OF SUMMER FANFICTION.
©imunfjxable
Genere: Fluff, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Big girls (don't) cry, boys do (sometimes)'
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XVI. Tre passi e ventritre centimentri

 

Paris-THE1975

Calum strofina con vigore la pezza bianca, particolarmente sudicia all'angolo sinistro, sul bancone del bar del ristorante. Fa forza, spruzza un altro po' di detersivo e continua a strofinare, ma niente: quella macchia giallastra, sul legno marroncino, di andare via non ne vuole proprio sapere. Il grosso è andato via, ma il segno indelebile resta sempre. Un po' come April, che pur essendo morta resta sempre con loro.
Lo sa bene Calum, che ieri sera ha scoperto July che pregava tenendo in mano la catenina d'oro di April, quella che Michael vide sulla sua scrivania la prima volta che entrò da lei.
Era inginocchiata July. Pregava a bassa voce, singhiozzava leggermente. E Calum l'aveva osservata fino a quando non si era alzata, e si era tolta la polvere del pavimento dai pantaloni con le mani, e aveva scosso il capo, come se si fosse pentita di quello che aveva appena fatto. Si erano guardati negli occhi poi, le loro anime s'erano quasi baciate ma July l'aveva lasciato da solo ed era uscita fuori dalla porta di casa, chiudendola delicatamente.
Calum, intanto, continua a strofinare.

«e così l'hai lasciato andare»
«Adam, non avrei potuto fare nient'altro»
«ma lui ti ha chiesto di andare con lui, perché gli hai detto no?»
«perché» June prende fiato. Perché non è andata con Ashton?
Ha sempre avuto la cattiva abitudine di stare da sola June, di preferire la sua compagnia a quella degli altri. Ma era per quello?
«Avevo paura. Io ho paura di lasciarmi questo- ammesso che "questo" sia ancora qualcosa- alle spalle»
«E allora June, se hai paura di lasciarti "questo" alle spalle, perché ogni giorno speri che cambi qualcosa?»
E June sta zitta.
Adam si mette una mano in tasca, e l'altra nei capelli neri.
«Ti ricordi quando sei andata al museo? Dovresti scegliere la foto da mettere sulla copertina del Time, esce domani»
«Ora mi metto subito a lavoro»
Scende dalla scrivania disordinata di Adam, camminando verso la sua poco distante. Si siede sulla sedia di pelle nera, rovinata. Ha anche un graffio sul lato destro, è particolarmente rotta, ma June non la butta, così come per la giacca di pelle nera, quella che assomiglia a quella di Ashton, quella che ha indossato la prima volta che sono usciti.
Lo schermo del computer si accende, e June apre una cartella sul desktop, dove aveva salvato le foto del museo. Clicca sul primo file.
È il museo, da fuori. Bianco, nasce da una gradinata di cemento prepotentemente e si fa spazio tra le atone case di New York. Sembra che l'abbiano buttato li per caso.
Preme la freccetta destra della tastiera, alla quale manca il tasto della lettera A, e passa alla foto successiva.
C'è "la libertà che guida il popolo".
Va avanti.
Lo stesso quadro, diversa prospettiva.
Va avanti.
Foto dall'alto.
Va avanti.
Foto dal basso.
Va avanti.
Foto della stanza completa.
Va avanti.
Foto di Ashton di spalle, leggermente di profilo, che guarda il quadro.
Va avanti.

Si sta facendo buio. October vede la luce farsi più fioca ogni secondo che passa, il sole ormai è quasi del tutto tramontato, il cielo è vuoto senza di lui. Così come la biblioteca. Così come la loro vita senza April. Girava tutto attorno a lei, ormai.
È solo quando le foglie cadono dall'albero che capisci quanto siano smorti e soli i rami.
October però non si sarebbe arresa. No, non l'avrebbe fatto. Aveva superato il rehab, i suoi problemi, Martin. L'animo da combattente lei ce l'aveva sempre avuto, avrebbe continuato a lottare per April.
Qualcuno entra nella biblioteca, cammina anche veloce. I suoi passi pesanti risuonano nel silenzio dell'ingresso. Riconosce dei capelli biondi, e gli occhi azzurri.
Si poggia sulla scrivania con le mani.
«Dobbiamo fare una cosa per Michael»dice.
«Cosa?»
«Me l'ha chiesto April nella sua lettera Oct, ecco cosa devi fare»
July si avvicina a lei e le bisbiglia qualcosa, solleticandole l'orecchio destro.

Luke è alto 1.93 metri, ma lui non ha mai saputo cosa farsene di tutto il suo corpo, l'ha sempre considerato troppo ingombrante, un eccessivo spreco di spazio per qualcuno così insignificante. Luke è piccolo dentro, anzi, dentro non c'è rimasto quasi più niente, non l'ha mai saputo con esattezza chi era e adesso? Adesso non lo sa proprio più. Sa solo che lui è in un corpo troppo grande e che è tuttavia relativamente piccolo rispetto all'altezza che lo separa dal mare sottostante.
Il molo è illuminato dall'eccessive luci suburbane, è una vera e propria giungla come cantavano i guns, e Luke si accarezza la maglietta con il loro stemma e la stringe un po' tra le dita bianche con le unghie mangiucchiate. Guarda per terra, come sempre.
E vede le sue gambe dondolare sull'acqua fredda.
Non c'è gente, le uniche persone che camminano di notte sono distanti e preferiscono restare sulla strada principale, quella vicino la biblioteca, piuttosto che svoltare a destra e passeggiare per il porto sul mare per poi salire sul molo di legno, in alto rispetto all'acqua.
Si porta una mano in viso, esasperato.
E tocca il suo zigomo destro, ancora gonfio per il pugno ricevuto da Michael.
Come dargli torto?
E forse sarebbe dovuto morire lui e non la piccola April di Michael. Lei aveva tutto, poteva farcela; evidentemente non ci credeva abbastanza.
Luke ogni giorno si sveglia senza uno scopo, apre gli occhi e già è stanco e non vede l'ora di tornare a letto e spera solo di non svegliarsi più.
È strano come succede.
È solo che un mattino ti svegli totalmente pieno di un senso di vuoto, consapevole che le cose non miglioreranno, e continui così, all'infinito. È una tristezza che si attacca addosso, e non va via, come la sabbia bagnata sulla spiaggia. Non importa quanto tu possa provare a strofinarti per pulirti; qualche granello resta sempre, almeno fino a quando non ti butti.
E Luke adesso ci sta pensando seriamente a buttarsi per togliersi tutta quella sabbia di dosso. Sarebbe tutto più semplice.
Si alza, e guarda giù, ma non ha il coraggio. Continua a fissare. Oppure ce l'ha?
Se si buttasse e basta sarebbe più facile ma Luke è sempre stato uno che pensa troppo. Uno che anche per i problemi più semplici trova la strada più contorta; è la sua mente che lo sta distruggendo.
Ora è arrivato il momento che lui distrugga la sua mente.
E così fa un passo.
Manca ancora un po' di strada.
Ne fa un altro.
Sente le onde del mare muoversi piano, e allora capisce che questo è un modo perfetto di morire. È tutto così pacifico.
Chiude gli occhi.
Silenzio.
Fa un altro passo.
Silenzio.
Un altro passo.
Una persona corre sul molo.
Apre gli occhi di scatto ma non si volta; ora o mai più.
«Luke che stai cercando di fare?»
Si gira non appena riconosce la voce di October e le lacrime gli offuscano la vista, già resa difficile dal buio.
«Preferisco morire piuttosto che vivere un altro giorno come questi» urla.
Se fosse un film October correrebbe da lui e lo bacerebbe, lo fermerebbe. Ma non lo fa.
Si siede per terra, e si accende una sigaretta.
È fredda come sempre.
«Non fare il coglione. Vieni qua»
Luke fa un altro passo.
October si alza, è calma, continua a fumare.
«Luke per favore»
Luke non vorrebbe fare altro che correrle incontro e piangere su di lei, perché ha solo bisogno di qualcuno che lo consoli. Eppure fa un altro passo- più piccolo degli altri però, non vuole morire veramente (forse), vuole solo che October lo fermi.
«Luke porca puttana fermati»
Si avvicina a lui. Il ragazzo le da le spalle.
«Tre passi e ventitré centimetri» risponde.
«cosa?»
«Mi mancano tre passi e ventitré centimetri alla fine del molo»
«ti mancano tre passi e ventitré centimetri alla fine della tua vita Luke. Non farlo»
«perché?»
«perché poi con chi mi arrabbio? Chi prenderà il tuo posto? Ho già perso April, non posso veder morire anche te. Odio i funerali, non costringermi a venire anche al tuo»
«È alquanto ironico che tu dica questo. Mi stavi ammazzando tu con le tue stesse mani l'altro giorno»
«Queste mani» le alza verso l'alto tremando «questa mani» urla «ne hanno fatte di cazzate nella loro vita. Queste mani non sono adatte ad amare. Sostituiscono le carezze con gli schiaffi, perché questo cervello» si indica la tempia « è ormai fuori controllo. Queste mani Luke, non sanno amare, così come questo corpo, o quest'anima eppure queste mani» October si siede per terra a gambe incrociate, butta la cicca di sigaretta e giunge le sue mani «ti pregano di non fare tre passi e ventitré centimetri verso l'acqua, perché il paradiso può aspettare, goditi un po' la vita qui, ancora per un po'»
«Di che mi ami»
«Non posso»
«perché no?»
«perché non ti amo. Non posso mentirti»
«allora salto»
«non saltare. Dammi modo per imparare ad amarti»
«no»
«tre passi e ventitré centimetri è la distanza che ti separa dall'acqua ma tre passi e ventitré centimetri» October adesso si alza e cammina posizionandosi abbastanza vicina a lui, è incazzata nera con Luke, ma ha solo paura che lui si butti per davvero perché che è stupido l'ha capito, e come fa poi da sola senza di lui? Perché un po' (forse) le sarebbe mancato «è anche la distanza che ti separa da me»
Luke allora torna indietro e si ferma davanti ad October.
Si guardano per un po' ma non sanno che dire, e Luke corre da lei e l'abbraccia. Le sue braccia gli cingono fortemente il collo.
«Sono contenta che tu non ti sia buttato»
«Perché?»
«perché un po' ti voglio bene. Ti prego, smettila di drogarti. Non riuscirei a sopportare anche la tua perdita per overdose.»
«io ti giuro che ci provo. Io ci sto provando. Ma ogni mio tentativo è vano; perché tutto quello che faccio va a puttane?»
«Forse non proprio tutto»
October è alta quasi quanto Luke, forse solo pochi centimetri in meno e si avvicina al suo viso senza difficoltà, gli posa una mano sulla guancia che Michael aveva colpito l'altro giorno, e gli accarezza la pelle tumefatta coperta da una leggera barbetta incolta.
Lo bacia, senza perdere tempo, non fa giochetti come quelli dei film. Si scaglia sulle sue labbra velocemente, le bacia, ricambia, sorridono, continuano a baciarsi, le mani di Luke stringono i dread di October e lei si tiene saldamente alla maglietta nera di Luke.
«E adesso?»
«e che ne so» risponde noncurante come al solito, prendendo due sigarette dal pacchetto di Camel. Poi estrae l'accendino abilmente nascosto nel reggiseno e le accende entrambe, porgendone una a Luke «dici che potrebbe funzionare?» continua October.
«in matematica due negativi danno un positivo; forse questa volta così come nella matematica due cose sbagliate daranno il via a una cosa giusta» risponde cacciando un po' di fumo.
October e Luke si siedono nuovamente sul molo, alla fine, ma non hanno nessuna intenzione di saltare.
October aspira.
«Grazie» dice.
«per cosa?»
«per tutte le volte che ti ho mandato a fanculo e sei venuto a riprendermi» gli risponde.
«Grazie anche a te. Sai, per tutte le volte in cui mi sono drogato, e tu hai provato ad aiutarmi» bisbiglia Luke con la sigaretta tra le dita, poco distante dalle sue labbra.
«Oct» continua Luke «credo che noi due ci conosciamo da sempre, sai perché? Quando c'è stato il Big Bang tutti gli atomi dell'universo si sono uniti in un minuscolo puntino che poi è esploso. Quindi i miei atomi e i tuoi atomi erano sicuramente insieme, chissà, magari si sono uniti diverse volte negli ultimi» si ferma per un istante mormorando calcoli incomprensibili alle orecchie di October che lo guarda interessata, dentro di lei si sta addolcendo piano piano, eppure preferisce non far trapelare nulla «tredici virgola sette miliardi di anni, più o meno. I miei atomi conoscono i tuoi atomi, li conoscono sin dall'inizio. I miei atomi hanno sempre amato i tuoi atomi»

La luce entra dalla tenda bianca e si proiettata sul muro giallognolo, e sul viso del ragazzo. Apre gli occhi a fatica, si porta una mano sul viso stropicciandoli un po'.
Passa l'altra mano tra i capelli ricci provando a districarli un po'.
Si veste in fretta e scende di corsa le scale del suo palazzo. Parigi è bella la mattina presto, baciata dai raggi del sole europeo.
Parigi è bella si, ma June un po' di più.
Perché June è più bella della Senna, della torre Eiffel, del Louvre e di qualsiasi opera d'arte che Ashton abbia mai sorvegliato o illustrato a turisti distratti e senza meta.
Forse non aveva fatto la scelta migliore. Eppure aveva bisogno di un po' di tempo per pensare. Per capire.
Si, per capire che ha fatto una stronzata perché a lui June manca, si sente come il cielo senza luna, insignificante.
Ma a lei lui mancava? Gli aveva detto lei di partire. Gli aveva detto lei che era una grande opportunità. Lei non era voluta andare con lui.
E Ashton si mordicchia il labbro inferiore mentre entra nella stanza delle ninfee di Monet al museo dell'Orangerie a Parigi.
Dei gruppi di turisti entrano, iniziano a scattare migliaia di foto. Non ce ne è uno che guarda effettivamente il quadro. E Ashton dentro di lui si arrabbia perché l'arte va ammirata per davvero, si guarda prima tutta una volta e poi si studia poco a poco. È così che si è innamorato di June.
L'ha vista prima per intero quella mattina dopo la festa, l'ha squadrata da cima a fondo e arrivò alla conclusione che June era la prima ragazza bella a prima mattina, senza trucco e mal vestita. E poi l'aveva ammirata un po' per volta.
Ricordava i suoi occhi caramello la sera che erano in auto.
Ricordava il suo sorriso timido la sera al pub.
Ricordava le sue unghie rosse che quasi graffiano la reflex che aveva collo quando andarono al matrimonio di Chloe.
Ricordava le sue lacrime nel bagno di casa sua.
Ricordava il suo sangue nel bagno di casa sua.
Ricordava il suo primo bacio nel bagno di casa sua.
Ricordava il suo corpo nudo pieno di tatuaggi la prima volta che sono andati a letto.
Era l'opera d'arte più bella che avesse mai visto.
Un flash gli offusca la vista per qualche istante e si avvicina a una turista.
«Le foto senza flash!» sbotta.
«mi scusi»
«ma perché non provate un po' a guardarli questi quadri al posto di fotografarli?»
«perché facciamo foto solo alle cose che non potremo rivedere mai più, o alle cose che abbiamo paura di perdere» e Ashton non risponde. E poi si ricorda.
June una foto soltanto a lui non gliel'ha mai fatta.
E cerca di reprimere le lacrime dentro di lui, mordendosi l'interno della guancia sinistra.
«Oddio ma lei non è il ragazzo che è sulla copertina del Time? Possiamo farci una foto? Per favore!» chiede strillando una ragazza del gruppo.
«Come scusi?» Ashton è spaesato.
E la ragazza apre la borsa e semplicemente gli mostra il numero del Time che ha comprato questa mattina indicando il ragazzo sulla copertina.
E Ashton sbianca, è lui, leggermente di profilo. La luce del museo gli illumina il viso. Stava guardando "La libertà che guida il popolo". Distava circa tre passi e ventitré centimetri dal quadro. Quel giorno June fece una foto anche a lui.
E lui non se ne era accorto.
Perché forse ogni volta che lui guardava altrove era lei a guardare lui.

AYEEEE.
Uhm boh non so che dire. Che bello ehehe. Spero che il capitolo vi sia piaciuto.
Voglio una standing ovation per October, che se aspettavamo a Luke facevo una fanfiction più lunga di "guerra e pace".
Ashton è troppo cucciolo, ceh.
June (June reale so che sai leggendo, fammi la tua registrazione/commento/critica se no ti picchio domani 😒💙 ti aime💙💙)
E non saprei. Ah July e Calum. Nel prossimo capitolo prenderanno una brutta (dipende dai punti di vista) decisione. Non so come continuare questo AYEEE senza senso. Michael era assente. Boh.
Stavo anche per scrivere "April non si sa che fine ha fatto" ma OPSSS è morta, povero tesoro mio. :c
Se vi è piaciuto recensite, continuo a 1 recensione, vi amo, alla prossima
Ps: siamo quasi alla fine :c

   
 
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