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Autore: Princess of Dark    04/05/2016    1 recensioni
Per Sara la vita in casa Wilson non è facile perché ogni giorno deve scontrarsi con i suoi fratellastri:
Alexander, di cui un tempo è stata segretamente innamorata e che sembra provare disgusto nei suoi confronti, il sadico Darren che si diverte a stuzzicarla di continuo, il piccolo Jeremy completamente pazzo di lei.
Ma tutto cambia alla morte del padrino, quando per ricevere l'eredità i fratelli sono costretti a rispettare un'impossibile clausola...
Dalla storia: "Alexander era completamente diverso da me e insieme eravamo del tutto sbagliati.
Eravamo come due colori bellissimi che insieme stonano.
Alexander ed io avevamo in comune solo una cosa: il cognome."
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Triangolo | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Pov Alexander

«Signor Wilson? Mi sta ascoltando?». Una mano sventolò dei fogli davanti ai miei occhi ed io scossi il capo, scacciando via l’immagine di Sara nuda avanti a me e posando nuovamente gli occhi sull’uomo che avevo davanti. Nemmeno l’ingresso della mia segretaria l’aveva distratto per più di due secondi.
«S-sì, mi scusi», balbettai imbarazzato, schiarendomi la voce. «Comprendo che il signor Swan abbia una certa fretta per il progetto, ma al momento le cose da noi sono un po’… complicate». Sbiascicai l’ultima parola mentre nella mia mente apparivano tanti flash: complicate era poco. L’uomo parve infastidito dalla presenza di Julia, che gli stava gentilmente porgendo il caffè.
«Ma comprenderà anche il motivo per cui il mio capo ha accettato la sua proposta di collaborazione…», accennò l’uomo sistemandosi gli occhiali. Si sedette sulla grossa poltrona e tornò a mettermi sul tavolo tutte quelle scartoffie, evitando di far rovesciare la tazzina del caffè. Mi scostai dalla finestra e mi avvicinai per osservarle, giusto per non essere scortese. Gli feci un cenno col capo. «Vede… la sua azienda ha delle enormi potenzialità. Il signor Swan crede che voi siate il suo miglior investimento. Dia un’occhiata al progetto e non ci faccia pentire della scelta»
«La ringrazio». Strinsi la mano al tizio e lo scortai fino alla porta.
«Mi dispiacerebbe sapere che la Wilson Group sta perdendo punti: venga a quel convegno a Londra»
«La Wilson Group li sta guadagnando, avrà presto mie notizie riguardo il meeting». Richiusi la porta alle mie spalle e tirai un sospiro, chiudendo gli occhi. L’immagine di Sara mi apparve nuovamente davanti agli occhi, com’era successo poco fa. Magari potessi tornare indietro a quei momenti…
«La vedo un po’ giù di corda, signore. C’è qualcosa che non va?». Il volto di Julia era un misto tra la preoccupazione e la compassione.
«Uhm? No, no, solo troppi pensieri», farfugliai, avanzando nuovamente fino alla scrivania. Afferrai disordinatamente tutte le cartacce e cercai di allinearle il più possibile tra le mie mani. «Mi porti un altro caffè? Mi servirà una dose tripla di caffeina oggi». Julia annuì e mi lasciò da solo.
Mr Swan non aveva tutti i torti: aveva atteso già a lungo e ancora non si vedevano i frutti della nostra collaborazione e anzi, ero totalmente sparito dalla sua vista. Ma non potevo rischiari di coinvolgere anche lui nel guaio in cui era caduta la mia azienda e avrei preferito che non venisse a sapere nulla di ciò. Se solo papà fosse ancora vivo… avrebbe saputo cosa fare. Ero davvero degno di sostituirlo?

Pov Sara

«Sono a casa». Sentii la voce di Alexander provenire dall’altra parte della casa ed io uscii frettolosamente dalla doccia, prendendo un asciugamano al volo. Alexander mi chiamò, evidentemente mi stava cercando per la casa, poi aprì la porta del bagno e mi vide in accappatoio.
«Scusa, pensavo non ci fossi», disse imbarazzato e fece per chiudere la porta.
«Ho già finito, non preoccuparti. Tutto bene?», gli sorrisi e lui annuì, senza staccarmi gli occhi da dosso e soffermandosi in particolare sulle mie gambe percorse da tante goccioline d’acqua. Deglutì e tirò un sospiro, distogliendo lo sguardo.
«Vado… vado a spogliarmi», farfugliò e mi sembrò un po’ scosso. Trattenni una risatina e mi affrettai ad asciugare i capelli e rivestirmi. Alex era stato un po’ strano, forse aveva avuto una giornataccia al lavoro. Quando andai in cucina notai che c’era una pentola d’acqua in ebollizione sul fuoco e la tavola era già stata preparata. Alexander stava affettando il pane, sgranocchiandone la crosta qua e là.
«Ti sei messo a fare la donna di casa?», lo presi in giro, rubando una fetta di pane.
«Ho voglia di cucinare», replicò facendo spallucce. «Mi rilassa», aggiunse in un tono abbastanza seccato, strappandomi la fettina di pane per metterla nel cestino. Aggrottai la fronte e la ripresi, guardandolo in segno di sfida ma lui scosse il capo sorridendo.
«Hai avuto una giornata stressante?»
«Abbastanza». Non aveva voglia di parlare stasera. Posò il coltello al centro della tavola e si pulì il pantalone blu dalle briciole. Il blu gli stava da dio: mi piaceva come esaltava i suoi occhi. «C’era uno scatolone sul tavolo, cos’era?»
«L’ha portato Jeremy», dissi con indifferenza, andando in cucina per prendere una bottiglia d’acqua fresca.
«Jeremy è venuto qui?»
«C’erano ancora le tue cose nello studio di papà». Alexander non rispose e lo sentii trascinare la scatola che aveva accostato alla parete. Si accovacciò e aprì la scatola e io mi avvicinai a lui incuriosita, osservandolo tirare fuori delle cartelline di cartone sbiadite. Infondo a tutto era riposto un cofanetto di legno chiuso con un piccolo lucchetto di ottone, dal coperchio interamente ricoperto di velluto bordeaux. Nel legno era inciso il nome di nostro padre. Il cuore mi si fermò in gola. Alexander invece fissava il cofanetto assorto, accarezzando il velluto come se fosse un gattino da coccolare.
«Manca anche a me», mormorai, poggiandogli una mano sul ginocchio per confortarlo. Notai le sue dita stringere con più forza lo scrigno.
«Prima di morire litigammo», iniziò. Sapevo cosa stava per dire, me l’aveva già detto Jeremy, ma decisi di farlo continuare: chissà se Alexander ne aveva mai parlato con qualcuno, se si era sfogato o si era tenuto tutto dentro e aveva sofferto in silenzio, nascondendo le sue lacrime. «Diceva che ero stato io a farti scappare… se avessi avuto l’umiltà di dargli ragione forse ci saremmo lasciati diversamente». I suoi occhi erano lucidi e sentivo che tra poco sarei scoppiata in lacrime anch’io. Avevo voglia di abbracciarlo e di tenerlo stretto al mio petto, dirgli che quei sensi di colpa erano inutili, che nostro padre riempiva a tutti la testa su quanto amasse e stimasse Alexander.
«Lo sappiamo tutti che sei sempre stato il suo figlio preferito», sorrisi, accarezzandogli la spalla. «Non importa come vi siete lasciati, ma tutto quello che è accaduto prima. Quando si è ammalato hai preso tu le redini, lui è restato ad ammirarti. Gli hai dato tanta di quella soddisfazione che ci ha lasciato col sorriso sulle labbra, Alexander». Sperai che le mie parole servissero ad alleviare i suoi sensi di colpa ma lui tirò solo un sospiro e non era per niente di sollievo.
«Forse non dovevo prendere l’incarico di portare avanti l’azienda…», mugolò. Sgranai gli occhi meravigliata.
«Cosa diavolo dici, Alexander?!»
«Un paio di mesi che ho l’azienda e già rischia di fallire»
«Non può andare sempre tutto rose e fiori. Magari questo è un test per provare quanto sei in gamba… dimostra a tutti che sei un Wilson», sussurrai, scuotendogli le spalle per incoraggiarlo. Alexander abbozzò un sorriso e posò nello scatolone il cofanetto, poi si tirò su e mi porse la mano per aiutarmi ad alzarmi. La afferrai e lui mi tirò letteralmente tra le sue braccia, circondandomi la vita e stringendomi forte al suo petto. Mi baciò i capelli e rimase col mento sul mio capo, cullandomi dolcemente.
«Se ci fossi stata sarebbe stato tutto più facile», sussurrò.
«Mi dispiace di essere andata via»
Restammo abbracciati per un intervallo di tempo indefinito… in quel momento non m’importava più di niente: stavo così bene stretta tra le sue braccia, ero così felice di quella promessa sussurrata.
«La pentola!». Alexander mi fece sobbalzare, riportandomi sul pianeta Terra e lo osservai correre verso i fornelli per spegnere il fuoco. Lo aiutai a riempire i piatti e portarli sulla tavola. Alexander se la cavava bene in cucina, forse perché spesso era fuori per tempi troppo lunghi.
«Chissà se tra un anno verrà quell’amico di papà…», sorrisi, ricordandomi di quell’omone simpatico che aveva finto di essere un ispettore e ci aveva costretto a fare la coppietta felicemente sposata.


«Sara, Robert ti sta venendo a prendere, mi servi urgentemente»
«Ma sono in pigiama… che è successo?», bofonchiai assonnata, lanciando uno sguardo alla sveglia che segnava le otto. Mi ero svegliata di soprassalto con gli squilli insistenti del cellulare.
«Abbiamo bisogno che tu riconosca alcuni volti… attacca questo telefono e vatti a vestire!». Staccò la chiamata prima che potessi realmente realizzare cosa stava succedendo. Alexander non badava di certo alle cerimonie del buongiorno nemmeno dopo una dichiarazione come quella dell’altra sera.
Quando mezz’ora dopo entrai nel suo studio sembrava davvero indaffarato anche se, a giudicare dalla luce che aveva negli occhi quando mi vide, doveva avere sicuramente qualche buona notizia. Due uomini in giacca e cravatta mi salutarono e si presentarono come Ted Moore e Paul Roney. Mi sedetti sulla sedia di fronte alla scrivania di Alexander, il quale si fece da parte per lasciare posto a quello più anziano, Ted.
«Signora Wilson, abbiamo raccolto delle foto degli uomini che hanno avuto rapporti con la sua azienda. Si tratta di gente presa dagli schedari, ci occorre che lei confermi che sono stati effettivamente suoi colleghi», mi spiegò l’uomo con fare professionale. Lanciai una rapida occhiata ad Alexander, il quale annuì come a darmi sicurezza.
Paul aprì una busta ed estrasse la prima foto, mettendomela sulla scrivania sotto al naso. Alexander si infilò le mani in tasca e fece il giro della scrivania mettendosi accanto a me per guardare la foto che sicuramente aveva già visto. La sua presenza mi distrasse al punto che Ted dovette richiamare la mia attenzione per ricevere una risposta. Lessi il nome scritto a penna sotto la foto.
«Brandon Hall. Sì, ricordo questo volto», annuii e Paul mise in disparte la foto. Ben presto iniziammo a suddividere le foto in due pile: i volti che riconoscevo e quelli che non mi risultavano.
«Joseph McCall. Lavorava con me a New York, fu licenziato due volte», mugolai, osservando quell’uomo dal volto ruvido abbronzato e i capelli brizzolati come la sua barba.
«Che tipo era?», chiese Ted. Feci spallucce.
«Non si vedeva spesso in giro, era nella sezione stampa e passava lì la maggior parte del tempo. Era un tipo strano, metteva soggezione, non partecipava alle festicciole che organizzavamo tra colleghi, puzzava sempre di fumo e arrivava sempre in ritardo alle riunioni. In ufficio giravano diverse voci…»
«Di che tipo?»
«Si dice che avesse minacciato il direttore e che perciò l’abbia riassunto…»
«Paul controlla i precedenti penali di Joseph McCall e organizzami un incontro con il direttore. Signora Wilson, la ringrazio per la collaborazione». Abbozzai un sorriso e strinsi la mano ai due uomini poi uscimmo tutti insieme dall’ufficio. Un uomo venne a grandi passi verso di noi.
«Signor Wilson, devo informarla di una cosa», fece serio. Alexander si fermò, circondandomi la vita con un braccio.
«Aspettami fuori, andiamo a pranzo insieme», mi disse all’orecchio. Annuii confusa e diedi un’ultima occhiata all’uomo, avviandomi verso la macchinetta del caffè. Non avevo nemmeno avuto il tempo di sorseggiarne uno da quando ero sveglia.
Mi fu impossibile trattenere una smorfia quando vidi Angelica chiacchierare con un uomo che non conoscevo a pochi passi da me. Quasi come se si fosse accorta che la stavo fissando, si voltò e mi fece un cenno con la mano. Che ci faceva lei qui?!
«Salve», bofonchiai sgarbatamente, superando i due per prendere il mio caffè. Dopo la scenetta che avevo visto nell’ufficio di Alexander era ufficialmente la mia nemica ed era impossibile non odiarla. Nemmeno mi interessava di fingere che mi stesse simpatica. L’uomo si congedò e ci lasciò da sole.
«Ho messo a disposizione i miei investigatori migliori per lui. Dio, quanti problemi che gli crei…», la sentii dire alle mie spalle con voce affranta. Mi voltai di scatto.
«Qualcuno minaccia la società e il problema sarei io?!»
«Alexander sta perdendo tempo per capire chi minaccia te, mettendo in secondo piano chi minaccia lui e la società. Se dovesse succedergli qualcosa sarà solo colpa tua»
«Alexander pensa che si tratti della stessa persona», tagliai corto. Scosse il capo, perdendosi tra i pensieri. Mi voltai per guardare nello stesso punto a cui miravano gli occhi di Angelica e scorsi il profilo di Alexander mentre parlava con degli uomini. Mi irritava il modo in cui lo fissava da lontano come se volesse divorarlo. La sentii sospirare.
«Ormai non è più quello di una volta…»
«Che vuoi dire?»
«Guarda il suo viso… stressato, nervoso, preoccupato…», mi esortò facendo un cenno col capo. Fissai Alexander annuire e poi serrare le labbra mentre si massaggiava il mento. «Con me era sempre allegro invece. Perché non ti fai da parte e lasci che sia qualcun altro di più capace a farlo felice?».
Alla vista di Alexander così pensieroso quelle parole inspiegabilmente mi fecero male. Prima che potessi elaborare una risposta Angelica era già andata via.
Forse non ero stata sempre la prima persona a renderlo felice, certo, gli avevo dato una buona dose di problemi negli ultimi tempi… ma di certo anche lui ci aveva messo la sua mano. Tuttavia mi stavo sforzando di farlo star bene, soprattutto da quando avevamo deciso di ricominciare.
«Andiamo?». Alexander mi fece trasalire: ero affogata nei miei pensieri girando il mio caffè e non mi ero nemmeno accorta che mi aveva raggiunto. Annuii, gettando nel cestino dei rifiuti il caffè che ormai era diventato freddo.
Decidemmo di fare due passi a piedi e pranzare in un ristorantino a pochi isolati dall’azienda e durante il tragitto mi accennò qualcosa sulle indagini che avrebbero fatto sui volti che avevo riconosciuto. Sembrava anche abbastanza ottimista sui risultati ottenuti.
Ordinammo due piatti di pasta fatta in casa con un sugo particolare che il cameriere ci aveva consigliato iniziando a sgranocchiare qualche grissino. Lo osservavo mangiare, annuendo e facendo qualche commento qua e là, cercando di decifrare la sua espressione.
In quei giorni mi era sembrato felice e anche ora pareva rilassato e contento di pranzare assieme a me come raramente accadeva. Eppure prima aveva un espressione così cupa… e mi si era stretto in cuore. Chissà se con Angelica si era trovato bene, a volte sembravano così simili.
«Perché mi guardi in quel modo?», fece infine, posando la forchetta. Forse lo stavo fissando troppo insistentemente.
«Oh, io…». Distolsi lo sguardo imbarazzata, affogando metà del mio viso nel grosso bicchiere d’acqua.
«Qualcosa non va?»
«Mi chiedevo… com’eri assieme ad Angelica?». Mi resi conto di ciò che avevo appena detto e mi maledissi. Perché non tenevo la bocca chiusa?!
«Una persona normale», fece spallucce, mandando giù un altro boccone.
«Normale come?»
«Quando l’ho conosciuta mi sembrava una persona interessante. Aveva sempre qualcosa da dire. Mi sentivo una persona…»
«Felice?», gli suggerii. Lui mi guardò male.
«Cosa sono questi discorsi», borbottò, come se si fosse accorto anche lui di aver parlato troppo. Dalla sua faccia e dal tono di voce capii che l’argomento era finito e non avrebbe nutrito ancora la mia curiosità.
«Mr Swan mi vuole a Londra», disse infine dopo qualche attimo di esitazione. Ebbi un tuffo al cuore.
«Londra?», ripetei titubante. Che voleva dire la sua frase? Un trasferimento? Un breve soggiorno?
«Sì, per un convegno… si sta lamentando perché non ha avuto più mie notizie, devo andarci se non voglio perdere un socio importante come lui. Starò via una settimana al massimo». Mi sembrava deciso ad andarci e mi morsi il labbro come se volessi punirmi della brutta idea che avevo avuto per farlo restare con me. Chiedergli di non andarci era fuori discussione, era troppo importante per lui e non potevo chiederglielo. Ma come avrei fatto una settimana intera senza Alexander?
«Beh, non ha tutti i torti», sospirai, decidendo di appoggiarlo nella sua decisione.
«Robert tornerà a scortarti… mi dispiace ma in mia assenza la prudenza non è mai troppa»
«Va bene», mugolai senza controbattere, tenendo lo sguardo basso.
«Anche tu mi mancherai, piccola», sussurrò, alzandomi il viso con due dita in modo che potessi guardarlo dritto negli occhi mentre le guance andavano a fuoco. Era la prima volta che mi chiamava così. Mi si aprì un sorriso innocente e lui mi ricambiò con uno dei suoi splendidi sorrisi.





 
  
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