11/04/2016
0 recensioniC’era una volta una ragazza intenta a girovagare per una triste città battuta dalla pioggia fine, tra sospiri di macchine e cacofonie di suoni. La fanciulla in questione portava il nome di Alice.
Rosso era il suo ombrello, azzurro il morbido fiocco tra i capelli biondi e grigio il cappotto di panno.
Ella, delusa dall’assenza di colore, privata della felicità da quel paesaggio smorto, sostava sul marciapiede tra le imprecazioni di chi cercava di evitarla, come il mare quando incontra uno scoglio.
Non possedeva nient’altro se non quello che aveva indosso; era scappata di casa molto in fretta.; l’ombrello rubato ad uno dei locali lì intorno; fuggita dagli incubi che la perseguitavano ultimamente.
Psicologi. Pillole. Psicologi. Psicologi. Pillole. Psicologi. Pillole, pillole, pillole!
Era questa la sua vita da quando aveva commesso l’errore di lasciar trasparire il suo turbamento interiore. Le occhiaie le segnavano gli occhi turchini, le grida scuotevano la sua notte, il rifiuto del cibo caratterizzava i suoi giorni e il silenzio accompagnava la sua vita.
I suoi genitori si erano accorti che qualcosa non andava e avevano deciso di agire.
-Ehi Alice mi senti? Sono qui - una voce sconosciuta.
La ragazza si girò, gli occhi spalancati.
Ehiii, sono proprio qui, di fronte a te. Vieni.
Alice lasciò cadere l’ombrello scarlatto, le mani premute sulle orecchie, accovacciata per terra desiderava solo che gli incubi non le facessero visita anche di giorno.
Non cercare di ignorarmi, so che mi senti. Non fare finta che io non esista, la cosa leggermente mi infastidisce. Dai, su, vieni da me, non ti farò del male.
Paralizzata, volse leggermente lo sguardo verso il vicolo.
Impaurita e incuriosita, tolse le mani dalle orecchie.
Attratta dalla voce, si diresse verso il vicolo buio dal quale proveniva quel sussurro.
N.d.a: