Salva anche tu una tastiera da pazzoidi che le massacrano
scrivendo come disperate! Non chiudere gli occhi, puoi salvare milioni di vite
elettroniche.
Io perché partecipo a
questi contest? Non lo dovrei fare, che poi succede così T_T e ora sono triste
e depressa e HP giuro ti odio mannaggia a te fai dei contest allegri la miseriaccia TT___TT!
In super ritardissimo perché ero in stand allo Spezia Comics and
Games, onestamente sono poco sicura di aver fatto un buon lavoro, ma ho
spremuto ogni grammo di depressione concessomi e sappiate che mi sto detestando
il doppio perché se non bastava Danya, in 'sto contest, a massacrarmi l'OTP, io
mi massacro la seconda e voglio piangere T_T.
Blu e Verde
E non esiste un luogo dove
non mi torni in mente.
(Marco Mengoni
– Ti ho voluto bene veramente
Blu
e verde.
Due
colori che fino a pochi anni prima erano considerati una rarità assoluta.
Non
c'era verde sulle pietre nere delle viscere di quel pianeta, niente blu nei
costoni di ghiaccio gelido che si insinuavano dalle spaccature del soffitto; il
cielo era bianco e grigio, la terra grigia, gli edifici d'acciaio. I volti
della sua gente erano anch'essi pallidi, smorti, quasi senza luce.
Quando
aveva visto la Terra per la prima volta, da dietro i vetri della navicella,
aveva avuto un sussulto nello scorgere quei due colori, brillanti, vivi, dietro
alla rada coltre di nubi candide: oceani di blu così intenso da fare male agli
occhi, terre così verdi, dolcemente screziate di ocra, da fargli odiare
chiunque ne avesse goduto per pur solo un minuto.
Aveva
soffocato ogni cosa appena atterrati. C'era una conquista da portare avanti,
occorreva lucidità, fermezza, pianificazione, e quei colori così sgargianti
erano una distrazione per i suoi occhi e la sua mente.
Aveva
rinchiuso ogni emotività dentro al proprio animo con la naturalezza acquisita
negli anni, temprata nell'addestramento, lasciando solo a sobbollire il proprio
gelido astio per la razza stupida e crudele che aveva deturpato la sua patria
nativa. Aveva posto un filtro davanti a tutto e il suo sguardo si era
ingrigito, fredda pietra con cui scrutare sprezzante il nemico.
E
poi quei colori erano tornati ad esplodergli di fronte con la potenza accecante
del sole.
«
Perché? Perché noi che siamo nati sullo stesso pianeta, dobbiamo ucciderci l'un
l'altro? »
«
Ohi, Pai, ci sei? »
Il
giovane uomo impiegò un'altra manciata di secondi a rispondere a Kisshu, che lo
scrutò con la testa inclinata di lato e l'aria scettica:
«
Pai? »
«
Cosa vuoi? »
Il
verde corrugò la fronte stizzito dalla sua risposta brusca:
«
Ti sto parlando da un minuto. »
«
Cosa vuoi? »
Ripetè
gelido l'altro e Kisshu schioccò la lingua irritato, ma evitò di puntualizzare
che, per una volta, non avesse colpe tali da far saltare la mosca al naso al
fratello e ripetè a denti stretti:
«
Ti stanno chiamando dal Consiglio Maggiore, non so che cosa c'è con il sistema
di mantenimento del laboratorio interno. »
«
E…? »
«
E io non ho voglia di ripeterti tutto un'altra volta. – sbottò dandogli le
spalle – Muovi il culo e vai. »
Pai
squadrò il verde allontanarsi a passo di marcia con le dita intrecciate dietro
la testa e si passò due dita sulla tempia, forse più irritato dal suo recente
essere sempre più distratto che dall'atteggiamento di Kisshu.
Alzò
lo sguardo ametista verso la finestra e si perse ancora nei suoi pensieri, un
gusto amarognolo dietro le labbra.
Blu.
Un
cielo blu che pareva infinito.
Era
passato quasi un anno e mezzo, e ancora non si abituava alla sua vista.
Dopo
che avevano riportato il goccio di MewAqua sopravvissuto alla battaglia contro
Deep Blue ci erano voluti comunque cinque anni prima che la situazione si
stabilizzasse: la gemma non aveva molto potere, e lui e la sua gente avevano
dovuto lavorare sodo coadiuvando l'influsso benefico del cristallo, che aveva
rianimato quel pianeta morto sotto il ghiaccio, con i loro sforzi.
Finalmente
vivevano appieno sulla superficie di un mondo vivo e florido, sotto un cielo
sfavillante privo di gelo mortale.
E
allora perché lui aveva l'impressione di soffocare ogni volta che alzava gli
occhi all'insù?
« Perché? Perché noi che siamo
nati sullo stesso pianeta, dobbiamo ucciderci l'un l'altro? »
« … È ciò che si chiama destino. »
O
forse, si era detto al tempo dopo aver pronunciato quelle parole, una prova del
destino nei suoi riguardi.
Non
vedeva altra ragione del perché quella terrestre dallo sgargiante abito verde e
gli occhi grandi e titubanti continuasse ostinatamente a cercare il confronto
con lui.
Avrebbe
potuto capire se avesse voluto provare a parlare con Taruto. Era un ragazzino,
abile e forse un po' crudele in certi aspetti proprio perché giovane e, nella
somma, un valido alleato, ma pur sempre poco più che un bambino che pensava più
a far dispetti che alla guerra.
Avrebbe
potuto capire se avesse provato a parlare con Kisshu. Moltissimi aspetti del
verde gli risultavano contorti e insondabili anche dopo una vita, e se non ci
fosse stato il suo sospetto verso Ao No Kishi e verso Deep Blue, o i suoi
progetti di scavalcare il loro comandante per provvedere da soli alla salvezza
del loro pianeta, sarebbe bastata probabilmente l'insana infatuazione – come
Pai si ostinava a minimizzarla – per la leader delle nemiche a renderlo,
probabilmente, più incline ad una qualche alleanza, o magari anche solo al
dialogo. Tutto era possibile con quel contorto cervellino che si ritrovava il
verde.
Ma
Pai non aveva mai, mai capito come Retasu potesse solo minimamente pensare di
dialogare con lui.
Lui
non aveva mai lasciato spazio a dubbi, a insicurezze, o a spiragli di
comprensione. Aveva sempre svolto il suo ruolo nella missione con
inflessibilità, senza pietà, arrivando a spianare la strada del suo signore
rivoltandosi contro il sangue del proprio sangue.
Eppure
se l'era ritrovata di fronte ogni volta.
A
guardarlo senza odio, senza astio. La fronte corrugata nello sforzo della
battaglia, la decisione nonostante tutto con cui lo attaccava – per fermarlo,
perché di quegli attacchi nulla pareva mirato a fare del male, che fosse un
fiotto d'acqua o un calcio, ma per immobilizzare, bloccare, permetterle di
farsi ascoltare – e lo sguardo che, a dispetto dell'indole timida che perfino
lui intuiva, la ragazza poneva con decisione quasi sconveniente nel suo.
Sguardo
desideroso di comprendere, uno sguardo combattuto su quanto stava accadendo. Lo
sguardo di due occhi verdi.
Quel
verde tanto accecante da essere insopportabile.
Ed
era sempre lo stesso, che fosse trasformata o meno. Solo che nella sua versione
di fragile e goffa umana, era blu.
Un
blu così intendo da arrivare ad odiarlo.
Li
odiava così tanto che non se li toglieva dalla mente, l'irritazione che
ribolliva nelle vene ogni momento in cui la sua memoria, libera dal progettare
un nuovo attacco o dal controllare qualche nuovo dato, gli riportava con
irruenza quei colori nel campo visivo pur non avendoli di fronte.
Era
il blu del mare che non aveva mai visto e del cielo nascosto dietro nubi
perenni, a casa, e lo odiava.
Era
il verde di una terra che non avrebbe mai visto, una terra viva e florida, e lo
odiava.
Retasu
era blu e verde. Era cocciuta, ingenua, speranzosa oltre il tollerabile e il
buon senso.
Tanto
da fargli tremare la mano sulla propria arma ogni volta che se la ritrovava di
fronte.
E
per questo l'aveva odiata.
Si
coprì gli occhi con una mano e digrignò i denti infastidito, non si sarebbe mai
abituato alla luminosità che poteva dare un vero sole in tutto il suo
splendore.
Kisshu
e Taruto dicevano sempre che era solo la sua naturale indole ad essere
intollerabile a qualunque cosa e ad essere lui stesso poco sopportabile, ma la
verità era che tutta quella luce per lui rendeva i colori troppo vividi.
Non
era abituato a farsi stravolgere i sensi da alcunché.
Né
l'animo.
Aveva
sempre posto una distanza da tutto ciò che lo circondava. Il suo mondo, la
propria famiglia, ogni cosa che era attorno a lui aveva sempre avuto come un
paio di centimetri di tolleranza tra essa e se stesso, un margine che gli
permetteva di ricevere qualunque stimolo o notizia attutita, con la calma
necessaria per assorbirla e affrontarla razionalmente.
Tutta
la luce che ora aveva attorno non glielo permetteva più.
Non
glielo permetteva l'aria fresca sulla pelle, il rumore assordante degli insetti
e dei pochi piccoli volatili che disseminavano le fronde degli alberi giovani
attorno alla città.
Non
glielo permettevano quei colori che parevano aver invaso tutto l'orizzonte solo
per ferirgli gli occhi.
Verde
di giovani boschi, di erba fresca, blu del cielo sconfinato.
E
il gusto amaro in bocca gli adombrava ancor di più il viso facendogli
desiderare di chiudere gli occhi e non vedere.
«
Perché? Perché noi che siamo nati sullo stesso pianeta, dobbiamo ucciderci l'un
l'altro? »
Se
ci ripensava lei era la sola ad averlo mai guardato in viso.
Raramente
si era scontrato con la petulante ragazzina in giallo, non ritenendola molto
più che un noioso diversivo; pure con la loro leader aveva di rado incrociato
battaglia, forse per eccessiva prudenza verso i poteri sconosciuti dell'arma
che possedeva, più probabilmente perché aveva sempre ritenuto – errando,
purtroppo, ormai era in grado di ammetterlo – fosse sufficiente relegare la sua
dipartita a qualche chimero; la ragazza volatile era più combattiva e non
lesinava dal tentare colpi diretti, pur attaccando da lontano per via della
propria arma, e la ragazza lupo era di certo stata l'avversaria che più volte
si era ritrovato ad affrontare direttamente sul campo.
A
ripensarci, comunque, tutte loro non lo avevano mai guardato. Né lui aveva
fatto altrettanto.
Si
affrontavano a viso aperto, squadrandosi in faccia con decisione, ma senza
vedersi a vicenda; per lui e per loro erano reciprocamente obbiettivi da
sconfiggere, non era necessario fare altro se non avere la figura nemica con
precisione nel campo visivo, non occorreva vederla.
Probabilmente
era per quello che non aveva un ricordo distinto di nessuna di loro.
Retasu
no.
Lo
guardava sempre dritto negli occhi. Lo osservava, quasi cercando nella minima
ruga di quel volto marmoreo e inespressivo un lampo di qualcosa che nemmeno
lei, forse, sapeva, forse umanità – se si poteva passare il termine – di esitazione
o dubbio; forse di sentimento di qualsiasi genere.
Probabilmente
era per quello che invece il suo, di viso, gli era rimasto come incastrato
nella memoria.
«
Tu sei…?! ti prego, fammi passare! Devo salvarlo! »
« Se ti dicessi di no, mi
uccideresti? »
« Ti prego! Voglio… Solo salvarlo…! »
Nemmeno
quello aveva mai fatto.
Le
sue compagne non avevano mai lesinato di attaccarlo rabbiose, con un certo
livore aggiunto nei suoi confronti che non aveva mai dimostrato alcun genere di
empatia che fosse verso la razza umana o verso i suoi stessi compagni. Lo
avevano guardato con disgusto e gli avevano rivolto parole di odio quando lo
avevano visto proseguire, cieco e testardo, nella sua missione macchiandosi le
mani della vita del suo stesso fratello.
Retasu
mai.
Non
aveva mai pronunciato una sillaba che sottintendesse un qualche disprezzo verso
di lui, dell'ira, o della volontà di affrontarlo come il nemico privo di pietà
che lui era.
Ti prego! Gli aveva detto.
Come
si poteva pregare un nemico?!
Perfino
dopo, quando il bel cielo azzurro della Terra si era coperto di nuvole nere in
cui il palazzo di Deep Blue svettava come una gemma blu veleno, quando la
polvere aveva nascosto, pietosa, il corpicino inerme di Taruto tra le braccia
di Purin e i tuoni soffocati avevano coperto il pianto della biondina, Retasu ancora non lo aveva odiato.
Biasimato,
sì. Ma non odiato.
«
Dalla guerra può nascere solo dolore, non lo riesci ancora a capire?! »
Il
verde di quegli occhi lucidi di dolore era parso volerlo trapassare. Come un
pugnale che donava la morte con un colpo indolore, rapido e veloce, quel verde
lo aveva colpito in pieno petto e per un secondo la sua determinazione si era
incrinata.
Per
un secondo, uno solo, aveva avuto la sensazione che se, nel medesimo istante,
avesse abbassato la testa e avesse dato voce al dubbio che gli aveva fatto
vacillare l'animo, Retasu avrebbe a sua volta abbassato l'arma.
Era
sicuro che se fosse rimasto lì, in piedi, smarrito e raggelato negli eventi,
senza sapere dove andare, Retasu lo avrebbe raggiunto. Le amiche le avrebbero
gridato di rabbia chiedendole cosa pensasse di fare, ma lei si sarebbe comunque
avvicinata a lui e con la sua voce flebile, eppure così chiara e cristallina,
gli avrebbe concesso un'altra possibilità.
Nonostante
avesse appena fatto del male irreparabile, nonostante non ci fossero scusanti
per il suo comportamento fino ad allora e lui, che aveva lottato pensando alla
sua casa, non ne volesse né se ne pentisse, se non per quell'ultimo fendente.
Nonostante
tutto era stato certo che Retasu gli sarebbe andata vicino, gli avrebbe magari
sfiorato il braccio che gli pendeva debole sul fianco destro e avrebbe sorriso
stentatamente dicendogli che non tutto era ancora perduto.
Che
c'era ancora speranza.
Gli
umani dicevano che il verde era il colore della speranza.
Mai
come in quel momento gli erano sembrate parole più vere guardando la ragazza
che ai suoi occhi simboleggiava la speranza stessa.
«
Forse, se fossimo nati in un'epoca diversa… »
« Uh? »
« Lascia stare. È una sciocchezza. »
Nessuna
concessione. Nessuna possibilità.
«
Anche se questa lotta è senza senso, è la missione che mi è stata affidata. »
Gli
occhi verdi di Retasu si erano chiusi un momento, afflitti e per la prima
volta, rassegnati.
C'era
stata determinazione, nella sua voce acuta, fermezza nelle sue parole quando
aveva riaperto bocca. Eppure ancora non era stato odio a far tremare quei due
frammenti di smeraldo.
«
C'è troppo bel tempo – sospirò Kisshu stiracchiandosi – mi fa venire sonno. »
«
Te basta non fare niente di quello che dovresti fare e diventi narcolettico,
uh? »
Il
verde afferrò Taruto per il collo minacciandolo per gioco e prendendo a
punzecchiarsi con lui, incurante che il brunetto ormai non fosse più un bambino
e come altezza lo raggiungesse pericolosamente.
Pai
li studiò in silenzio da poca distanza, camminando vicino ma senza unirsi né al
loro chiacchierare né alle loro risa. Non era una novità che dei tre lui fosse
quello più composto, ma dal ritorno dalla Terra i rapporti coi fratelli si
erano abbastanza raffreddati; con Taruto in particolare, e non gliene faceva un
torto, solo di recente gli era stato concesso un po' di spazio per
riavvicinarsi al minore che aveva smesso negli anni anche di guardarlo in
faccia, rispondendo quando lo chiamava con grugniti e sibili e squadrandolo
livoroso.
Forse
era stato il tempo, anche se ce ne sarebbe voluto ancora perché le cose
tornassero, se non come prima, molto simili. O magari era solo che nell'ultimo
anno Pai era diventato più taciturno del normale e al contempo più distratto e
distante, cosa che doveva aver rianimato il poco di affetto fraterno ancora
presente negli altri due.
«
A che pensi? »
Kisshu,
il braccio ancora attorno al collo di Taruto – che con nonchalance glielo stava
mordendo di ripicca – guardò Pai in attesa di risposta che il viola non gli
diede. Questo rimase a fissare il cielo fuori dalla finestra del corridoio e
scrollò le spalle senza dare voce ad una vera replica, sorpassandoli e
proseguendo con le braccia conserte come se la loro morsa potesse attenuare la
stretta al petto e alla gola.
Perché
tornava a tormentarlo?
Perché?
Erano
passati cinque anni… Aveva compreso, a denti stretti e carico di rimprovero
verso se stesso oltre che di vergogna, ma aveva accettato la cosa nei primi
anni. Aveva accettato di vedere ovunque lampi di quei colori tra le fenditure
della caverna sotterranea, nel cielo sbafato dolcemente di nuvolette candide e
nell'erba che tentava di insinuarsi nei primi metri di terreno sotto la crosta,
dove arrivava più direttamente il sole.
Aveva
accettato che lei gli tornasse alla mente con prepotenza, togliendogli l'aria e
facendogli desiderare di assecondare i capricci
di Kisshu – come si ostinava a chiamare pure quelli, non volendo definirli come
le esplosioni di rovente nostalgia che erano per non dare una forma più
evidente ai propri – e salire sulla prima navicella disponibile diretti verso
il Sistema Solare.
Aveva
atteso che diventasse un rimbombo sordo e distante, un dolore vago come il
ricordo che era e doveva essere, sforzandosi di non rivedere segni che gliela
riportassero alla mente in ogni cosa.
Ci
era riuscito almeno un po'.
Ora
la rivedeva ovunque.
Non
c'era centimetro, fuori o dentro casa, sotto la luce del sole che non gli
ricordasse Retasu.
E
più succedeva più la cosa peggiorava. Ormai non c'era più niente che non gli
facesse rimbombare il ricordo di quel viso, di quella voce, di quegli occhi
verdi e di quel sorriso timidissimo che le aveva intravisto fare: con giri
contorti della propria mente, che perfino dopo avergli fatti gli parevano privi
di senso, rivedeva ogni cosa di lei, nei visi allegri della gente, nei colori
del suo mondo redivivo; e se non ne vedeva, il ricordo tuonava più forte per
l'assenza, facendogli notare tutto ciò che mancava, che fosse il suono della
voce della mewfocena o il profumo sottile di salsedine che associava a lei,
nemmeno lui sapeva bene perché.
«
… Io rientro. Ho da fare. »
«
Sai la novità! »
Il
brontolio di Taruto sfiorò appena le orecchie di Pai mentre fece dietrofront e
tornò al confortevole buio del laboratorio.
Odiava
quel cielo blu.
Odiava
tutto il verde che si dispiegava lussureggiante ai suoi piedi.
Li
odiava, perché gli ricordavano Retasu, e il ricordo di lei gli lacerava il
cuore.
Non
lo aveva detto a nessuno. Mai una parola. Non lo aveva confessato ad alta voce
nemmeno a se stesso.
Kisshu
delle proprie prese di coscienza portava ancora il segno, nascosto sotto gli
abiti, proprio al centro del petto al modo di un piccolo e preciso segno lungo
un palmo, come la spada che lo aveva trapassato.
Taruto
lo aveva detto poco tempo addietro, quando bofonchiando e giocando con un
foglietto aranciato di alluminio aveva detto di voler prendere una licenza
appena acquisiti i nuovi gradi per cui si stava impegnando all'Accademia.
«
E per far che? »
Aveva
biascicato Kisshu a bocca piena. Il brunetto aveva impiegato qualche istante a
rispondere, il viso rosso d'imbarazzo, poi aveva preso un bel respiro e detto
con voce ferma:
«
Voglio andare a vedere Purin. »
Era
sceso il silenzio. Taruto non aveva aspettato che qualcuno commentasse, o
obbiettasse, aveva semplicemente riconfermato la cosa privando chicchessia
della possibilità di replicare ed era tornato nella sua stanza ringraziando
della cena.
Pai
non aveva indagato se il suo desiderio fosse dettato da un affetto amicale
verso la bionda terrestre, anche se conoscendo il fratellino aveva dei dubbi in
merito e, temeva, si trattasse di ben altro, ma la cosa che lo aveva sconvolto
più dell'annuncio o della decisione di Taruto era stato il vago senso di
invidia per il suo coraggio.
Lui
non aveva la forza di formulare una resa neppure nella sua testa.
Lui
che dopo tutto quanto, dopo le sue affermazioni decise, dopo le sue prese di
posizione a discapito dell'evidente follia in cui si era ritrovato, si era
frapposto tra le terrestri e il colpo letale sferrato dal suo signore.
Lui
che si era voltato e l'aveva cercata, aveva cercato gli occhi verdi di Retasu
che si era accorta di lui, di come lo sguardo ametista si fosse posato su di
lei, ed era rimasta teneramente confusa a ricambiare quello sguardo vedendo,
senza comprendere, Pai sorriderle prima di proteggere lei e i suoi compagni.
Il
viola aveva iniziato a pensare di aver esaurito tutta la propria temerarietà con
quel gesto. Era un pensiero che lo confortava un poco, facendolo sentire meno
vigliacco, meno piccolo.
Meno
sciocco a ricordare come, tornato miracolosamente alla vita, avesse salvato una
seconda volta le terrestri dal morire nel crollo del palazzo di Deep Blue e
aveva avvertito uno strano colpo al petto nel sentire Retasu – la piccola, fragile,
dolce umana Retasu – chiamarlo per nome e guardarlo con i grandi e meravigliosi
occhi color del mare.
Non
aveva detto niente. Non aveva minimamente pensato a dire qualcosa, a spiegare.
Taruto
non aveva avuto bisogno di spiegarsi, nemmeno Kisshu. Lui sì.
Lui,
che aveva lottato fino a prima con la ferocia di una belva, aveva dato la sua
vita senza un perché. Apparentemente.
Avrebbe
dovuto dire qualcosa.
Avrebbe
voluto.
Il
bisogno di spiegare lo aveva soffocato guardando la figurina della mewfocena
allontanarsi da sé, mentre il pavimento si spaccava e franava, vedendo il suo
viso e il suo sguardo confuso; nessuno avrebbe detto niente, né che fosse il
momento sbagliato né che non fosse giusto: il suo corpo fino a due minuti prima
giaceva riverso nelle macerie, freddo come le stesse, nessuno avrebbe mai
potuto biasimarlo se in quei pochissimi istanti in cui ancora poteva vederla
avesse parlato.
Se
le avesse detto che tutto nel suo essere lo faceva vacillare.
Come
le sue parole spegnessero la sua rabbia, lo facessero desiderare di avere il
tempo per parlare. Lo facessero desiderare di distruggere il velo di grigio che
aveva posto tra sé e il mondo per ascoltare lei con chiarezza, per vederla
chiaramente.
Per
lasciarsi sopraffare dall'intensità di quello sguardo e di quella voce.
Per
dirle che sì, aveva vinto, si arrendeva. C'era un'altra via, c'era sempre
stata, e se l'avesse ammesso prima lei sarebbe stata pronta a guidarlo.
Per
dirle che se aveva scelto di morire lo aveva fatto solo per lei.
Che
aveva scelto di soccombere perché a farlo non fosse lei.
Per
dirle che se fossero nati in un'altra epoca l'avrebbe amata con ogni grammo del
suo essere, con la stessa bruciante ostinazione e incrollabile fede che aveva
dimostrato di avere dietro alla sua indole di gelido soldato.
Ma
non aveva detto niente.
Pai
aprì con un sospiro la porta del laboratorio e si rimise a lavorare con un
bisogno feroce di ottundere la mente. Sullo schermo passarono tutte le
disposizioni giornaliere inviate dal comando e con la coda dell'occhio vide il
permesso di licenza concesso a Taruto, in allegato con i piani di volo
previsti.
Mise
la segnalazione da parte allontanandosi dalla tastiera con rabbia e reggendosi
la fronte con la mano.
Il
brunetto sarebbe partito il giorno dopo. Anche Kisshu sarebbe andato,
irrimediabilmente vincolato ad uno strano masochismo per confrontarsi, ancora,
con l'amore convulso verso la mewneko, con ogni probabilità.
Lui
no.
Lui
sarebbe rimasto lì.
Perché
erano sempre nella stessa epoca, erano sempre lui l'invasore e Retasu la
paladina del bene. Lui che aveva sputato su ogni dialogo e lei che aveva
tentato fino all'ultimo istante di non lottare.
Non
aveva alcun diritto di ripiombare nella sua vita, né voleva affliggersi
ulteriormente con l'immagine di Retasu felice della vita che aveva, magari
accanto all'umano biondo che con tanta caparbietà aveva salvato da una tomba
d'acqua e che Pai le aveva visto proteggere sempre, strenuamente, facendogli
odiare inspiegabilmente e in modo più spietato più di tutti gli altri quell'umano,
che non pareva vedere l'amore con cui lei lo ammirava.
Lui
sarebbe rimasto nel suo mondo a lasciar morire il proprio cuore in quei ricordi
che, come onde di marea, lo soffocavano per poi lasciarlo andare ad una
malinconia agrodolce, a ferirsi l'animo fantasticando su cosa sarebbe potuto
accadere.
Ad
amare con odio violento il cielo e la terra che gli ricordavano lei.
«
Nee-chan! Nee-chan! »
Retasu
sussultò richiudendosi alla bene e meglio la camicetta della divisa che si
stava togliendo per cambiarsi e guardò Purin stranita della sua agitazione:
«
Che succede? »
La
mewscimmia non aveva fiato e due uova al tegamino per occhi, il viso rosso
d'euforia:
«
Sono tornati…! Sono tornati! »
Tartagliò
nervosa. Retasu strizzò appena le iridi oceano dietro le lenti e le spalancò a
sua volta, il cuore che perse un battito connettendo:
«
… Quando? »
«
Ora! Ora…! Devi…! Vieni! – continuò a farfugliare agitatissima – Sono tornati…!
»
La
mewfocena chiuse la camicetta e si riassestò le trecce, ebbe l'impressione di
avere un tamburo in petto:
«
Tutti? »
Purin
si gelò di colpo. L'espressione eloquente del suo viso non ebbe bisogno di
spiegarsi oltre e Retasu spense il piccolo sorriso che le era spuntato.
« Nee-chan… »
La
verde abbassò la testa un secondo e la rialzò quello dopo sorridendo materna:
«
Su, vai no? – la redarguì con decisione – Io ti raggiungo subito. »
Purin
titubò ancora per nulla convinta del suo tono, ma dal salone Ichigo tuonò prima
sgridando qualcuno – era cambiata nel tempo, ma Retasu fu sicurissima fosse di
Kisshu la voce che rispose alla rossa – e poi infuriandosi con qualcun altro
che, dal tono, doveva essere sicuramente Taruto; gli diede conferma la reazione
di Purin che scattò su come una molla, gettandole un'altra occhiata preoccupata
e non resistendo più al nuovo scoppio di voci dall'altra parte e scattando
verso l'ingresso, da cui Retasu sentì l'amica bionda esplodere in risate e
lacrime urlando a pieni polmoni il nomignolo con cui si ostinava a chiamare il
giovane alieno.
Retasu
si sedette sulla panca negli spogliatoi e strinse le mani in grembo, mordendosi
le labbra cercando in tutti i modi di non piangere.
Era
solo una sciocca.
Era
ovvio che succedesse. Purin non aveva fatto altro per cinque anni, ripetere
come una macchinetta che Taru-Taru
sarebbe tornato a trovarla perché erano amici e si volevano bene; su Kisshu chi
poteva stupirsi, non era mai stato il tipo da accettare un due di picche, né
uno adatto ad arrendersi.
Pai
quali ragioni mai avrebbe potuto avere per tornare?
Eppure
per pochi secondi lo aveva sperato.
Aveva
sperato di rivedere quei due occhi viola come un cielo di Novembre, severi e
freddi, eppure così caldi e profondi, quegli occhi che aveva visto un solo
istante illuminarsi di un sorriso e una volta sola. Aveva sperato di rivederli
per davvero e non più solo nei sogni, vederli ed avere la certezza che non se
li era immaginati, che tutto andava bene, che fossero capitati in un'altra epoca
e lei avrebbe potuto permettersi di provare a guardarli e smarrircisi dentro.
Ma
a quanto pareva, era sempre la stessa epoca.
«
Lascia stare, è una sciocchezza. »
La
verde appoggiò la fronte ai pugni chiusi piegandosi su se stessa, rimanendo in
silenzio soffocando qualche singhiozzo roco, quindi si alzò, prese un gran
respiro e asciugandosi gli occhi si impose il miglior sorriso di cui fosse
capace ed uscì.
Avrebbe
finto di non notare la sua assenza se non vagamente.
Avrebbe
finto che non le importasse.
Avrebbe
finto di non cercare, per l'ennesima volta, uno sguardo del colore delle
ametiste che non c'era.
~ ♣~
*piange in un
angolino*
Ok scherzi a parte mi
piace partecipare ai contest :3 e questo è stato una bella sfida che mi ha un
pochino riattivato i neuroni ormai defunti in queste settimane sullo scrivere :P
adesso però esigo che sforniate roba fluffosa a
nastro, perché ultimamente il fandom è molto tranquillo
e con questa riga di tristezza io devo riprendermi TT___TT… Baci a tutti
Mata ne ~♥!
Ria