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Autore: PeterJRaf    09/05/2016    0 recensioni
La storia parla di una semplice ragazza proveniente da una piccola cittadina della California. A causa di un progetto scolastico è costretta a lavorare insieme a dei calciatori della squadra locale. Tra tutti i componenti finirà per approfondire la relazione con uno in particolare. Differenze sociali travolgeranno entrambi, ma si sa quando c'è l'amore di mezzo tutto è possibile..almeno la maggior parte della volte!
Genere: Commedia, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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2° Capitolo: Blue Family

“Perché volevi rifiutare? Quei calciatori sono conosciuti da metà California e hanno pressoché la nostra età. Ti innamorerai di uno di loro, ti sposerai, vivrai immersa dalle banconote e farete tanti bambini”; Guardai Marilyn con un’espressione stupita, era capace di trovare in ogni situazione un elemento che appagasse la sua sfera personale. Travolta dai miei pensieri posai gli occhi sui suoi lineamenti caucasici; ci conoscevamo da almeno cinque anni, due ragazze con due caratteri differenti ma nonostante tutto eravamo molto unite. Era una ragazza di vent’anni, alta e con un fisico scolpito. Se avessi fatto due anni di palestra non sarei riuscita ad avere un fisico tonico come il suo. La prima cosa che notai in lei furono i suoi due occhioni marroni che quando entravano in contatto con la luce la distesa di cioccolata si tingeva di un verde primaverile rendendoli ancora più belli. L’unica parte che lei amava di sé erano i suoi capelli, lunghi fino ad accarezzargli leggermente il seno. Marilyn era quella tipica ragazza che quando tutto stava andando per il verso sbagliato riusciva a rivelare, in qualche modo, l’aspetto positivo della situazione.
Dopo aver preso i nostri caffè ci dirigemmo verso la spiaggia per concludere il pomeriggio, appena arrivate trovammo subito una panchina vuota e senza perdere tempo ci sedemmo rimanendo in silenzio, facendoci cullare solamente dal dolce rumore delle onde che si infrangevano a riva.
Marilyn mi picchiettò il ginocchio e con un cenno del capo mi indicò una parte della spiaggia, rivolgendo lo sguardo verso il posto segnalato, socchiusi gli occhi nel tentativo di scrutare il gruppo di ragazzi che notai in lontananza. “Brandon..” sussurrai. La figura affianco a me mi strinse la mano, “Se vuoi ce ne andiamo, non ti fare scrupoli a dirlo.” Rivolsi lo sguardo verso il mare, sorseggiando tranquillamente il mio caffè ormai tiepido. “Non preoccuparti.”
Brandon Brown era il motivo per il quale odiassi i ragazzi, eravamo stati insieme per quasi un anno ma era evidente che la monogamia non era un concetto reale per lui. Cosa ci ho trovato in lui? Mi interrogai mentalmente, forse la bellezza, forse la dolcezza, forse lo amavo, forse no. Scrollai le spalle con la speranza di far scivolare quei pensieri lontani dalla mia mente.
Dopo un oretta passata a chiacchierare, tornammo a casa; il sole stava iniziando a calare per cedere il posto alla luna. Dopo aver salutato a Tyson e anche ai miei genitori, mi recai nella mia stanza; guardai l’orologio e segnava appena le sette del pomeriggio così nell’attesa della cena mi appoggiai sul letto e per ingannare il tempo iniziai a navigare per i social-network ma senza accorgermene sentii le palpebre farsi sempre più pesanti per poi lasciarmi andare interamente dalla stanchezza.
Socchiusi gli occhi, al punto giusto da scorgere la posizione delle due lancette sul mio orologio: 07.45. Li spalancai di botto, mi alzai e con uno scatto di corsa mi recai in bagno. Merda, merda, merda sono in ritardo! Imprecai sotto voce, cercando di velocizzarmi. Dopo essermi vestita, corsi in cucina per afferrare qualcosa al volo per poi correre verso scuola. “Buongiorno fiorellino, siccome ieri hai saltato la cena ti ho preparato doppia porzione di pancake” sussultai quando sentii parlare, stavo andando così di fretta che non mi accorsi della presenza di mia madre. Le andai vicino, con un gesto delicato le spostai dietro la spalla una ciocca di capelli neri e le stampai un bacio sulla guancia. “Scusa mamma, devo correre. Mi farò perdonare, in ogni caso grazie e ricordati che sei la mia mamma preferita”, la sentii ridere ma in un secondo tempo in tono serio si rivolse verso di me raccomandandomi di non rimanere a digiuno. Con un lesto gesto della mano la salutai e uscii dallo stabile.

“Sono Derek Smith, sono l’allenatore della squadra; piacere. Il tuo professore mi ha chiamato stamane spiegandomi lo scopo del progetto”. L’uomo, più o meno sui cinquant’anni, dimostrava origini scozzesi nella corporatura massiccia, con le gote rubiconde e la barba rossa e grigia ben curata su una mandibola sporgente. Appena lo vidi mi sentii a disagio davanti una figura così imponente ma successivamente alla stretta di mano, mi riuscii a trasmettere sicurezza e soprattutto simpatia. Si diresse verso la porta e mi invitò a seguirlo. Lo spogliatoio dei calciatori si trovava alla fine di un corridoio lungo e spoglio di ogni forma di decorazione. Quando varcammo la soglia fui pervasa di un odore di menta, ma quando mi guardai intorno il mio corpo si impietrì. Mi trovai di fronte una ventina di ragazzi molto giovani, il più anziano avrà avuto trent’anni, a petto nudo e alcuni avevano un asciugamano in vita con il logo della squadra stampato sopra. Cercando di controllare la temperatura del mio corpo rivolsi lo sguardo verso l’allenatore con la speranza che dicesse qualcosa. “Lei è Katy Morris, è una studentessa del Judkins Middle School e ci farà compagnia durante gli allentamenti e partite. Le è stato affidato l’incarico di riuscire a catturare l’essenza del calcio. Quindi se non riuscirà a prendere la lode sarà colpa vostra perché significa che non mettete abbastanza passione in quello che fate.” In coro, risero brevemente. “Mi raccomando, fatela diventare una della famiglia.” Abbassò il capo, consultando il suo orologio. Mi appoggiò delicatamente la mano sulla spalla e mi porse un gran sorriso “Io ora devo allontanarmi, fai conoscenza e poi ci vediamo in mezzo al campo” velocemente aprì la porta e poi la richiuse dietro di se. Con gli occhi sgranati guardai la porta esanime e poi mi rivolsi verso la squadra, sentii le guance avvamparmi sprofondando in un strano imbarazzo per mancanza di parole. In seguito uno alla volta si avvicinò a me per presentarsi “Io sono Kevin..” “Io sono Robert, ma mi chiamano Bobby..” “Io sono Peter..” Dopo aver stretto la mano con ognuno di loro mi resi conto di non riuscire ad associare neanche un nome. Uscii fuori dalla porta e tentai di trovare quella che portasse al campo di calcio.
Dal mio zaino, firmato eastpak, estrassi la mia fotocamera Reflex Nikon con obiettivo a focale fissa da 300 con apertura massima molto ampia, o semplicemente, come avrebbe detto mia madre un cannone di fotocamera. L’impugnai con destrezza e avvicinai l’occhio al mirino oculare per fare una breve prova, ingannando in qualche modo anche il tempo d’attesa. D’un tratto l’immagine della distesa dell’erba sintetica cedé il posto ad un limbo nero, cercai di mettere a fuoco, sperando di non aver rotto l’apparecchio; trasalii sentendo una voce, allontanai il volto dalla Nikon e la mia attenzione si focalizzò su una figura dinnanzi a me. “Ciao sono Javier, ci siamo conosciuti prima nello spogliatoio” Mi rivolse un gran sorriso e notai il suo petto gonfiarsi mentre mi tendeva la mano, uno strano modo per dimostrare la propria virilità. Un ragazzo sicuramente sulla ventina, dall’aspetto fisico che sarebbe rientrato nei canoni di ragazzo perfetto di molte adolescenti e ammetto anche nel mio caso, ma ho sempre sostenuto che la prima impressione è quella più importante e dai suoi comportamenti sembrava un ragazzo pieno di sé, che con un minimo di importanza data dai tifosi di quella squadra gli era andato totalmente alla testa.
“Ciao” borbottai, rivolgendogli uno sguardo d’indifferenza. Mi continuò a guardare forse con la speranza che dicessi qualcos’altro ma, semplicemente, sospirai e continuai a guardare all’interno del mirino. “Perché è così grande questo coso?” “Questo coso si chiama obiettivo a focale e ci permette sia di isolare meglio i soggetti, diminuendo la profondità di campo e ottenendo quindi uno sfondo piacevolmente sfocato, sia di acquisire sufficiente luce da permettere di mantenere molto basso il tempo di esposizione.” Spostai di nuovo il mio sguardo verso la sua espressione titubante, risi sotto i baffi risparmiando fiato a dargli ulteriori spiegazioni più elementare. Successivamente sentii un strepitio di passi e mi accorsi dell’ascesa della squadra all’interno del campo. L’allenatore, Derek, comparse poco dopo la loro entrata e iniziò a dettare gli esercizi di allenamento. Noncurante mi allontanai da Javier e iniziai a cercare l’angolazione perfetta per iniziare a scattare qualche foto. La loro divisa blu e bianca mi faceva ricordare la pubblicità dei marshmallow che manco a farlo apposta erano dello stesso colore dell’oggetto in questione. In seguito all’allenamento, si divisero in due squadre e iniziarono una partita. Mi sentivo un pesce fuor d’acqua perché io quel tipo di sport non lo avevo mai capito. Mio padre mi aveva portato qualche volta a vedere delle partite ma, costretto dalla mia noia, abbandonava gli spalti durante il primo tempo. Però una parte di me cercò di darmi le giuste motivazioni, la lode a fine anno la desideravo arduamente quindi strinsi di più la macchina fotografica e cercai di fare del mio meglio.
“Come mai ti hanno affidato questo incarico? ” Questa volta sussultai, riportandomi una mano sul cuore cercando di farlo diminuire di battiti. “Cristo! Tu mi fai venire un infarto.” Javier mi guardò e si grattò la nuca facendomi avvertire un lieve senso di imbarazzo. Tranquillizzandomi, mi distesi per terra aspettando che uno di loro facesse goal per catturare lo scatto perfetto. “Sono venuta qua con il fine di farmi importunare da ragazzi che si credono celebrità e che l’unica cosa che sanno fare e correre appresso ad un pallone.” Gli rivolsi un sorriso carico di sarcasmo e poi distolsi lo sguardo. Sentii la sua attenzione su di me per qualche secondo e poi, con la coda dell’occhio, lo vidi allontanarsi.
  
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