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Autore: Bianca Wolfe    06/05/2016    2 recensioni
Sono passati quarant'anni dall'ultima volta che Takao Kinomiya ha combattuto una battaglia a Beyblade. Da allora, molte cose sono cambiate, la disfatta è stata inevitabile. Quattro bladers hanno il destino di questo glorioso sport nelle proprie mani. (Attenzione! La storia è un rifacimento.)
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Dal terzo capitolo:
Max lo prese per un braccio, bloccandolo. «Aspetta, Tyler! Io non ci ho capito niente. Dove vuole portarci? Possiamo fidarci?»
«Secondo logica, non dovremmo… Ma io mi fido.»
«Come?» Chiese a quel punto Ray.
«Lo- lo sento e basta. Voi no?»
In effetti, c’era qualcosa di estremamente familiare nel volto del professor Kappa, anche Ray e Max dovevano ammetterlo a se stessi. Dopo un momento di esitazione, anche gli altri due si alzarono e seguirono il gruppo. Una sensazione strana aleggiava tra di loro, come se quel percorso l’avessero fatto insieme già tante altre volte, seppure si fossero appena conosciuti.
[...]
Appena entrati, fu Max a rompere il ghiaccio. «Dove stiamo andando, professore?»
«In un posto dove il Beyblade è ancora uno sport.»
Genere: Avventura, Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio, Professor Kappa
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Premessa:
Mi dispiace disturbarvi ancor prima della lettura, ma questa nota è dovuta. Prima di tutto, salve! È passato un po' di tempo dall'ultima storia che ho pubblicato su questo sito, ma non ho mai perso la voglia di scrivere. Ho cambiato nome utente, ma forse qualcuno mi ricorda ancora come Sara, anziché Bianca Wolfe. Comunque, veniamo al succo. Questa introduzione mi serve per spiegarvi che questo è un rifacimento di una storia che iniziai a scrivere sei anni fa proprio su questa piattaforma. Vi chiederete perché mai abbia deciso di riprenderla. Perché amo questo fandom, ed ero (lo sono tuttora, a dire la verità) fiera di questa storia. Seppure mi sia fermata al ventiduesimo capitolo, avevo già in mente un finale (che non ho dimenticato), dunque, anche se dopo molto - moltissimo - tempo, ho deciso di darvi una conclusione. Dopotutto non mancavano molti capitoli! Eppure, ho bisogno di riscriverla. Perché? Perché sono cambiate molte cose, in sei anni, tantissime differenze passano tra la ventunenne che ora scrive e la quindicenne di allora... Prima di tutto, lo stile nella scrittura (come è giusto che sia); poi, il modo di vedere le cose in generale e, più nello specifico, i temi trattati in questa storia. Potrete ora capire il motivo dietro questa necessità.
Bene, credo di aver detto abbastanza. Spero che la lettura sia di vostro gradimento. Mi raccomando, che siate nuovi o vecchi lettori, lasciate una recensione, complimenti o critiche che siano. Grazie per l'attenzione e ci vediamo al prossimo capitolo!




I.
 
 

«Ma ne sei proprio sicuro? Insomma… potresti anche sbagliarti.»
            «Dimmi, Jordan – da quando lavori per me, mi sono mai sbagliato?»
            «N- no. Non che io ricordi. Ma…»
            «Niente ma. Sono sicuro di ciò che ho progettato, di ciò che stiamo facendo. Siamo a un passo così dalla realizzazione di tutto ciò per cui ho lavorato per anni. I dubbi non sono più ammessi, è ora o mai più. Credimi, quei quattro sono la chiave di tutto. Loro sono quelli giusti e, soprattutto, quelli veri
            Fu allora che Jordan si azzittì. I due uomini camminavano fianco a fianco lentamente, una passeggiata lungo il dedalo di strade e sentieri che era Central Park. Si differenziavano per molti aspetti: fisicamente, uno era più giovane, dal fisico asciutto; l’altro decisamente più anziano, i capelli che ormai cadevano pian piano, e la pancia gonfia anche se non troppo. Jordan era il più giovane. L’avreste definito “malaticcio”, vista la sua pelle olivastra un po’ smunta, e il taglio degli occhi scuri un po’ cadente. In compenso, aveva capelli e sopracciglia folti, di un nero corvino che avreste visto a metri di distanza. E, lo avrete capito, lavorava per l’uomo più anziano – per la precisione, era il suo assistente.
            Guardando il vecchio, Jordan assunse un’espressione di rammarico, quasi non riuscisse a credere alle proprie orecchie. Eppure aveva sentito il professore (perché di un professore si trattava) parlare e parlare in continuazione del suo grande piano, gli occhi che brillavano alla prospettiva di una buona riuscita.
            Jordan disse: «Allora dovremo trovare anche lei
            «Certamente! Anche lei è importantissima. Potrebbe essere la colla per tenere uniti gli altri.»
            O distruggerli, pensò l’assistente, trovando però la decisione del professore piuttosto ammirevole. Eppure, continuava ad avere i suoi dubbi. «Sai che è difficile rintracciarla.»
            «Ce la faremo. Ho già un team che la sta cercando. Non c’è niente di cui devi preoccuparti al momento, Jordan. Pensiamo invece agli altri quattro.» Il professore sorrise fiducioso, lo sguardo dritto davanti a sé e la mente piena di pensieri positivi. Ce l’avrebbero fatta, ne era sicuro.
 
Si sa che le strade di New York City sono sempre molto pericolose: automobilisti che corrono, pedoni pronti a travolgerti… La fretta sembra sempre essere ciò che fa muovere i piedi di questi cittadini sempre indaffarati. Un ragazzo, in particolare, sembrava essere piuttosto in ritardo, quel pomeriggio. Sfrecciava sui marciapiedi, evitando di poco la gente che gli passava accanto; si gettava davanti alle macchine e saltava quel tanto per scansarle; clacson bussavano inferociti, e urla di gente disorientata e innervosita lo seguivano. Ma al ragazzo non importava, perché doveva assolutamente raggiungere il luogo del suo incontro. Una volta entrato in Central Park, corse lungo il sentiero principale per un po’, sicuro della sua direzione. Poco dopo, infatti, raggiunse finalmente la sua destinazione: un gruppetto di ragazzini – più piccoli o della sua stessa età – che lo attendevano. Uno di loro sembrava abbastanza arrabbiato. Con uno sprint finale, il ritardatario li raggiunse, alzando le mani in segno di scuse.
            «Scusate il ritardo, ragazzi!» esordì in modo gioviale. «Ma l’importante è che sia arrivato, giusto?»
            Una risatina lo scosse. Peccato che l’altro ragazzo, quello arrabbiato, non fosse dello stesso parere. «Basta con le chiacchiere, combattiamo!» Il ragazzo aveva la conformazione di un armadio, alto e con le spalle larghe, e sembrava alquanto robusto.
            «Ok, ok… Non c’è bisogno di prendersela, Marcus.»
            «Lo so, Tyler. È che non sopporto proprio chi fa tardi agli appuntamenti.»
            Era forse uno sguardo in cagnesco, quello che Marcus lanciò a Tyler? Beh, quest’ultimo non sembrò accusare il colpo, perché continuò a sorridere, anche quando infilò la mano nella tasca larga dei suoi pantaloni. Lo stesso fece Marcus, però con una tasca del giacchetto di jeans che indossava. Entrambi tirarono fuori dalle rispettive giacche degli oggetti: uno era quadrato, da cui fuoriusciva un lungo filo seghettato; l’altro era rotondo. Infilarono il secondo oggetto nel primo e si avvicinarono entrambi a un’arena rotonda dal fondo basso. Uno degli altri ragazzi appartenenti al gruppetto formatosi attorno ai due si piazzò tra Marcus e Tyler, gli altri erano in attesa. Si prospettava forse un incontro con tanto di spettatori, pronti a tifare per il combattente più forte. Il ragazzino in mezzo ai due contendenti gridò con tutto il fiato che aveva: «Bladers, in posizione. Tre, due, uno… Pronti… Lancio
            Entrambi gli sfidanti tirarono il filo e gli oggetti rotondi caddero nell’arena, roteando ad alta velocità. Il combattimento ebbe inizio: le due trottole (perché, effettivamente, sembravano trottole) si scontravano, provocando scintille, s’inseguivano, si difendevano, si attaccavano l’un l’altra.
 
«Dimmi, Jordan,» il professore scandì. Lui e il suo assistente si trovavano a qualche metro di distanza dall’arena e i due ragazzi, osservando da lontano l’incontro. «Secondo te, chi vincerà?»
            Jordan fissò per qualche lungo secondo la situazione: il beyblade (così si chiamava quella specie di trottola) del ragazzo più grosso stava infliggendo vari attacchi all’altro. Sembrava avesse l’incontro in pugno. Sembrava. «Quello più grosso.»
            Il professore ridacchiò. Jordan lo guardò perplesso. «Ho detto qualcosa che non va?»
            «Oh, no. Assolutamente. Solo… Sta a guardare.»
 
Intanto, la competizione si snodava e sembrava davvero volgersi al termine. Il beyblade di Tyler si avvicinò pericolosamente al bordo dell’arena.
            «Ah, sei finito!» esclamò soddisfatto Marcus.
            «Non credere, sai.» Il sorriso di Tyler era sfavillante: Marcus era proprio dove voleva lui.
            Fu allora che il beyblade prese la rincorsa dal bordo fino al centro dell’arena, scagliandosi contro l’avversario. La potenza dell’attacco scaraventò il beyblade di Marcus fuori dal campo di battaglia e cadde rovinosamente per terra. Marcus non riusciva a crederci: eppure sembrava che stesse per vincere! Invece il suo beyblade era caduto sull’erba fresca, subendo qualche danno, ma nulla di grave.
            «Pensavo stesse per uscire fuori…» commentò lo sconfitto, il tono di voce piuttosto abbattuto.
            «Beh, la prossima volta sarà meglio non sottovalutarmi.» In tutto quel tempo, Tyler non aveva perso quella sua aria di giovialità. Raccolse il beyblade dell’amico e glielo porse, guardandolo con rispetto. «Sarà per la prossima volta, giusto?»
 
«È stato… Incredibile! Non mi aspettavo un simile risultato.» Jordan sembra realmente colpito da ciò che aveva appena visto. Avrebbe scommesso tutto su Marcus, ma evidentemente si sbagliava. Il professore, dal canto suo, ci aveva visto lungo.
            «Stessa sfrontatezza, stessa decisione… È lui. È davvero lui.» L’uomo più anziano sembrava parlare più con sé stesso che con l’assistente, gli occhi ormai lontani e persi nei suoi pensieri.
            «Allora ci avviciniamo, no?»
            Jordan si era già avviato verso Tyler, ma, con un gesto della mano, il professore lo fermò. «Appena sarà da solo.»
 
Seppure Marcus fosse un tipo che se la prende subito per le sue sconfitte, con Tyler era diverso. Forse perché quest’ultimo era davvero un fuoriclasse del Beyblade, oppure perché sapeva mettere a proprio agio chiunque, seppure sconfitto. Fatto sta che i due, insieme agli altri ragazzi, passarono il pomeriggio insieme, giocando al loro amato sport e chiacchierando e scherzando. Presto arrivò l’ora di tornare a casa: Tyler ben sapeva quanto irritabile suo nonno Joe poteva diventare se faceva tardi. Nonostante i suoi diciassette anni, Tyler veniva ancora trattato come un ragazzino piccolo… Dunque, aggiustandosi il cappellino in testa, salutò i suoi amici e corse via. Ben presto, però, qualcosa – o per meglio dire qualcuno – lo fermò. Davanti a lui si piazzarono due uomini molto diversi tra di loro – uno più anziano e pienotto, e l’altro più giovane e snello.
            «Scusaci, ma sei tu Tyler Gibson?» chiese quello più giovane, gli occhi nocciola e trepidanti lo fissavano con fare curioso.
            Tyler deglutì, pensando di essere nei guai. Eppure fu sincero. «Ehm… Sì.»
            «Diciassette anni, giusto?»
            Il giovane annuì. Sembrava fosse un interrogatorio, oppure la compilazione di uno di quei moduli per iscriversi da qualche parte. Non nascose il suo disagio, iniziando anche a sudare freddo: per quale motivo due uomini adulti volevano parlare con lui? E, soprattutto… Come facevano a sapere chi fosse?
            «E giochi a Beyblade.» Quella non era una domanda.
            A quel punto, non ce la fece più: parlò, e anche piuttosto adirato dal comportamento di quei due. Al diavolo la buona educazione! «Si può sapere chi siete?» fissava l’uomo anziano, mentre poneva quella domanda. Chissà come, ma aveva la sensazione che era lui la persona a cui doveva rivolgersi. Inoltre, l’uomo aveva un aspetto molto familiare… Non sapeva spiegarsi bene il perché, ma sentiva di conoscerlo.
            Quell’uomo sorrise, gli occhi ridotti a fessure dietro gli spessi occhiali da vista. «Io sono il professor Kappa, esperto di Beyblade. E questo è il mio assistente Jordan.»
            Una risposta così semplice, che però non spiegava nulla.
            «Un professore di Beyblade?» Tyler alzò un sopracciglio: l’uomo (il professore) aveva conquistato la sua attenzione, e quindi abbandonò quell'atteggiamento ostile che aveva cercato di mantenere con quei due. «Non pensavo esistessero professori del genere…»
            «Ti sorprenderà sapere quanti siamo nel mondo. Purtroppo, con i tempi che corrono, è un lavoro che non tutti vogliono fare… E chi lo fa è costretto all’anonimato e alla segretezza, ma questa è una storia per un altro giorno, Tyler. Tu sembri un vero appassionato di Beyblade, giusto?»
            Il ragazzo annuì, un sorriso pieno si faceva strada sul suo volto. «Assolutamente! È il mio sport preferito, nonostante non sia praticato così tanto. So che prima era diverso, che c’erano molti più giocatori e addirittura tornei di livello mondiale.»
            «Ed è così…»
            Un’ombra percorse il viso del professor Kappa, un oscuro pensiero gli aleggiava nella mente. Passò in un attimo, ma Jordan se ne accorse. Riprendendo il suo precedente tono gioviale, il professore continuò: «Ascolta, Tyler, io ho un laboratorio qui in città. C’è tutto quello che un blader possa mai desiderare! Mi farebbe piacere se tu mi facessi visita, magari portando anche un amico. Abbiamo bisogno di giocatori bravi e tenaci come te per le nostre ricerche. Che ne dici?»
            Con un movimento fluido e quasi impercettibile, il professore tirò fuori un biglietto da visita dal taschino anteriore della sua giacca, porgendolo a Tyler. Quest’ultimo lo afferrò un po’ titubante, e lesse la scritta dai caratteri chiari.
                        Beyblade Battle Association
                                   Del professor Kappa. Sede al Saien Building, New York City,
                                   Tra la nona e la ventottesima strada
            Vi erano poi impressi due numeri di telefono.
            Il professore e Jordan non aspettarono una risposta da parte del giovane. Kappa disse semplicemente: «Arrivederci, Tyler. Passa quando vuoi.» e camminò via.
            Tyler alzò gli occhi dal biglietto e seguì con lo sguardo i due che si allontanavano. Confuso ma incuriosito, non vedeva l’ora di dire tutto al suo amico Max.
   
 
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