Grazie a Genghis Khan (che vi consiglio di
guardare prima di procedere con la lettura, altrimenti vi sfuggiranno
parecchie
citazioni del video: https://www.youtube.com/watch?v=P_SlAzsXa7E)
e ad Alice G. per avermi istigata a scrivere.
SatanSoo
-temutissimo genio del male apprezzato e inviso in egual maniera ai
colleghi
criminali per le sue indubbie capacità- era nato
trentacinque anni prima da una
comune coppia di Seoul, i coniugi Do, che lo avevano chiamato Kyungsoo.
Il bambino
era cresciuto circondato dall’affetto dei genitori, ma
gravato dal peso delle
loro aspettative. Desideravano il meglio per il loro unico figlio e
pertanto lo
spronarono sin da piccolo ad eccellere negli studi affinché
potesse entrare in
una buona università e trovarsi un lavoro altrettanto
prestigioso. Non erano
cattive persone, però mancavano di empatia. Ignoravano che
Kyungsoo
accarezzasse l’idea di fare il cantante, il cuoco o il
maestro elementare (era
volubile, come tutti i bambini), che volesse imparare a suonare il
pianoforte e
detestasse studiare geografia.
Per i coniugi Do contavano solo il profitto scolastico, il voto di
condotta e
l’impiego del tempo libero del pargolo in uno sport completo
e formativo come
il nuoto. Kyungsoo odiava la puzza di cloro della piscina e la cuffia
di
plastica troppo stretta sui capelli, ma da bravo figlio unico temeva di
deludere i genitori e non lasciava trapelare il proprio disagio.
Gli anni
passarono e Kyungsoo divenne un ragazzo ombroso, introverso. Lo studio
costituiva il suo unico interesse, alternato da un paio di nuotate alla
settimana. Al liceo scoprì di avere un vero e proprio
talento per tutto ciò che
concerneva l’ingegneria, i numeri e gli algoritmi. I suoi
genitori erano fieri
di lui, così rispettoso e diligente: un figlio modello. In
vita sua non aveva
mai toccato una sigaretta né un goccio di alcol.
Tuttavia la madre si angosciava perché lo vedeva sempre
solo. Quando il
telefono di casa squillava, non era mai un compagno di classe di
Kyungsoo che
lo invitava a studiare o ad una festa; il sabato sera non usciva,
preferendo
passare le ore notturne sui libri. Il marito ne minimizzava la
preoccupazione.
“Il nostro ragazzo non ha tempo da perdere con i bagordi.
Quando lavorerà potrà
sempre stringere amicizia con i colleghi. Onestamente, con i brutti
tempi che
corrono, è meglio che si tenga lontano dai suoi coetanei.
Non vorrai mica che
cominci a drogarsi o a passare fuori la notte, vero?” le
disse una volta. Da
allora la signora Do non osò più confidarsi con
lui.
Kyungsoo si
laureò a pieni voti in ingegneria elettronica, per poi
prendere altre due
specializzazioni in campo meccanico ed informatico nel giro di otto
anni
soltanto. Il mondo accademico ne tenne d’occhio gli
incredibili successi e ben
presto Kyungsoo si vide offrire borse di studio da ricercatore,
richieste di
pubblicazioni da parte di numerose testate scientifiche e colloqui di
lavoro in
alcune delle più note aziende del Paese.
I suoi genitori erano al colmo della gioia, eppure l’adorato
figlio -per la
prima volta in vita sua- li deluse. Declinò ogni proposta,
affittò uno
squallido monolocale in cui abitare e un garage scalcagnato che
adibì ad
ufficio. Agli affranti coniugi Do spiegò che sarebbe stato
il capo di se stesso
e che da quel momento in poi, se lo desideravano, potevano scordarsi
della sua
esistenza. Li abbandonò, annichiliti, senza mai tornare
indietro sui propri
passi o provare una parvenza di rimorso.
La mancanza
di interesse manifestata dai genitori per le sue reali esigenze aveva,
a lungo
andare, spezzato qualcosa nel fragile ego del bambino che Kyungsoo era
stato.
Non provava affetto né simpatia per anima viva, non sapeva
come approcciarsi
amichevolmente alle persone. Costretto a soffocare i sogni e le
ambizioni
infantili, raggiunte l’età adulta e
l’indipendenza era deciso a concedersi
qualsiasi egoismo. Degli scrupoli non sapeva più che farsene.
La sua
piccola ditta di consulenze decuplicò il giro di affari nel
giro di un anno;
assunse molto personale, acquistò un capannone industriale e
macchinari per
cifre vertiginose. La versione ufficiale sosteneva che il giovane
imprenditore
avesse portato a termine con successo una fusione con una fabbrica di
componenti elettronici per software estremamente sofisticati e costosi.
La
versione ufficiosa, nonché reale, raccontava una storia ben
diversa: Kyungsoo
era un membro potente della malavita asiatica. Tra i suoi clienti
vantava la
Yakuza giapponese e la Triade cinese, ed era in trattative con la
Organizacija
russa.
Convinto che il ruolo di rilievo da lui ricoperto esigesse un
abbigliamento
adeguato, ordinò al sarto di confezionargli una serie di
divise tutte uguali,
blu di Prussia con alamari e distintivi applicati, morbide come una
tuta e
abbinate a stivali in cuoio nero da cavallerizzo. Nascose il proprio
naso, che
riteneva troppo piatto, con una speciale maschera in platino forgiata
appositamente da un orafo fiorentino. Quel giorno Do Kyungsoo
morì e rinacque
come SatanSoo.
Ogni
pomeriggio, alle cinque in punto, terminava i propri malvagi
esperimenti in
laboratorio e timbrava il cartellino di uscita. Salutava
l’assistente, gli
scienziati, i mercenari addetti alla sicurezza della fabbrica, persino
gli
inservienti. Il suo segretario (nonché autista) personale lo
scortava in
limousine fino al loft, comprato per pochi spiccioli e ristrutturato
con
impeccabile gusto, dove si era trasferito di recente. Giunto sulla
soglia di
casa apriva la porta e immaginava di trovarvi dei figli sorridenti, una
moglie
dalla chioma soffice che lo accoglieva con un bourbon liscio e la cena
in
forno. Si sedeva a tavola con loro, fingeva di gustare il cibo e
osservava il
rossetto rosso della donna, ascoltava le chiacchiere dei bambini. Al
momento di
coricarsi si vedeva sfogliare un libro con la bella consorte
già addormentata
stesa al suo fianco, i bigodini nei capelli.
C’era
una
nota stonata in quella fantasticheria, ma non capiva quale. Sapeva solo
che non
riusciva a renderlo felice o malinconico, non riusciva a fargli
desiderare di
avere una famiglia tutta per sé. Forse, si diceva, il mio
destino è rimanere
solo.
Quella
risposta bastò a SatanSoo per diverso tempo, fino a quando
un uomo entrò nella
sua vita –o meglio, si lasciò catturare dalle sue
guardie. L’uomo in questione
dimostrava un paio di anni più di lui ed aveva un volto dai
lineamenti
ingannevolmente regolari, pantaloni neri che ne esaltavano le gambe
sottili e
una camicia bianca come la sua carnagione.
Non vi era bisogno di investigare sulla sua identità,
giacché l’agente 0012
-conosciuto con il nome in codice Suho- era una spia dei servizi
segreti coreani
che da un po’ di anni creava fastidi alla Ghost,
organizzazione super segreta e
composta da super cattivi di cui anche SatanSoo era socio.
L’agente 0012 non
doveva essere molto comodo, al momento del loro incontro,
poiché due solide
tenaglie di ferro lo trattenevano al lettino dove il noto genio del
male era
solito torchiare le sue vittime.
“Benvenuto
nel mio umile antro, agente. Che piacere averla alla mia
mercé” canticchiò
SatanSoo, accerchiando la spia con ampie falcate. Suho
arrossì inspiegabilmente
ma non si lasciò intimidire dal nemico, né allora
né durante i successivi
interrogatori. Non pronunciò mezza parola riguardo agli
affari sporchi del
governo coreano, resistette stoicamente ad ogni forma di tortura
(compresi il
solletico sotto ai piedi con delle piume e l’ascolto
ossessivo, ad un volume
spaccatimpani, di Gangnam Style):
una
noia mortale. SatanSoo, vedendo che l’altro non cedeva,
decise di eliminarlo.
In tal modo quanto aveva scoperto sul conto della Ghost sarebbe morto
con lui.
Progettò
e
costruì un raggio laser allo ione stabilizzato in grado di
ridurre a meri atomi
qualsiasi massa corporea, vivente o artificiale. Lo fece posizionare
sopra il
lettino, puntato fisso su quell’irritante agente segreto.
Peccato fosse così
testardo, rimuginava SatanSoo. Era un bell’uomo, elegante,
distinto, abile nel
suo lavoro e fedele alla causa. In un’altra vita,
forse… SatanSoo scuoteva la
testa con stizza, vergognandosi dei propri pensieri. I criminali non si
prendono una cotta per il primo bel faccino che passa, ripeteva tra
sé e sé,
spietato; e una spia al servizio del governo non tradirebbe mai il
Paese per un
volgare criminale. Morirò solo e senza amore, come
è giusto che sia.
Giorno dopo giorno si forzava, recitava brevi monologhi motivazionali
di fronte
allo specchio, tentava di pregustare il momento in cui quella ridicola
storia
avrebbe avuto fine. Tuttavia, giorno dopo giorno, il grande orologio
del
laboratorio scoccava le cinque in punto senza che lui avesse premuto il
tasto
rosso che azionava il raggio laser. Le sue fantasie domestiche invece
si
facevano sempre più assidue e vivide, ma al posto della
donna con i boccoli ed
il trucco perfetto vedeva l’agente 0012. Ne era spaventato.
SatanSoo
ignorava come anche le notti di Suho trascorressero agitate, e non a
causa
delle catene che lo bloccavano.
Stanco di
cincischiare e prolungare un’agonia a cui avrebbe dovuto
porre fine subito, ben
prima che cominciasse, una mattina SatanSoo si decise ad agire.
Arrivò in
laboratorio e chiese all’assistente il telecomando del raggio
laser. Lanciò un
ultimo sguardo in direzione di Suho e si sorprese nel coglierne
l’espressione
malinconica, come se avesse capito e si stesse preparando a dirgli
addio, a
congedarsi dal mondo. SatanSoo gli diede le spalle e con la morte nel
cuore
premette il tasto verde, che sbloccò il dispositivo
meccanico delle manette. Le
guardie scattarono, imbracciando i mitra, mentre l’agente
Suho si alzava
incredulo e roteava i polsi per riattivare la circolazione. SatanSoo
impedì ai
suoi uomini di attentare alla vita o alla libertà
dell’ormai ex prigioniero, e
per punirsi non si voltò a guardare la spia che amava
scomparire per sempre.
Non lo vide procedere a passi lenti, cauti, e raggiungere la porta che
lo
avrebbe condotto alla salvezza. Non lo vide fermarsi, rivolgergli
un’occhiata
colma di struggimento e infine appoggiare la fronte contro una colonna
marmorea,
quasi fosse combattuto e non volesse davvero fuggire.
Perciò, quando avvertì
una mano estranea posarsi sulla schiena e costringerlo a voltarsi,
rimase
basito nel realizzare che suddetta mano apparteneva -come del resto
l’invitante
bocca rosea che si stava pericolosamente avvicinando alla sua- niente
meno che
a Suho.
“Che
diamine-?” esclamò indignato, salvo poi venire
zittito dal primo bacio della
sua vita.
“Chiamami
pure Joonmyun” sorrise l’altro, e tornò
a limonarselo.
Ogni giorno,
alle cinque in punto, SatanSoo terminava i propri malvagi esperimenti
in laboratorio
e timbrava il cartellino di uscita. Salutava l’assistente,
gli scienziati, i
sorveglianti, persino gli inservienti. Il suo segretario
(nonché autista)
personale lo scortava in limousine fino al loft in cui abitava. Giunto
sulla
soglia di casa apriva la porta e vi trovava i figli sorridenti, il
marito che
lo accoglieva con una birra e la cena ancora da preparare. Si sedeva a
tavola
con loro, gustava il cibo cucinato insieme al compagno e ascoltava le
chiacchiere dei bambini, un maschio di nome Jongin e una femmina di
nome Yoona.
Al momento di coricarsi si infilava a letto in vestaglia, con un libro
in mano. Accanto a lui, gli occhiali da lettura sul naso e il giornale
frusciante posato
sulle coperte, Joonmyun ne ricambiava il sorriso. E SatanSoo tornava ad
essere
Kyungsoo.
Spiegazioni
che non interessano a nessuno: Joonmyun è una specie di
James Bond sfigato e il
suo nome in codice è 0012 perché gli EXO in
origine erano dodici. La Ghost fa
il verso alla Spectre, da sempre nemica giurata di Bond.
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Alla
prossima!