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Autore: Gwen Chan    03/05/2016    3 recensioni
Di certo l’ultima cosa che Arthur si sarebbe aspettato era di innamorarsi dello straniero provenzale che incantava tutti (tranne lui) e non sapeva spiccicare mezza parola d’inglese.
Di certo l’ultima cosa che Arthur si sarebbe aspettato era che suddetto straniero, dopo avergli rubato il cuore, sarebbe morto.
Di certo l’ultima cosa che Arthur si sarebbe aspettato era che suddetta persona tornasse come fantasma.
[Medieval!AU][FrUk][Prima classificata all’AU contest- Wherever we are indetto da EmmaStarr sul forum di EFP]
Genere: Generale, Sovrannaturale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Francia/Francis Bonnefoy, Inghilterra/Arthur Kirkland
Note: AU, Lime | Avvertimenti: nessuno
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NdA: Indicativamente le vicende si snodano nei primi del 1300, tra il 1303 e il 1314, anno più, anno meno, uno dei pochissimi momenti in cui la Francia e l’Inghilterra non si sono combattute. È anche il periodo in cui cominciano a formarsi le lingue nazionali. In Inghilterra si parla il middle english, mentre in Francia vi è la divisione tra il francese settentrionale (la langue d’oil) e il francese meridionale (la langue d’oc), tralasciando eventuali sotto-divisioni. La storia alterna momenti ambientati nel presente della storia e altri di flashback.
 
 
SENHAL
 
Quando comunicarono ad Arthur che Francis, il garzone che suo padre aveva preso a bottega anni prima, era morto, egli non batté ciglio. L'idea che Francis fosse morto, infatti, era troppo assurda per essere anche solo concepibile. Esulava dai confini della realtà comprensibile alla mente umana, addentrandosi nel dominio di misteriosi esseri e creature che popolavano l'immaginario collettivo e che la Chiesa condannava in massa quali espressione immonda del Demonio. 
Se Francis era morto, freddo, buono solo per avere come amanti i vermi, tanto valeva credere che la Terra fosse rotonda.
Arthur, che in principio non aveva versato nemmeno un'educata lacrima di circostanza, non si capacitava di come fosse potuto accadere. Né afferrava il motivo di una simile morte, tanto prematura. Certo, il clima umido e poco salubre della città, unito ai fetenti effluvi che imbrattavano le strade notte e dì, faceva sì che molti non arrivassero vivi ai trent'anni. Superare i cinquanta, poi, era degno di un miracolo. Tuttavia, Francis aveva sempre goduto di ottima salute, sembrava essersi adattato perfettamente al freddo inglese e, da quanto ricordava, Arthur non lo aveva mai sentito tossire o starnutire anche solo una volta. Solo al principio del suo soggiorno in terra inglese, il garzone fu scosso da una pesante influenza, che lo costrinse a rimanere a letto per una settimana, in un delirio di febbre e sudore.
Superata la fase critica, si era ripreso perfettamente e da allora non si era più ammalato. Erano passati quasi otto anni dall'episodio e gli anticorpi sviluppati avevano difeso il giovane come soldatini valorosi votati alla protezione del proprio sovrano; almeno fino a una settimana prima, quando Francis si era ammalato di polmonite, subdola e implacabile. Arthur lo aveva avvisato di come lavarsi da capo a piedi in pieno inverno fosse una pessima idea, ma l’altro non lo aveva ascoltato, ossessionato dalla propria igiene personale.
A nulla erano serviti gli impacchi di erbe medicinali, le benedizioni del prete, le invocazioni del paganesimo popolare, i salassi, le preghiere recitate col tono di chi non ha più nulla da perdere e si aggrappa a ogni rimedio possibile. Francis aveva manifestato i primi segni di malessere il mercoledì ed era spirato il sabato, morto soffocato nel suo stesso muco.
Arthur, osservando il feretro venire calato nella fredda terra di gennaio, sotto un cielo come d’abitudine gonfio di nuvoloni cupi, aveva sentito il suo cuore farsi un poco più duro. Nel tornare a casa, a passo lento, molto lento, incurante della pioggia gelida che aveva cominciato a picchiettare sulla sua testa, appiattendone la chioma ribelle, quasi piangendo al posto suo, pensò alla messa appena trascorsa, alle parole di lode per la vita esemplare del trapassato, per la perdita da affrontare con l’animo sereno grazie alla promessa del Regno dei Cieli, e all’ipocrisia dell’ultimo sacramento imposto al moribondo. Il prete non sapeva.
Nessuno sapeva.
Tranne lui.
***
 
Quando Arthur aveva visto per la prima volta Francis, il suo animo si era riempito di una serie di emozioni indefinibili,  ma di certo negative. Strofinandosi gli occhi ancora secchi, incapaci di versare una singola lacrima di cordoglio, riandò con la memoria a quel primo incontro. All'epoca aveva quindici anni, Francis diciotto e, sebbene Arthur fosse più maturo dei suoi coetanei, la differenza d'età si era fatta sentire.
Cosa aveva provato?
Invidia?
Sì, era l'invidia a presentarsi quale risposta al proprio muto quesito. Aveva invidiato la bellezza del nuovo arrivato, del genere in grado di piegare le dame al proprio volere con una semplice occhiata, non appena si fosse liberata dagli ultimi rimasugli d'infanzia.
Ne aveva invidiato i capelli, biondi come i suoi, ma di una sfumatura più dorata, di grano baciato dal sole quando a luglio è pronto per essere falciato; cadevano in morbide onde quasi fino alle spalle. Arthur arricciò le labbra. Anche lui aveva provato a farsi crescere i capelli, ma questi, superata una certa lunghezza, invece di obbedire alla forza di gravità e puntare verso il basso, avevano cominciato a piegarsi di nuovo all’insù e in tutte le altre direzioni, finché non era stato costretto a tornare al proprio taglio arruffato. Sei mesi sprecati.
O, a ripensarci, forse aveva provato gelosia.
Si era sentito minacciato da Francis, non comprendendo il motivo per cui suo padre avesse deciso di assumere un garzone quando aveva già lui che lo aiutava, unico a non essersene ancora andato. Aveva visto l’intruso come un rivale pronto a sottrargli l’affetto e la stima del genitore, che già doveva condividere con quattro fratelli maggiori. Costoro lo avevano preso in antipatia dalla sua nascita, causa della morte della loro adorata madre, e da allora non avevano perso occasione per ricordaglielo. Ironia della sorte, Arthur aveva preso molto dal lato materno della famiglia, dalla corporatura sottile al colore dei capelli e degli occhi. Dal padre aveva invece ereditato le folte sopracciglia nere, marchio di fabbrica dei Kirkland. Qualche popolano particolarmente ciarliero e superstizioso sussurrava che fossero dovute a un antico maleficio scagliato da una strega offesa per una colpa ormai dimenticata.
Arthur aveva provato a protestare col capofamiglia, quando era venuto a sapere – nemmeno dalla sua bocca – della novità, sottolineando l’inutilità di una simile scelta. Non esisteva ragione per prendere in casa un dipendente, con relativo vitto, alloggio e eventuali spese annesse, quando Arthur era già così bravo con i libri contabili. Il padre si era limitato ad arruffargli i capelli con una ruvida carezza, prima di fargli notare quanto fosse incapace quando si trattava di giudicare la qualità dei tessuti e chiudere così il discorso.
L’immagine fantastica che Arthur aveva ricamato attorno al nuovo arrivato, quasi lo considerasse una pericolosa creatura ammaliatrice, si infranse non appena questi aprì bocca, fornendogli un meschino appiglio cui aggrapparsi per salvare il proprio orgoglio. Lo straniero, infatti, incespicò su poche, stentate parole d’inglese, pronunciate con un accento tanto forte da essere pressoché inintelligibili. Tra sé e sé Arthur ghignò, con la gioia di chi, sapendo di essere inferiore, assiste al primo errore del campione dopo una lunga serie di successi; non avrebbe esitato a pressare il garzone in un fitto discorso in madrelingua, per il solo piacere di vederlo arrancare tra vocaboli sconosciuti e sgranare gli occhi nel tentativo di afferrare il filo del parlato, se suo padre non fosse lesto intervenuto, passando al francese con assoluta naturalezza, ricordo dei viaggi di gioventù a seguito del padre, uno dei primi ad aver fiutato la redditività del commercio lanifero nell’Europa continentale.
Gli occhi cerulei di Francis si erano illuminati di gratitudine; anche quelli di Arthur avevano brillato, ma d’odio, che si era intensificato quando gli era stato affibbiato, senza possibilità di replica, l’ingrato compito di insegnare l’inglese al garzone.
Sì, a conti fatti, quel giorno l’odio era stato il sentimento preponderante.
Per amore di cortesia, Arthur chiese a Francis da quale parte della Francia venisse, parlando lentamente come se si stesse rivolgendo a uno stupido.
Provence. Provenza, gli era stato risposto. Una landa affacciata sul Mediterraneo, dove, accidenti, non si parlava nemmeno il francese comune, ma una lingua a parte; una terra soleggiata, selvatica e viola di lavanda, dove il mare non si ribellava alle navi.
Nell’udirlo pensò che Francis non sarebbe sopravvissuto a lungo.
 
***
Col senno di poi, tale previsione dettata dall’astio si era rivelata tristemente corretta, per quanto il francese fosse durato ben oltre le poche settimane concessegli dal giovane Kirkland, ora in piedi a braccia conserte fuori dalla bottega paterna.
Il suo imitato bagaglio attendeva sul carretto, un baule e un paio di sacchi ben legati con un sistema di corde perché non cadessero e non si perdessero durante il viaggio. Arthur fece un cenno di saluto al cocchiere, un contadino dal viso rubicondo nascosto da una folta barba rossiccia, il quale, dovendo recarsi a Lavenham per sbrigare delle faccende personali, aveva acconsentito a dargli un passaggio. Arthur sarebbe andato a stare dal nonno materno, che lo avrebbe ospitato quel tanto che bastava perché il giovane trovasse un alloggio e un lavoro. Lavenham stava rapidamente crescendo grazie al commercio della lana che dall’Inghilterra veniva inviata nelle Fiandre per essere lavorata e trasformata in pregiati tessuti da rivendere a chi aveva abbastanza denaro per acquistarli e Arthur, nonostante faticasse a distinguere una pezza di lino da una di cotone, aveva sufficienti conoscenze per proporsi come contabile.
La decisione fu presa un paio di giorni prima, trascorsa una settimana di attenta e sofferta riflessione, dopo che il signor Kirkland aveva ammesso di aver bisogno al più presto di un altro aiutante, non mancando di lamentarsi per la fatica che avrebbe compiuto, alla sua età tra la’ nel dover ricominciare da capo a istruire un nuovo ragazzo. E non era più giovane.
Arthur lo vide risucchiarsi il labbro inferiore, come a voler trattenere le proprie parole, e giunse a ipotizzare che fosse più dispiaciuto per il fatto di non aver più qualcuno che lo aiutasse in bottega che per la morte dell’uomo che per tanto tempo aveva vissuto in casa loro. Si era sentito ribollire di rabbia, stringendo i pugni dietro la schiena; tuttavia aveva mantenuto la calma, preoccupato di difendere il proprio segreto che nulla doveva tradire, e si era limitato ad annuire, chiedendo solo che il padre aspettasse almeno qualche giorno. Gli era stato concesso.
Arthur sapeva che, pur nel suo severo pragmatismo, suo padre si era affezionato a Francis, nella maniera in cui un genitore si affeziona al figlio, o un maestro si lega al proprio allievo; allo stesso tempo, però, era ben conscio di come il lutto non sarebbe durato che pochi giorni, specialmente con il paese che si preparava ad ospitare una fiera che avrebbe attirato gente da tutta l’Inghilterra.
Quelle che per Arthur erano ormai diventati le memorie concrete del passaggio altrui, per il mercante non erano altro che mere suppellettili da dare al prossimo ragazzo come parte della paga. Presto il giaciglio di Francis, lo stesso dove Arthur si era infilato di sua sponte, in una notte dove il vento aveva ululato con la disperazione di una banshee, sarebbe passato ad altri.
Arthur si sedette sul bordo del letto, non osando toccare il pagliericcio che aveva conosciuto i fremiti della sua carne e gli ultimi rantoli del morto, e comprese di non essere affatto pronto ad accettare una nuova presenza in quella stanza. O in bottega. O in città.
Non potendo impedire che suo padre assumesse un nuovo apprendista, conscio dell’importanza di una simile figura per gli affari del negozio, il giovane uomo prese l’unica decisione possibile: se ne sarebbe andato.
Poi, finalmente, pianse.
Il sole era già alto nel cielo quando i preparativi per il viaggio furono ultimati e Arthur, dopo aver ricevuto la benedizione paterna, prese posto sul carro. Il viso cinereo rivaleggiava con la bruma. Il contadino al suo fianco fece schioccare la lingua, l’asino si riscosse dal proprio torpore, mosse la testa di qua e di là per scacciare una mosca invisibile, e iniziò ad avanzare. Arthur si guardò indietro, spostando la zazzera bionda dagli occhi, in un ultimo saluto. Il cocchiere era un tipo ciarliero e, suo malgrado, riuscì presto a coinvolgerlo in una chiacchierata. Anche Francis amava parlare.
 
 
***
Francis amava parlare e imparava in fretta. Non era solo intelligente, attento, tremendamente capace nei suoi compiti – Arthur si sarebbe fatto baciare da un’Attercroppe velenosa piuttosto che ammetterlo – ma possedeva anche l’utilissimo dono del sapersi far ben volere, di mostrarsi agli occhi altrui nella maniera più cortese possibile. Insomma, Francis era riuscito persino a far piegare verso l’alto l’angolo sinistro della bocca di Alistair, massimo riconoscimento che ci si potesse attendere dal taciturno e brusco primogenito dei Kirkland.
Le buone maniere costituivano il punto di partenza, l’eloquenza aggiungeva quel qualcosa in più, l’accento e il fascino dello straniero davano il tocco finale.
Da quando c'era Francis, in bottega le vendite erano migliorate - e qui Arthur si trovava costretto a dare il proprio consenso, dato che i libri mastri parlavano al posto suo - perché non esisteva donna o uomo che il francese non riuscisse a convincere della bontà di una stoffa e della conseguente importanza di acquistarne qualche metro. Mutava registro in base all’interlocutore, prestando attenzione a non essere ripetitivo nelle proprie lusinghe, e aveva sempre, sempre, pronta quella parola in più che faceva scattare qualcosa nella mente dei clienti e li portava ad aprire la borsa del denaro. 
Oltre a ciò, possedeva uno spiccato talento per distinguere i tessuti in base alla qualità. All'inizio, acerbo per non aver mai avuto un maestro, si affidava al tatto per saggiare la robustezza e la morbidezza dei panni; in pochi mesi fu in grado di dare giudizi accurati basandosi solo sulla vista.
Eppure il tutto sarebbe stato ancora sopportabile per Arthur se Francis non avesse perso occasione per ricordargli quanto fosse, nei suoi confronti, provinciale nelle abitudini e nel modo di vestire, sottolineando costantemente come fosse stata l’influenza normanna a rendere gli anglosassoni un po’ più civili. Arthur gli intimava – anzi ringhiava – di non darsi troppe arie, di non atteggiarsi a gran signore quando veniva da uno sputo di villaggio nei campi provenzali e c’era il rischio che avesse meno sangue normanno di lui. D’accordo, l’ultima affermazione probabilmente aveva poco di vero e Arthur l’aggiungeva per amore di completezza al proprio orgoglio.
Francis faceva irritare Arthur perché con la sua parlantina riusciva a intortare dame e messeri nonostante non spiccicasse quasi parola d’inglese.
Ecco, l'inglese sembrava l'unica cosa che faticasse a imparare e Arthur credeva fermamente che lo facesse apposta, nel fingere di dimenticarsi vocaboli che di sicuro rammentava perfettamente e nello storpiare la loro pronuncia, soprattutto quando il signor Kirkland chiedeva conto dei suoi progressi, con gli occhi fissi sull’ultimogenito come a volerlo incolpare della faccenda.
Il ragazzo non aveva sprecato la prima occasione per vendicarsi del francese e mettere in chiaro chi comandasse. L’opportunità fu offerta nella forma di sintetica missiva che informava i Kirkland dell’arrivo di una partita di pezze dalle Fiandre, fresche di telaio, e dell’impossibilità che fossero consegnate prima di un paio di settimane, a causa di altre questioni più urgenti. Consapevole tanto dell’inutilità di contrattare un tempo più breve – i mercanti tenevano il metaforico coltello dalla parte del manico e non esitavano a servirsene, muovendosi con assoluta naturalezza da un compratore all’altro – quanto del danno agli affari che sarebbe derivato da un simile ritardo, il bottegaio decise di recarsi lui stesso a ritirare la merce. Arthur si era allora intromesso, dritto come un fuso per sembrare più alto, pronto a proporsi per il compito e a convincere il genitore di essere abbastanza grande per affrontare da solo il periglioso viaggio.
“D’accordo, ma Francis verrà con te.”
“Come desiderate, padre.”
Non c’era modo migliore del fingere accondiscendenza per celare i propri piani diabolici.
 
***
Arthur si riscosse, nella semi oscurità della sua nuova dimora. Il viaggio fino a Lavenham era stato piacevole, la compagnia buona. La città fu generosa con lui, nella forma di un posto come contabile al servizio di un vecchio mercante.
Arthur amava i numeri. Li aveva amati sin da bambino, quando suo padre glieli aveva pazientemente insegnati con insolito affetto; li amava per il loro essere ordinati, precisi, obbedienti. I numeri non lo deridevano in alcun modo, perché con loro esisteva sempre una soluzione. Era sufficiente metterli in colonna e il resto veniva da sé. Infilavano le mani nel groviglio che era il mondo e trovavano il bandolo della matassa.
Arthur amava i numeri quasi quanto aveva amato Francis. Amava i numeri perché erano l’unica cosa in grado di distrarlo.
Intinse la penna d’oca nel calamaio, contando fino a dieci per assicurarsi che tutto il liquido in eccesso fosse sgocciolato. Il nuovo padrone si era raccomandato di evitare ogni spreco, perché inchiostro, pergamena e candele costavano, perciò l’ultima cosa che il giovane desiderava era vedere allargarsi una macchia sul foglio a causa di un pennino troppo carico.
La tremula luce del moccolo allungava ombre sul piano di lavoro, con lo stoppino sul procinto di annegare nella cera fusa, che colava e si raccoglieva nella bugia. Arthur tracciò una linea orizzontale a separare la somma dagli addendi, prima che la macchia luminosa diventasse troppo piccola per leggere. Soffiò sul foglio per far asciugare la china, poi fletté le dita, irrigidite per il freddo e la posizione assunta nelle ultime ore. Il dolore alla nuca e alle spalle iniziava a farsi insopportabile, invito a cessare il lavoro. Arthur sollevò le braccia sopra la testa, stiracchiandosi col sospiro soddisfatto dell’uomo stanco, ma che sa di aver compiuto il proprio dovere. Uno sbadiglio gli salì alle labbra, costringendolo a storcere il viso in una buffa smorfia che mal si addiceva al suo umore. Le braccia di Morfeo, avide di cingerlo, già si allungavano verso di lui, invitanti.  
Il giovane asciugò il pennino con un panno di lana, attento a non macchiarsi le vesti, per poi riporlo in un apposito astuccio di cuoio; chiuse il libro dei conti, non prima di essersi assicurato che l’inchiostro fosse ben secco e, infine, si chinò sulla candela per spegnerla. Un improvviso soffio d’aria, però, lo precedette. La minuscola fiamma che ancora resisteva sullo stoppino ebbe un timido tremito, come il battito delle eteree ali di una fata, prima di estinguersi.
“Lavori sempre troppo.”
Avrebbe riconosciuto quella voce anche dopo mille vite.
“E tu non hai perso il vizio di rendermi la vita impossibile. Sei tanto irritante che non ti hanno voluto nemmeno all’Inferno?” ribatté, acido, avendo cura di tenere il tono basso per non svegliare coloro che dormivano al piano di sopra. Pochi secondi dopo, un sordo rumore di passi sulle assi di legno giunse quale prova del suo fallimento; sulla soglia che immetteva alle scale per l’appartamento situato sopra il negozio comparve il padrone di casa, in lunga camicia da notte e gli occhi impastati di sonno.
“Ancora sveglio, Kirkland? Con chi stai parlando?” domandò. Sollevò la candela a rischiarare l’ambiente, tenendola alta sopra la testa perché la luce invadesse la stanza; poi, rassicurato, la riabbassò. Se si fosse accorto del fantasma che fluttuava a mezzo metro dal suo contabile, probabilmente sarebbe fuggito in chiesa a gambe levate, invocando la protezione di tutti i santi, ma non successe.
“Dovresti andare a letto” consigliò invece. “Domani si prospetta una giornata faticosa” aggiunse. Arthur annuì, aspettando che se ne fosse andato prima di tirare un sospiro di sollievo. Si stropicciò gli occhi e fissò lo spettro.
Non temeva gli spiriti dei morti da quando, a quattro anni, i suoi fratelli lo avevano abbandonato nel camposanto con uno stratagemma e le anime inquiete, lungi dal spaventarlo, gli avevano fatto compagnia durante la notte. Da allora il ragazzo aveva sempre avuto un ottimo rapporto con il soprannaturale, accorgendosi di cose che agli altri sfuggivano. Se passeggiava per i boschi, pixie curiose e allegre svolazzavano attorno alla sua testa, trillando con le loro vocine acute e, nonostante si dicesse che fossero birichine e maliziose, non avevano mai mancato di indicargli la via più veloce per tornare a casa. Non c’era occasione che i suoi passi notturni non fossero accompagnati dalle lanterne di una famiglia di will o’ the wisp.
“Se credevi di farmi paura, ti sei sbagliato di grosso.”
Francis sorrise. Lo stesso sorriso furbo che Arthur stesso gli aveva riservato anni addietro, durante un viaggio tra le fredde strade invernali dell’Inghilterra meridionale. Lo ricordava bene.
 
***
“Arthur, non dovremmo cominciare a cercare una locanda?”
Era la terza volta che Francis poneva il medesimo quesito, con un tono che a ogni tentativo perdeva qualsiasi parvenza di autorevolezza per scadere in una sottospecie di petulante piagnucolio. Non conosceva affatto la zona e ciò lo metteva a disagio. Arthur, da par suo, si strinse ancor più nelle spalle, deciso a perseverare nella propria intenzione di ignorarlo. Nelle mani reggeva le redini del cavallo, una bestia anziana ma resistente e fedele. Ad incontrare un sasso sulla via mal illuminata, il carro ebbe un sobbalzo.
“Sta imbrunendo” fece notare Francis, in un misto di inglese e langue d’oc, indicando prima il cielo dove il grigio-azzurro del pomeriggio stava già lasciando il posto al rosso della crepuscolo, quindi il sole in procinto di scomparire dietro la linea dell’orizzonte a ovest. Era il periodo dell’anno in cui le giornate duravano poco; se fossero stati in estate, due giorni di viaggio sarebbero stati sufficienti, ma d’inverno non era consigliabile farsi trovare in giro quando la luna mostrava il suo volto e cinque giorni erano stati preventivati. I primi due erano trascorsi senza intoppi e Arthur non aveva mostrato segni di ribellione. Il terzo giorno, tuttavia, nel lasciarsi alle spalle l’ultimo villaggio prima di una lunga via tra boschi e campagne, il suo atteggiamento mutò all’improvviso. Posando la prima pietra del proprio piano, si chiuse in un calcolato mutismo, che andò intensificandosi in maniera inversamente proporzionale alle insistenze di Francis.
“Non dirmi che hai paura” lo derise. Annusò l’aria, carica dell’umido odore che precede un acquazzone.
“No” rispose il francese, senza convinzione. Arthur ghignò, sollevò il cappuccio del mantello verde, calandoselo per bene sul volto, infine tirò le redini. Il cavallo emise un nitrito di protesta per la brusca frenata. Anche Francis non fu contento della novità. Si strinse a sua volta nel proprio manto e lanciò ansiose occhiate tutt’attorno, con un’attenzione particolare per gli alberi che ostruivano la vista su entrambi i lati del sentiero. Stava per porre l’ennesima domanda, ma Arthur lo anticipò, intimandogli il silenzio in un severo sibilo, con un dito eloquentemente posato in verticale sulle labbra.
“Ascolta.”
La foresta era densa di rumori. Le prime gocce di pioggia picchiettavano sulle fronde nude, i gufi bubbolavano svegli dal loro sonno diurno, il vento fischiava, cupi tuoni scuotevano le membra. L’oscurità incipiente, unita alla consapevolezza del pericolo in essa celato, ingigantiva ogni suono e lo distorceva in immagini da incubo.  Una folata particolarmente forte fu per Arthur il segnale. La trappola era pronta a scattare.
“Senti le loro urla?”
“Quali urla?”
“Le grida della Compagnia. La Slaugh di anime maledette. Oggi è giorno di caccia. Senti i latrati dei cani, le cui fauci sono avide di carne fresca; ecco il fischio delle loro fruste. Sono spiriti che si sono macchiate di colpe così orribili da essere respinti persino dall’Inferno e nulla sopravvive al loro passaggio, uomo o bestia che sia. Prega di non incontrarli, perché il loro richiamo è più potente del dolce canto di una sirena, ma altrettanto letale.”
Arthur dovette sforzarsi di non scoppiare a ridere e di parlare con un tono misterioso. La Compagnia esisteva, come dimostravano le numerose testimonianze, ma non avrebbe lanciato i propri lamenti fino alla successiva festa di Ognissanti. Questo, però, Francis non lo sapeva. Così come ignorava che gli spettri spesso erano troppo impegnati a combattersi a vicenda per prestare attenzione ai viandanti sprovveduti.
“Allora sarà meglio allontanarci” protestò con voce tremula. La pioggia si stava infittendo rapidamente. Arthur balzò giù dal carro con un piccolo saltello. Quando Francis se ne accorse, il giovane si era già nascosto dietro a un tronco.
“Arthur? Arthur? Non … non è divertente!”
Oh, lo era, eccome se era divertente. Modulò un lamento acuto, straziante, mirato a far gelare le ossa, poi balzò fuori dal proprio nascondiglio. La luce lunare gli illuminò il viso contratto in una fasulla smorfia di terrore, mentre il braccio sinistro si alzava a indicare la vittima della caccia.
“Il singulto da gatta isterica articolato dall’ovale che era la bocca di Francis fu per Arthur un suono di campane celestiali.”
La pioggia mutò in diluvio.
 
***
Come allora, Arthur credeva che non esistesse nulla di più irritante di Francis. Si sbagliava, esisteva qualcosa di più irritante di Francis: il suo fantasma. Perché se da vivo per tormentarlo – ad Arthur non sovveniva un termine che fosse più calzante – aveva dovuto sormontare ostacoli di natura fisica, costretto spesso ad arrendersi ad essi – in altre parole, Arthur gli aveva sbattuto più volte la porta sul naso – ora l’incorporeità lo rendeva in grado di andare ovunque desiderasse, in qualsiasi momento.
“Credevo che i fantasmi fossero legati a un luogo” aveva obiettato l’inglese, agitando davanti al naso un dito sporco di china.
“Alcuni si legano a una persona.”
Quella persona era lui e Francis non mancava di seguirlo dappertutto, a un paio di metri da terra, con le mani spettrali dietro la schiena spettrale facendo ondeggiare la testa spettrale.
“Sai, alcune persone amano un po’ di solitudine.”
Non che l’avesse ascoltato. Al contrario, lo seguiva, come un cagnolino festante, come un mendico col ricco che una volta ha mostrato generosità nei suoi confronti, pur con una certa malinconia, che lo coglieva a tratti, quando in cielo monna luna dava il cambio a messere sole.
Spesso quando accadeva, quasi dimentico della propria condizione, si esprimeva in una lunga carezza sulla guancia di Arthur, che rabbrividiva sotto il gelido tocco dello spirito, mentre le dita immateriali affondavano senza fatica nella carne, come un coltello nel burro. Se cercava di allontanarsi, agitando le braccia per scacciare la presenza molesta in un fallimentare turbinio, altre braccia si incrociavano sulla sua vita, ghiacciate, stringendogli lo stomaco in una morsa. Il respiro si congelava nei polmoni, il cuore rallentava il proprio battito vitale, mentre il corpo del giovane andava in ipotermia. Solo quando iniziava a colorarsi di blu, lo spirito si accorgeva del disagio causato e lo liberava.
Fortuna voleva che altre volte Francis non fosse tanto possessivo e che la sua presenza si limitasse a essere più fastidiosa che pericolosa. Erano le occasioni in cui Arthur, svegliandosi all’improvviso nel cuore della notte a causa di un brivido, se lo ritrovava davanti, la faccia argentea rischiarata da un raggio del medesimo colore.
“Ma sei pazzo?” strillava, sollevando le coperte sopra il naso. “Va’ a torturare qualcun altro!” continuava, prima di girarsi da un lato e chiudere di nuovo gli occhi. Finché avvertiva lo sguardo del fantasma su di sé, finché questi non scivolava fuori dalla finestra, non riusciva ad addormentarsi. Eppure la mattina, nello scorgere uno sbuffo di sorriso sul soffitto, il suo animo non poteva evitare di gioire a sua volta.
“Stai sorridendo?”
“No, sei tu che non ci vedi.”
Di fatto in lui convivevano due anime. Lungi dallo scadere nella schizofrenia, alternava momenti di estremo cinismo, che si sposavano perfettamente ai numeri che tanto amava, ad altri di inaspettato romanticismo, quando canticchiava una ballata d’amore per alleviare la propria solitudine. Predicava di detestare Francis e la sua presenza autoimposta, ma il suo stomaco sfarfallava di contentezza ogni volta che vedeva il suo fantasma. Era l’unico in grado di farlo.
“Che razza di situazione!”
“La trovo romantica.”
Superato lo stupore iniziale, accettato il fatto di essere morto e di non aver accesso all’Aldilà, si era perfettamente adattato al contesto. Di più, lo trovava perfetto: poteva stare con Arthur tutto il tempo che voleva e nessuno avrebbe potuto incolpare l’inglese per un simile motivo, essendo di fatto impegnato in una relazione col nulla. Arthur, tralasciando il fatto che non gli andava niente affatto a genio l’essere spiato costantemente – le parole Francis e pudore convivevano a fatica nella medesima frase - non condivideva il suo ottimismo.  
“Parlo con un fantasma che vedo solo io. Potrebbero dire che sono stato plagiato da Satana e sottopormi a un bell’esorcismo” rispose con malcelato sarcasmo. Un brivido gli fece drizzare i peli sulle braccia, giusto contraltare di un ricordo d’infanzia, quando il vescovo in visita al paese gli aveva stretto il mento tra le dita grassocce e umidicce, fissandolo a lungo negli occhi. Non aveva emesso sentenza dall’esame, ma Arthur si era sentito ugualmente in profondo disagio. Accusato. Già, accusato era la parola giusta.
“Sarebbe un senhal.”
Francis lo distolse da tali considerazioni e lo rigettò al giorno in cui per la prima volta lo aveva reso partecipe dell’esistenza di un simile termine e del suo significato.
 
***
Era da poco passato novembre. I mesi si srotolavano seguendo il ritmo delle stagioni. Era ormai trascorso un anno e Francis aveva conosciuto il secondo inverno inglese dal proprio arrivo.  Quel pomeriggio, declamava una poesia della terra natale, con un vecchio scampolo di lana viola drappeggiato sulle spalle a imitare un mantello. Con la schiena poggiata contro la porta della bottega scevra di clienti a causa di una violenta bufera di neve che spazzava le strade, Arthur ascoltava a braccia conserte e gli occhi ridotti a fessure.
“Ti paghiamo per lavorare. Non per recitare poemi.”
Per quanto ne sapeva, il francese poteva star interpretando la lista della spesa. Non che importasse, sarebbe stato capace di rendere poetica anche quella. Perché Francis faticava con l'inglese, se la cavava con il francese settentrionale - la langue d'oil - ma esprimeva il suo massimo potenziale nel nativo occitano. Le parole scivolavano fuori dalla bocca con una naturalezza quasi inumana, priva delle pause che spesso interrompono la scorrevolezza di un testo ripetuto seguendo i consigli della memoria.
Quando ebbe concluso, Arthur esigette la traduzione, godendosi la ruga di disagio apparsa a imbruttire una fronte altrimenti priva di difetti. Non perdeva occasione per imporre all'altro le lezioni di lingua che tanto aborriva, non perché non fosse portato - ormai sapeva parlare inglese meglio di quanto volesse far intendere - ma perché le sonorità estranee gli provocavano quasi una sensazione di disgusto. Niente di meglio allora, per Arthur, dell'ascoltarlo arrancare tra vocaboli alieni. 
“Dunque, vediamo se ho compreso” esordì, quando la faticosa traduzione ebbe termine. “Il poeta ama una donna senza potersi dichiarare perché costei è di rango superiore e perciò si rivolge a una figura fittizia fatta di parole, di inchiostro e carta, affinché il proprio amore trovi uno sfogo senza intaccare la dama.”
Francis annuì la propria approvazione.
“Voi avete dei seri problemi.”
Ci fu una pausa, poi il francese precisò. “È un'ombra, un simulacro. Un senhal.” Gli rivolse un'occhiata della cui eloquenza Arthur rimase inconsapevole.
“Sei ridicolo” lo informò invece, indicando la simil-toga ancora drappeggiata attorno alle spalle. Francis la spogliò con naturalezza, non mancando però di commentare la mancanza di stile dell'inglese e la sua incapacità del divertirsi. Come una superficie d'acqua disturbata da un sasso, Arthur fu lesto a reagire. Staccò la schiena dal sostegno contro il quale era stato finora pigramente appoggiato e mosse qualche passo al centro della stanza. Sbagliava - disse - il francese se credeva di avere il monopolio della poesia e del divertimento. L'Inghilterra offriva splendide ballate, vivide di passione, e che almeno potevano divertire il pubblico con storie di avventure invece di ricamare inutili voli pindarici. Certo, non ricevette la soddisfazione dei complimenti, terminata la propria esibizione. A detta di un Francis ora impegnato a sistemare la merce sugli scaffali, tra brillanti rotoli di morbido panno ed esempi di lucida seta della lontana Cina, tra ricchi velluti e broccati, mancava assolutamente del pathos necessario.
“Per esempio …”, ma Arthur non gli diede la possibilità di continuare. Liberissimo di sfoggiare tutto il repertorio trobadorico di Francia, ma che non toccasse le ballate inglesi. Non necessitavano di alcuna correzione. “E le rovineresti con la tua pronuncia.”
Il freddo alla schiena lo distolse dal proseguire nel discorso. Si volse, giusto per trovarsi faccia a faccia con suo padre, di ritorno dalla visita a un paio di amici, per una di quelle relazioni che si coltivano e curano in parte per affari, in parte per disinteresse. Il mercante scosse la neve dal cappuccio, causando un turbinio di fiocchi attorno alla sua persona. I mucchietti bianchi raccolti ai suoi piedi si sarebbero presto trasformati in pozze d’acqua d’asciugare prima che rovinassero il legno delle assi. Si sfregò le mani, lamentandosi per il clima. Cattivo per gli affari, spiegò. Domandò comunque se qualcuno si fosse presentato e quando ricevette una risposta negativa nella forma di un paio di teste che si agitavano da destra a sinistra, sbuffò.
“Guinand mi deve ancora parte del pagamento. Ha promesso di saldare il debito entro la prossima settimana, ma conoscendolo non metterà il naso fuori dalla porta finché l’ultimo fiocco di neve non sarà scomparso. Ed è troppo sospettoso per affidare il proprio denaro a uno dei servi” concluse. “Forse sarà meglio registrare il debito.”
“Subito, padre” concordò Arthur, felice di sottrarsi a inutili discussioni sulla poesia che rischiavano di degenerare nella solita lotta sulla supremazia tra abitudini sassoni e normanne. Il tempo di prendere il libro mastro della bottega e immerse il naso nelle pagine, con le mani sulle orecchie ad escludere ogni rumore.
***
 
La concentrazione che teneva impegnata la sua mente era la stessa di allora. Il buco della serratura contro il quale Arthur stava poggiando l'occhio spalancato offriva una finestrella insufficiente per mostrare quanto stava accadendo nella stanza.
“Lo trovo una perdita di tempo” borbottò. Le ginocchia cominciavano a dolergli. Pur da morto, Francis riusciva sempre a convincerlo ad assecondarlo.
Un’altra città aveva sostituito Lavenham. “Ti vedo distratto” si era sentito dire Arthur, prima di trovarsi quasi senza soluzione di continuità a cercare un nuovo lavoro, col bagaglio in spalla. La presenza permanente di Francis al suo fianco, del tutto inutile, non addolciva la pillola. Non mancò di incolparlo della situazione, col sudore che scivolava a ostacolargli la vista. Lo asciugò col dorso della mano. Faceva insolitamente caldo e in un simile frangente uno degli abbracci dello spettro sarebbero stati graditi; ma il francese sembrava fare apposta nel non dargli quanto desiderava le poche volte in cui Arthur ne aveva davvero bisogno.
Allora aveva camminato sotto il sole di maggio, spostando il proprio fagotto da una spalla all’altra a intervalli regolari, fino ad accogliere il profilo della prime case come un’apparizione divina. Le campane avevano da poco suonato la terza. Arthur controllò che i lacci della sacca contenente i suoi averi – molti erano stati lasciati indietro con l’intento di farseli consegnare in un secondo tempo – fossero ben annodati, per poi correre giù per il lieve pendio in un ultimo slancio di energia.
Nel giro di pochi giorni si trovò a prestare i propri servizi a un farmacista, gelosissimo delle sue ricette.
“Secondo me è uno stregone” fece notare Francis una sera. Descrisse l'abbigliamento dell'erborista come un tripudio di tuniche da alchimista, sottolineando come fosse spesso chino su una specie di calderone. Per Arthur, che conosceva la vera magia, non c'era nulla di strano, ma l'altro non condivideva il suo parere.
“Non riconosceresti uno stregone nemmeno se si presentasse come tale” lo prese in giro. Dopo tre ore di appostamento la cosa più magica compiuta dal farmacista era stato pestare delle erbe stagionali per preparare un unguento. “Sei davvero provinciale dopotutto.”
“Non osare.”
“Privo di gusto estetico” continuò Arthur imperterrito. “Parli troppo, hai un accento orribile, sei vanitoso, non hai cervello, sei irritante, invadente, eccessivamente sdolcinato …”
“Sì, ti amo anche io” lo interruppe Francis, chiudendogli la bocca con un bacio improvviso, gelido, tale da far drizzare i capelli in testa. Ci volle qualche secondo prima che Arthur si liberasse dalla paralisi.
“Non farlo mai più!”
Le stesse parole di quando lo accarezzava, o di quando si impuntava ad abbracciarlo,  ma più violente. “È come baciare un cubetto di ghiaccio” e a sottolineare il fatto, strofinò con vigore le labbra divenute bluastre per riportare in esse un po' di calore. Eppure quella volta non lo rimproverava solo per il fastidio fisico. Da dietro la porta chiusa giunse un rumore come d'esplosione.
“Hai sentito?”
Proprio come nella foresta, quando ancora non immaginava nemmeno lontanamente che il suo cuore avrebbe iniziato a battere per lo straniero provenzale che sapeva far tutto tranne spiccicare due parole di inglese con una pronuncia decente. E, come allora, pretese il silenzio.
“Non cambiare discorso.”
Quando lo invidiava, quando ne era geloso, quando lo odiava a pelle, per tutto e per questo per nulla, senza un motivo. Quando i rintocchi delle campane non lo facevano sobbalzare o le prediche domenicali non lo facevano sentire esposto sulla pubblica piazza. Quando tutto era più semplice. Si asciugò con la manica le lacrime che avevano cominciato a scorrere sulle guance.
“Vattene.”
“Arthur …”
“Ho detto, vattene.”
Nascose il viso fra le ginocchia, le mani incrociate sopra la testa. Era stato Francis a dargli il primo bacio e quello di poco prima non aveva fatto altro che ricordaglielo. Si sentiva come se avesse ingerito un piombo. Eppure un tempo era stato diverso.
 
***
 
Le grida della festa giungevano ovattate dalla birra. Il terzo boccale si andava svuotando nella gola di Arthur sotto gli sguardi schifati di Francis che, dopo aver assaggiato un goccio della bevanda, aveva dichiarato di trovarla assolutamente disgustosa. Poco dopo aveva attaccato a lamentarsi per la mancanza di vino.
“O di sidro. Mi andrebbe bene anche un po’ di sidro” commentò, prendendo posto di fianco a lui, su una delle lunghe panche preparate perché i popolani potessero prendere fiato tra una danza e l’altra. Lo stesso aveva appena terminato di ballare con un paio di allegre fanciulle e alla luce delle torce il viso appariva arrossato per la fatica. Intrecciò le dita dietro la nuca. “Sto morendo di sete” proseguì per sottolineare il concetto.
“Da bere ce n'è in abbondanza” rispose noncurante Arthur, con la testa inclinata all'indietro quanto il collo glielo permetteva per ingerire gli ultimi residui del boccale. Si pulì il labbro superiore con un sospiro soddisfatto.
“E se non avessi ballato con” - contò sulla punta delle dita  - “dodici fanciulle adesso non avresti tanta sete. Un'altra!”
Porse il boccale, agitandolo appena, perché fosse di nuovo riempito fino all'orlo. Con aria cattiva fissò di sottecchi Francis aspettandosi di vedere la solita espressione da cane bastonato di quando veniva colto dalla nostalgia per la sua Provenza. Invece il francese stava ... gongolando?
“Fammi indovinare, è tutta la serata che sei solo.”
L'ultimo sorso prese la via sbagliata. Quando Arthur si fu ripreso dal rischiato soffocamento, con le lacrime agli occhi e Francis che picchiettava fra le scapole, cercò di difendersi, ma la risposta detta con voce strozzata  fu lungi dall’essere convincente.
“S-solo perché non ho voglia di danzare.”
“O perché non hai trovato nessuno. Non mi meraviglia, sei sempre così, così acido, faresti scappare una megera.”
“Ti diverte proprio sbattermi in faccia i tuoi successi?”
Scosse il boccale, ci sbirciò  dentro, corrugò la fronte nel trovarlo di nuovo vuoto. Fece per alzare il braccio nell'ennesima ordinazione, ma qualcosa lo trattenne. Era la mano di Francis, stretta attorno al suo polso.
“Hai bevuto abbastanza” stabilì. “Coraggio, non borbottare come una vecchiaccia che odia la gioventù per il fatto di averla persa” e lo tirò in piedi. Senza che Arthur riuscisse a ribellarsi, prima che potesse rendersene conto, lo aveva già spinto all’interno del gruppo di popolani intenti nella danza. I musicisti suonavano con vigore.
Arthur capitombolò tra la figlia del maniscalco e il fornaio, dalle mani incrostate di farina, per l’inerzia si piegò in avanti fin quasi a toccare terra con la punta delle dita, ma la mano del fornaio fu lesta a tenerlo dritto. Ringraziò. Poi la fila danzante lo inglobò, spingendolo finché i suoi passi non si adeguarono ai loro.
La fila girava intorno al palo decorato a festa che era stato piantato al centro della piazza e a ogni giro Arthur vedeva volti familiari ridotti a macchie colorate. C’era il fiero Alistair dai capelli di fiamma – capelli da diavolo sussurravano i villani e il caratteraccio del primogenito dei Kirkland sembrava voler dar loro ragione – che scolava boccali di birra a ciclo continuo senza battere ciglio. Quando si accorse che Arthur si era unito alle danze non si esimette dal commentare, con un riso cattivo. Arthur lo ignorò. Poco distante Dylan e Ian, rispettivamente il secondo e terzogenito, si contendevano la nipote del fabbro, mentre Seamus, il penultimo figlio, prendeva fiato sulle gradinate della chiesa.
Infine, nella sua visuale entrò il familiare volto di Francis, che prestò si unì a sua volta alle danze. Quando la fila si divise in due tronconi, ciascuno in direzione opposta all’altro, e il francese gli passò accanto, sfiorandolo appena, Arthur ebbe l’assurda impressione che il resto del paese fosse scomparso, che a ballare fossero rimasti solo loro due. Si fece silenzio mentre i musici riprendevano fiato, la folla si bloccò. Nella confusa stasi di corpi, Arthur sentì una mano calda e familiare stringere la sua, in un muto messaggio.  Il cuore mancò un battito, per un istante troppo breve per essere colto. Poi la musica riprese e con essa il movimento. Francis si allontanò, il suo tocco rimase. Qualcosa gorgogliò nello stomaco di Arthur, simile a una bolla sul procinto di scoppiare, buffa e leggera. Il broncio del giovane Kirkland si spezzò in riso.
Era la notte di San Lorenzo. Il cielo di pece fu tagliato da saette bianche, che scivolarono come lacrime di luce su guance blu. Qualcuno espresse un desiderio e qualcuno si asciugò gli occhi.
 
***
 “Perché non cambi aria?”
Il suggerimento di Francis lo sottrasse ai ricordi. Arthur poggiò il boccale sul tavolo sporco di fronte a sé. Solo lui poteva vedere il fantasma, ma poco importava: era già abbastanza ubriaco che nessuno si sarebbe meravigliato se avesse cominciato a parlare da solo. Non c’era qualcuno a preoccuparsi per la sua salute e a costringerlo a partecipare a un poco di vita sociale. O, meglio, c’era, ma nulla poteva sul mondo fisico. Il potere di Francis non andava oltre i consigli, che Arthur aveva continuato a ignorare per tutta la serata, ancora offeso per l’episodio del bacio, pur risalente a una settimana prima.
“Cambiare aria?” biascicò. “Non ho bisogno di cambiare aria. Sto benissimo qui!” e indicò l’osteria a sottolineare le sue parole. La birra era buona, l’ambiente caldo, il naso aveva fatto l’abitudine alla puzza della gente. Non c’era motivo di cambiare aria.
“E poi cosa ne sai tu? Sei un fantasma!” articolò a fatica. La lingua impastata pareva occupare il doppio del solito spazio. Gonfio d’alcol reagì appena alla mano posata – affondata – nella sua spalla. Salì in carezza sulla linea della mascella, appena fastidiosa come un difetto cui ormai ci si è abituati, fredda in invito inesaudibile.
L’ultima volta che Arthur si era ridotto in uno stato simile, per un motivo sciocco al punto da averlo dimenticato, Francis era ancora vivo. L’ultima estate trascorsa insieme, sfuggendo gli sguardi indagatori della Chiesa e di chiunque altro. Allora lo aveva trascinato in corsa nei campi che circondavano la città, fino a rotolare nell’erba alta, avvinghiati in un abbraccio che aveva l’apparenza della lotta e tutt’altro sapore. Solo pochi Brownies discreti erano state loro testimoni.
“No. Lascia il Paese. Ti farebbe bene.”
“E andare nella Provence di cui tanto parli?”
“No. Pensavo alle Fiandre” – Arthur soppesò l’idea per bocciarla subito dopo – “o l’Italia, Firenze. Ho sentito che vi è una fervida attività bancaria.”
“E io ho udito di guerra civile e instabilità” replicò caustico l’inglese. Fare il contabile gli piaceva, gestire i libri mastri lo calmava, con i numeri era bravo, ma da lì a intraprendere un viaggio fino all’Italia centrale il passo era lungo. Del resto poco sarebbe cambiato: lui sarebbe stato ancora al servizio di qualcuno, i suoi fratelli avrebbero continuato a deriderlo, Francis non sarebbe tornato in vita. Imprigionato in una gabbia di falsità, si sentiva soffocare. Tirò su col naso, pulendosi il moccio sul dorso della mano. Pagò l'oste e si alzò. Ubriaco, camminava a zig zag.
“Tu dici che mi farebbe bene?” concesse infine, con l’aria fresca della sera sul viso. Le parole furono interrotte da un flusso acido che lo costrinse a piegarsi in avanti. Quando si sollevò, in bocca aveva un sapore orribile, ma si sentiva meglio. Aveva quasi fame.
“Dubito che possa andare peggio di così” gli fece notare Francis. Nonostante tutto, nonostante l’invadenza e le smancerie, aveva ragione. Di più, fra tutti, era stato l’unico a stargli davvero vicino. Neppure la morte era riuscito a tenerlo lontano. Lo faceva sentire importante, come nient’altro, anche se aveva impiegato molto tempo per capirlo.
 
***
Altri aggettivi, infatti, avevano attraversato la sua mente quando Francis lo aveva baciato per la prima volta.
Immorale, immondo, sacrilego, imperdonabile, peccaminoso.
Arthur non poteva evitare di recitarli, quei moniti, come un’ossessiva litania. Li modulava una coscienza allattata dai precetti evangelici, piegata, tirata, bloccata dalla rete di imposizioni della Santa Romana Chiesa. Quasi a sottolineare il concetto le campane suonarono cupe i vespri, a indicare l’ora in cui le bestie venivano ricondotte alle stalle, i viandanti iniziavano a cercare un posto dove trascorrere la notte, le prime stelle osavano apparire in cielo. La polvere del magazzino solleticò le narici del giovane, costringendolo ad arricciarle per non starnutire. Si strofinò il naso col dorso della mano, prima che questa – e relativo braccio annesso – andasse a incrociarsi  con la gemella sul petto, mentre la fronte si corrugava in un broncio per nulla convincente.
Immorale, immondo, sacrilego, imperdonabile, peccaminoso.
Gli incomprensibili vocaboli, tuonati in latino alla messa domenicale e imbastarditi dalla lingua del volgo, sfilarono ordinati nella sua mente, obbedienti chierichetti alla processione pasquale, chini sotto il peso di giganteschi ceri.
Immorale, immondo, sacrilego, imperdonabile, peccaminoso.
Si flagellavano nella sua immaginazione. Poteva quasi vederli, nelle ombre distorte, figure misteriose generate dai pochi fili di luce che filtravano da una coppia di assi non perfettamente allineate.
Stava compiendo il primo passo per una strada in discesa, larga e ripida, che lo avrebbe condotto dritto nelle fiamme dell’Inferno e nelle fauci feroci di Lucifero.
Immorale, immondo, sacrilego, imperdonabile, peccaminoso.
Se li era ripetuti, tutti, a mezza voce, in un sussurro inconfondibile dal suo stesso respiro, mentre aveva lasciato che il pollice di Francis, ancora lucido di saliva, si posasse sul suo labbro inferiore. Nella penombra aveva intuito – ipotizzato – l’espressione sul volto dell’altro. Il francese aveva tracciato con il ruvido polpastrello il contorno della bocca e già solo quel semplice gesto aveva provocato in Arthur una scarica di brividi, come di scossa elettrica, lungo la spina dorsale.
Non aveva opposto resistenza, non perché fosse paralizzato dalla paura, ma per un’improvvisa comprensione. Il pollice terminò il percorso lungo il dolce perimetro, sostando sulla fossetta sotto il naso, e Arthur lo seppe, più chiaro delle stelle in una notte di luna nuova, rifiutandosi però di ammetterlo in tutta la sua interezza.
Non era stata l’invidia a scuotergli lo stomaco tre anni prima; né si era trattato di sua sorella gelosia. Non fu l’odio ad alimentare il bruciore che aveva acceso il suo viso e lo aveva spinto verso l’unica vocazione di battere l’intruso in ogni modo possibile.  
Immorale, immondo, sacrilego, imperdonabile, peccaminoso.
Nessun confine invalicabile era ancora stato superato, ma Arthur aveva ormai deciso che non gli importava. Per tutta la vita aveva lottato perché qualcuno lo considerasse, perché qualcuno lo apprezzasse, e ora c’era Francis, impregnato di Provenza e dei suoi profumi, di lavanda e d’erba e di rosmarino, che infine desiderava lui, solo lui. Le fanciulle che amava corteggiare erano solo una facciata, un senhal. Tutto ora acquisiva un senso.
Seduto sul pavimento, Arthur non scostò la mano che andò a posarsi sul ginocchio, per passare quindi alla coscia, e si limitò a borbottare un paio di insulti, per abitudine, perché l’altro non si illudesse di aver conquistato la sua simpatia. Il loro rapporto si preannunciava contorno e non gli importava affatto.
Francis mormorò qualcosa nella propria lingua natia, grave, seducente come una Korrigan, alitandogli contro l’orecchio. Quindi catturò le sue labbra.
La mente di Arthur esplose in un coro di egoistici io.
 
***
Dio, quanto gli mancava tutto quello. La presenza di Francis sotto forma di fantasma aveva un po’ lenito la perdita, nella finzione che nulla fosse mutato, ma le attenzioni immateriali poco potevano. Non bramava molto, giusto un abbraccio o il sentire le proprie labbra su quelle altrui. Era come avere una torta sotto il naso e non poterne assaporare nemmeno una briciola, il tutto dopo giorni di digiuno. Il suo umore già acido non aiutava.
“Manca anche a me” commentò Francis come se gli avesse letto nel pensiero.
“I tuoi momenti di serietà mi sorprendono sempre.”
Smontò da cavallo per sgranchirsi le gambe e osservare i dintorni. Le morbide colline del panorama toscano erano un piacevole diversivo dopo giorni di montagne, quando il percorso aveva attraversato le Alpi, e altrettanti di pianura. Arthur aveva seguito la via Francigena fino a San Miniato e da lì aveva curvato verso est in direzione di Firenze. Francis gli aveva tenuto ciarliera compagnia durante il lungo viaggio, ma non era stato l’unico. Molte creature magiche, infatti, si erano palesate agli occhi attenti di Arthur.
La burrascosa traversata in mare fu allietata da un paio di Asrai, dai capelli intrecciati d'alghe e i piedi palmati come un'anatra. In territorio francese era stato il turno di un gruppo di Eclaireurs, elfi molto simili ai fuochi fatui, presagio di sventura. Molti uomini della compagnia con cui Arthur aveva condiviso un tratto di strada, dopo essersi fatti il segno della croce, avevano rifiutato di proseguire lungo il sentiero, esortando gli altri a percorrere una via più lunga ma più sicura. Solo Arthur e un uomo sfregiato con l'aria di aver visto cose peggiori erano rimasti sulla pista stabilita.
Più a sud, al confine con la Svizzera, fece la conoscenza di un paio di birichini Lutins, mentre in un borgo arroccato sulle Alpi gli parve di scorgere una Dama Bianca, di irreale bellezza. Prima di abbandonare il regno di Filippo il Bello,  aveva avuto anche la fortuna di incontrare una Melusine, una ninfa delle sorgenti.
“Lo sai che Roma è dietro l’angolo?” commentò Francis, quando Firenze fu in vista. Un tempo Roma era stato sinonimo di Papato.
“Già, ma Papa Clemente è ad Avignone. La Chiesa ha altro a cui pensare che inseguire un povero peccatore. E poi ho smesso di avere paura.”
Rimontando in sella per percorrere l’ultimo tratto di strada, si strofinò le ginocchia in un gesto istintivo. Il fantasma se ne accorse.
“Te lo ricordi ancora?”
“E come potrei dimenticarmene?”
 
***
I baci sulla schiena bruciavano, indelebili nel loro essere effimeri, eppure, contro ogni previsione, Arthur non si sentiva sporco. Dolorante, infreddolito, spaventato, confuso, tutto questo e altro ancora, ma non sporco. Non provava colpa, né si vergognava.
Fu il formicolio al braccio destro a svegliarlo, strappandolo al piacevole torpore che gli aveva reso confortevole il grezzo pavimento della bottega. Aprì gli occhi, sbatté le palpebre un paio di volte per mettere a fuoco e voltò la testa quanto bastava per comprendere la causa dell’intorpidimento. Ah, già, il dolce peso di un Francis beatamente addormentato, che Arthur non esitò a svegliare bruscamente con un violento strattone.
“Levati!”
Tanto per mettere in chiaro le cose. Quindi, contraddicendo le sue parole e il tono brusco con cui esse furono pronunciate, accennò un tenero sorriso, di quelli che addolciscono il viso delle persone più ciniche quando un bel pensiero riesce ad abbattere le loro difese. Scosse la testa, per riordinare il pensieri. Se la sua percezione del tempo non si sbagliava, mancavano poche ore all’alba, dunque era di fondamentale importanza che Francis salutasse qualsiasi regno onirico lo stesse tenendo impegnato. Districò le gambe dalle sue e gli diede un calcio. Questa volta ottenne l’effetto sperato. Francis si spostò quanto bastava per restituirgli l’uso di entrambi gli arti, poi lo salutò.
“Irritabile come sempre. Buongiorno.”
Arthur benedisse il buio che nascondeva il suo rossore. “Vorrei vedere te! Non sei un fuscello!” borbottò. Fece per allontanarsi, perché il pavimento non era affatto comodo e l’ultima cosa che desiderava era farsi trovare in una simile condizione, ma Francis fu più lesto ad afferrarlo, attirandolo a sé. E, dannazione, c’era qualcosa nei suoi gesti da mandare in frantumi ogni difesa dell’inglese; tipo la curva che il collo formava con la mascella, che pareva perfetta per poggiarci la testa, come nei giochi a incastro che facevano divertire i bambini.
“Non ti pesava prima, o sbaglio?” sussurrò il francese, stringendo la presa. Aveva ragione.
Quella notte ogni azione era stata il naturale proseguimento della precedente e, quando, soli nel negozio, Francis l’aveva baciato di nuovo, Arthur non era rimasto fermo a ricevere passivamente simili attenzioni. Le sue mani erano corse ad afferrare la schiena altrui, i piedi si erano mossi per istinto a spingere il francese contro gli scaffali dove veniva esposta parte della merce. Non aveva però mantenuto a lungo il dominio, Francis era stato lesto a sfruttare la sua ritrosia e la sua inesperienza per ribaltare le posizioni. Gli aveva bloccato le mani ai lati della testa, avendo cura di non fargli male, e aveva riso a un millimetro dalla sua gola, prima di scendere a baciare la pelle della clavicola, premendo il bacino contro il suo.
“Non urlare” mormorò.
La sua non era stata una minaccia, una manifestazione di dominio, piuttosto un consiglio dettato dall’autoconservazione, e Arthur aveva obbedito. A dispetto del turbine di emozioni pronte a scuotergli le membra, non emise suono, nemmeno quando l’altro entrò in lui, soffocando qualsiasi gemito a costo di mordere con violenza la sua stessa mano. Esaminò tattilmente la ferita, con aria critica. Il sapore metallico sotto la lingua lo informò di quanto avessero premuto i denti. Tirò giù la manica della giubba per nascondere la mezzaluna rossastra.
“Lasciami” ripeté, quando la sua tradizionale personalità tornò a prendere il sopravvento, scacciando ogni inclinazione al romanticismo. Obbedito, si sforzò di rimettersi in piedi ignorando le proteste delle sue gambe addormentate. Poi lanciò un’occhiataccia a Francis perché lo imitasse.
“Non fare rumore quando torni in camera” ordinò asciutto. “Il penultimo gradino cigola sempre, ormai dovresti saperlo. Sveglia mio padre e avrò cura di affogarti personalmente nel canale”, mentre già paventava un altro tipo di morte, sul rogo e nelle fiamme eterne dell’Inferno.
Suo padre non doveva sapere.
Nessuno doveva sapere.
Attese che il francese fosse salito in cima alla rampa, avendo cura di saltare il famigerato gradino, quindi si lasciò cadere in avanti di proposito. Le ginocchia cozzarono con violenza contro gli spigoli e le mani si graffiarono nel frenare la caduta con un gran fracasso.
“Sei impazzito?”
“Preferisco che pensino che cammino male per questo. Devono pensarlo. Preferisco zoppicare che bruciare sul rogo. Era l’unico modo” spiegò, a stento, mentre la gamba sinistra protestava nel reggere il suo peso. Fu invaso dalla nausea.
L’amore richiedeva anche sacrifici.
***
 
Se la prima volta aveva avuto il retrogusto di fiele della paura, la seconda fu dolce, mentre la tempesta squarciava il cielo e i tuoni coprivano i loro gemiti, in una notte senza luna, quando i Barghest terrorizzano i pellegrini e i Changelings  approfittano della confusione per rubare i bambini dalle culle.
Ci furono i campi, con il ronzio delle api e le punture delle zanzare, e un fienile, umidi di pioggia, con i belati di placide pecore in sottofondo. Senza un motivo. Succedeva e basta. Potevano trascorrere giorni a lanciarsi frecciatine, ciascuno chiuso nel proprio mutismo, in una finzione che era perfetta perché veritiera, e cedere per un bacio, ritrovandosi a lottare per liberarsi dei vestiti. Sullo sfondo le stagioni si susseguirono per altre cinque volte.
Era sempre improvviso. Proprio come per Arthur fu la morte.
Non credeva che sarebbe morto anch'egli giovane o per un motivo così banale. Di certo non fu per sua iniziativa, come certi menestrelli a corto di idee avrebbero narrato.
“È tutta colpa tua” accusò Francis senza perdere tempo a cercare altre spiegazioni. Fissò il proprio corpo senza vita che galleggiava nel fiume. Era stata una morte rapida; stupida, ma rapida. Una morte sufficientemente inaspettata e prematura perché si sentisse da essa oltraggiato, privato di qualcosa di importante, e con un animo abbastanza inquieto da rimanere legato alla vita terrena. In poche parole, perché il suo spirito fosse rigettato dall’Aldilà. Un attimo prima affrettava il passo per inseguire la luce di una lanterna che scintillava nel buio, convinto che ciò gli avrebbe reso più rapido il cammino, un attimo dopo veniva sbalzato fuori dal proprio corpo, sottoposto a un giudizio divino condensato in un secondo lungo un’eternità, e si ritrovava al punto di partenza, in spirito e plasma.
“Colpa?” Francis alzò le mani come un bambino che neghi di aver rubato le caramelle scomparse.
“Sì, colpa!”
Gli ultimi quattro anni erano stati impegnati tra l’Italia, i territori tedeschi e la Francia, Provenza compresa. Arthur aveva dovuto ammetterlo: non esisteva descrizione che rendesse giustizia ai campi di lavanda che si estendevano a perdita d'occhio. Nel suo peregrinare aveva raggiunto l'età di Francis alla sua morte e l'aveva superata; non sarebbe tornato in Inghilterra se una tardiva missiva di Alistair non fosse giunta a intimare la presenza dell'ingrato figlio minore al capezzale del padre morente. Per il tempo in cui Arthur giunse a destinazione, il capofamiglia, dalla fibra robusta, si era ripreso perfettamente.
“Allora sei utile a qualcosa!” avevano commentato Dylan e Ian all'unisono, alludendo all’ipotesi che il padre fosse guarito grazie all’arrivo del fratello. Il tutto accadeva un mese prima, a settembre.
“Perché non rimani fino alla notte di Ognissanti?” gli aveva proposto suo padre e l'idea era parsa abbastanza buona da accettarla. Si chiese se sarebbe stato ancora vivo se fosse partito subito.
“Non sono stato io a dirti di inseguire una lanterna fluttuante!”
“Era un fuoco fatuo, imbecille! Credevo fosse uno del clan che conosco da bambino, ma non era così. Le tue chiacchiere mi hanno distratto! È colpa tua se sono scivolato!”
Si chiese se ai fantasmi fosse concesso di strozzare i propri simili, perché in tal caso nulla avrebbe salvato Francis da un paio di mani strette attorno al suo bel collo spettrale. C’era una sorta di inafferrabile irrealtà nell'intera faccenda, come un enigma privo di soluzione, assurdo come la risata improvvisa a un funerale. Un tremito di ilarità infatti scuoteva lo spettro del francese, confondendole i contorni.
“Lo hai fatto apposta!” ululò Arthur, sordo a qualsiasi giustificazione, gli occhi accesi come le lanterne dei will ‘ the wisp causa della sua disgrazia. “Lo. Hai. Fatto. Apposta!” scandì, con le mani che bruciavano dalla voglia di commettere un omicidio. “Se ti prendo ti ammazzo.”
Francis, già lontano, continuò a ridere.
 
***
 
Vista una classe in gita, viste tutte. Così gli era stato detto e la neo-guida si accorse di trovarsi d'accordo. L'interesse dimostrato dalla scolaresca per la villa seicentesca, costruita su una fattoria risalente ai primi del Quattrocento, era pari a zero e trenta paia di occhi spenti lo fissavano in un misto di indifferenza e supplica. Si affrettò a concludere la spiegazione.
“Bene, ci sono domande?”
Ottenne in risposta un silenzio che avrebbe fatto impallidire la solennità di un funerale di Stato. Un terzetto di ragazze sbadigliò sonoramente. L'insegnante che li accompagnava mise due timide parole di esortazione, guardandolo con un sorriso di scusa. Poi, miracolo, una mano salì lentamente nel gruppo, facendo capolino tra le teste come un verme di terra durante la pioggia. La persona cui apparteneva parlò in fretta. Probabilmente per timore di essere linciata dai propri compagni, ipotizzò la guida.
“Io ho sentito delle storie di fantasmi.”
Parole sufficienti per accendere l’attenzione in trenta paia di occhi. Trentuno contando quelli della professoressa che non riuscì ad esimersi dal mostrarsi interessata. I fantasmi suscitano sempre una reazione: l’appassionato brama di aggiungere un racconto alla propria collezione, lo scettico cerca appigli per riportare i fenomeni del soprannaturale alla solida realtà.
La giovane guida conosceva in prima persona la leggenda in questione, udita da bambino direttamente dalla bocca rugosa dell’ultimo proprietario della villa, prima che egli morisse e la magione fosse trasformata in museo una decina di anni prima. Da allora ne aveva sentite almeno altre tre versioni, cinque se si contavano le due ballate che erano state scritte sulla vicenda. Inutile dire che ciascuna era diversa e che ciascuna si presentava come l’originale. Eppure, tutte condividevano un elemento in comune: la presenza di due fantasmi. Qualcuno li considerava nemici e giustificava così il fatto che fossero sempre visti l’uno impegnato a inseguire il secondo; qualcun altro aveva una teoria più interessante e pepata, che la guida condivideva. Tuttavia non era sicuro che raccontarla fosse una buona idea. Certo, i tempi erano cambiati, ma il bigottismo faticava ancora a morire. Forse era meglio cominciare dalla versione più generica, la storia di due fantasmi che per l’eternità avrebbero giocato a rincorrersi.
“Erano nemici?”
“Non proprio.”
   
 
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