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Autore: Il_Genio_del_Male    07/05/2016    6 recensioni
Un cattivo, spesso, è solo una persona la cui storia non è stata raccontata.
[Un po' JamesBond!AU.]
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: D.O., D.O., Suho, Suho
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Quei fagiani maledetti'
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Grazie a Genghis Khan (che vi consiglio di guardare prima di procedere con la lettura, altrimenti vi sfuggiranno parecchie citazioni del video: https://www.youtube.com/watch?v=P_SlAzsXa7E) e ad Alice G. per avermi istigata a scrivere. 

 

 

 

 

 

SatanSoo -temutissimo genio del male apprezzato e inviso in egual maniera ai colleghi criminali per le sue indubbie capacità- era nato trentacinque anni prima da una comune coppia di Seoul, i coniugi Do, che lo avevano chiamato Kyungsoo.

Il bambino era cresciuto circondato dall’affetto dei genitori, ma gravato dal peso delle loro aspettative. Desideravano il meglio per il loro unico figlio e pertanto lo spronarono sin da piccolo ad eccellere negli studi affinché potesse entrare in una buona università e trovarsi un lavoro altrettanto prestigioso. Non erano cattive persone, però mancavano di empatia. Ignoravano che Kyungsoo accarezzasse l’idea di fare il cantante, il cuoco o il maestro elementare (era volubile, come tutti i bambini), che volesse imparare a suonare il pianoforte e detestasse studiare geografia.
Per i coniugi Do contavano solo il profitto scolastico, il voto di condotta e l’impiego del tempo libero del pargolo in uno sport completo e formativo come il nuoto. Kyungsoo odiava la puzza di cloro della piscina e la cuffia di plastica troppo stretta sui capelli, ma da bravo figlio unico temeva di deludere i genitori e non lasciava trapelare il proprio disagio.

Gli anni passarono e Kyungsoo divenne un ragazzo ombroso, introverso. Lo studio costituiva il suo unico interesse, alternato da un paio di nuotate alla settimana. Al liceo scoprì di avere un vero e proprio talento per tutto ciò che concerneva l’ingegneria, i numeri e gli algoritmi. I suoi genitori erano fieri di lui, così rispettoso e diligente: un figlio modello. In vita sua non aveva mai toccato una sigaretta né un goccio di alcol.
Tuttavia la madre si angosciava perché lo vedeva sempre solo. Quando il telefono di casa squillava, non era mai un compagno di classe di Kyungsoo che lo invitava a studiare o ad una festa; il sabato sera non usciva, preferendo passare le ore notturne sui libri. Il marito ne minimizzava la preoccupazione. “Il nostro ragazzo non ha tempo da perdere con i bagordi. Quando lavorerà potrà sempre stringere amicizia con i colleghi. Onestamente, con i brutti tempi che corrono, è meglio che si tenga lontano dai suoi coetanei. Non vorrai mica che cominci a drogarsi o a passare fuori la notte, vero?” le disse una volta. Da allora la signora Do non osò più confidarsi con lui.

Kyungsoo si laureò a pieni voti in ingegneria elettronica, per poi prendere altre due specializzazioni in campo meccanico ed informatico nel giro di otto anni soltanto. Il mondo accademico ne tenne d’occhio gli incredibili successi e ben presto Kyungsoo si vide offrire borse di studio da ricercatore, richieste di pubblicazioni da parte di numerose testate scientifiche e colloqui di lavoro in alcune delle più note aziende del Paese.
I suoi genitori erano al colmo della gioia, eppure l’adorato figlio -per la prima volta in vita sua- li deluse. Declinò ogni proposta, affittò uno squallido monolocale in cui abitare e un garage scalcagnato che adibì ad ufficio. Agli affranti coniugi Do spiegò che sarebbe stato il capo di se stesso e che da quel momento in poi, se lo desideravano, potevano scordarsi della sua esistenza. Li abbandonò, annichiliti, senza mai tornare indietro sui propri passi o provare una parvenza di rimorso.

La mancanza di interesse manifestata dai genitori per le sue reali esigenze aveva, a lungo andare, spezzato qualcosa nel fragile ego del bambino che Kyungsoo era stato. Non provava affetto né simpatia per anima viva, non sapeva come approcciarsi amichevolmente alle persone. Costretto a soffocare i sogni e le ambizioni infantili, raggiunte l’età adulta e l’indipendenza era deciso a concedersi qualsiasi egoismo. Degli scrupoli non sapeva più che farsene.

La sua piccola ditta di consulenze decuplicò il giro di affari nel giro di un anno; assunse molto personale, acquistò un capannone industriale e macchinari per cifre vertiginose. La versione ufficiale sosteneva che il giovane imprenditore avesse portato a termine con successo una fusione con una fabbrica di componenti elettronici per software estremamente sofisticati e costosi. La versione ufficiosa, nonché reale, raccontava una storia ben diversa: Kyungsoo era un membro potente della malavita asiatica. Tra i suoi clienti vantava la Yakuza giapponese e la Triade cinese, ed era in trattative con la Organizacija russa.
Convinto che il ruolo di rilievo da lui ricoperto esigesse un abbigliamento adeguato, ordinò al sarto di confezionargli una serie di divise tutte uguali, blu di Prussia con alamari e distintivi applicati, morbide come una tuta e abbinate a stivali in cuoio nero da cavallerizzo. Nascose il proprio naso, che riteneva troppo piatto, con una speciale maschera in platino forgiata appositamente da un orafo fiorentino. Quel giorno Do Kyungsoo morì e rinacque come SatanSoo.

 

 

Ogni pomeriggio, alle cinque in punto, terminava i propri malvagi esperimenti in laboratorio e timbrava il cartellino di uscita. Salutava l’assistente, gli scienziati, i mercenari addetti alla sicurezza della fabbrica, persino gli inservienti. Il suo segretario (nonché autista) personale lo scortava in limousine fino al loft, comprato per pochi spiccioli e ristrutturato con impeccabile gusto, dove si era trasferito di recente. Giunto sulla soglia di casa apriva la porta e immaginava di trovarvi dei figli sorridenti, una moglie dalla chioma soffice che lo accoglieva con un bourbon liscio e la cena in forno. Si sedeva a tavola con loro, fingeva di gustare il cibo e osservava il rossetto rosso della donna, ascoltava le chiacchiere dei bambini. Al momento di coricarsi si vedeva sfogliare un libro con la bella consorte già addormentata stesa al suo fianco, i bigodini nei capelli.

C’era una nota stonata in quella fantasticheria, ma non capiva quale. Sapeva solo che non riusciva a renderlo felice o malinconico, non riusciva a fargli desiderare di avere una famiglia tutta per sé. Forse, si diceva, il mio destino è rimanere solo.

Quella risposta bastò a SatanSoo per diverso tempo, fino a quando un uomo entrò nella sua vita –o meglio, si lasciò catturare dalle sue guardie. L’uomo in questione dimostrava un paio di anni più di lui ed aveva un volto dai lineamenti ingannevolmente regolari, pantaloni neri che ne esaltavano le gambe sottili e una camicia bianca come la sua carnagione.
Non vi era bisogno di investigare sulla sua identità, giacché l’agente 0012 -conosciuto con il nome in codice Suho- era una spia dei servizi segreti coreani che da un po’ di anni creava fastidi alla Ghost, organizzazione super segreta e composta da super cattivi di cui anche SatanSoo era socio. L’agente 0012 non doveva essere molto comodo, al momento del loro incontro, poiché due solide tenaglie di ferro lo trattenevano al lettino dove il noto genio del male era solito torchiare le sue vittime.

“Benvenuto nel mio umile antro, agente. Che piacere averla alla mia mercé” canticchiò SatanSoo, accerchiando la spia con ampie falcate. Suho arrossì inspiegabilmente ma non si lasciò intimidire dal nemico, né allora né durante i successivi interrogatori. Non pronunciò mezza parola riguardo agli affari sporchi del governo coreano, resistette stoicamente ad ogni forma di tortura (compresi il solletico sotto ai piedi con delle piume e l’ascolto ossessivo, ad un volume spaccatimpani, di Gangnam Style): una noia mortale. SatanSoo, vedendo che l’altro non cedeva, decise di eliminarlo. In tal modo quanto aveva scoperto sul conto della Ghost sarebbe morto con lui.

Progettò e costruì un raggio laser allo ione stabilizzato in grado di ridurre a meri atomi qualsiasi massa corporea, vivente o artificiale. Lo fece posizionare sopra il lettino, puntato fisso su quell’irritante agente segreto. Peccato fosse così testardo, rimuginava SatanSoo. Era un bell’uomo, elegante, distinto, abile nel suo lavoro e fedele alla causa. In un’altra vita, forse… SatanSoo scuoteva la testa con stizza, vergognandosi dei propri pensieri. I criminali non si prendono una cotta per il primo bel faccino che passa, ripeteva tra sé e sé, spietato; e una spia al servizio del governo non tradirebbe mai il Paese per un volgare criminale. Morirò solo e senza amore, come è giusto che sia.
Giorno dopo giorno si forzava, recitava brevi monologhi motivazionali di fronte allo specchio, tentava di pregustare il momento in cui quella ridicola storia avrebbe avuto fine. Tuttavia, giorno dopo giorno, il grande orologio del laboratorio scoccava le cinque in punto senza che lui avesse premuto il tasto rosso che azionava il raggio laser. Le sue fantasie domestiche invece si facevano sempre più assidue e vivide, ma al posto della donna con i boccoli ed il trucco perfetto vedeva l’agente 0012. Ne era spaventato. SatanSoo ignorava come anche le notti di Suho trascorressero agitate, e non a causa delle catene che lo bloccavano.

Stanco di cincischiare e prolungare un’agonia a cui avrebbe dovuto porre fine subito, ben prima che cominciasse, una mattina SatanSoo si decise ad agire. Arrivò in laboratorio e chiese all’assistente il telecomando del raggio laser. Lanciò un ultimo sguardo in direzione di Suho e si sorprese nel coglierne l’espressione malinconica, come se avesse capito e si stesse preparando a dirgli addio, a congedarsi dal mondo. SatanSoo gli diede le spalle e con la morte nel cuore premette il tasto verde, che sbloccò il dispositivo meccanico delle manette. Le guardie scattarono, imbracciando i mitra, mentre l’agente Suho si alzava incredulo e roteava i polsi per riattivare la circolazione. SatanSoo impedì ai suoi uomini di attentare alla vita o alla libertà dell’ormai ex prigioniero, e per punirsi non si voltò a guardare la spia che amava scomparire per sempre.
Non lo vide procedere a passi lenti, cauti, e raggiungere la porta che lo avrebbe condotto alla salvezza. Non lo vide fermarsi, rivolgergli un’occhiata colma di struggimento e infine appoggiare la fronte contro una colonna marmorea, quasi fosse combattuto e non volesse davvero fuggire. Perciò, quando avvertì una mano estranea posarsi sulla schiena e costringerlo a voltarsi, rimase basito nel realizzare che suddetta mano apparteneva -come del resto l’invitante bocca rosea che si stava pericolosamente avvicinando alla sua- niente meno che a Suho.

“Che diamine-?” esclamò indignato, salvo poi venire zittito dal primo bacio della sua vita.

“Chiamami pure Joonmyun” sorrise l’altro, e tornò a limonarselo.

 

 

Ogni giorno, alle cinque in punto, SatanSoo terminava i propri malvagi esperimenti in laboratorio e timbrava il cartellino di uscita. Salutava l’assistente, gli scienziati, i sorveglianti, persino gli inservienti. Il suo segretario (nonché autista) personale lo scortava in limousine fino al loft in cui abitava. Giunto sulla soglia di casa apriva la porta e vi trovava i figli sorridenti, il marito che lo accoglieva con una birra e la cena ancora da preparare. Si sedeva a tavola con loro, gustava il cibo cucinato insieme al compagno e ascoltava le chiacchiere dei bambini, un maschio di nome Jongin e una femmina di nome Yoona. Al momento di coricarsi si infilava a letto in vestaglia, con un libro in mano. Accanto a lui, gli occhiali da lettura sul naso e il giornale frusciante posato sulle coperte, Joonmyun ne ricambiava il sorriso. E SatanSoo tornava ad essere Kyungsoo.

 

 

 

 

Spiegazioni che non interessano a nessuno: Joonmyun è una specie di James Bond sfigato e il suo nome in codice è 0012 perché gli EXO in origine erano dodici. La Ghost fa il verso alla Spectre, da sempre nemica giurata di Bond.

Una cliccatina è sempre gradita: https://www.facebook.com/Il-Genio-del-Male-EFP-152349598213950/.

Alla prossima!

   
 
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