Sangre Blanca
Simon aveva familiarizzato
con quasi ogni ala dell’Hotel Dumort, imparando a
riconoscerne gli angoli, a
indovinare le stanze solo dal mobilio o dal drappeggio delle tende alla
finestre, e ad apprezzarne i quadri alla pareti; sapeva che dietro ogni
tela e
ogni divano si celava il buon gusto di Raphael, ne individuava
l’impronta
persino nella porcellana, quasi che quell’ossessione che gli
gravava sul petto
ormai da tempo non gli desse pace neppure quando il capo del clan di
vampiri di
New York non era nei paraggi. Un’unica area del Dumort
serbava ancora i suoi
segreti, agli occhi vergini di Simon: la stanza da letto di Raphael,
luogo
avvolto dal più peccaminoso tabù, se Simon vi si
soffermava a pensare con una
tale frequenza. Ne aveva intuito pressappoco l’ubicazione,
trovandosi a tendere
le orecchie oltre le mura spesse e a contare i passi che servivano a
Raphael
per raggiungere la sala comune. In più di
un’occasione, aveva seguito con la
coda dell’occhio la direzione che prendevano quelle gambe
– così dannatamente
invitanti –, tentando di fare appello alla piantina mentale
che si era
disegnato dell’Hotel, per prevedere le possibili svolte o
scalinate. Non era
certo che Raphael fosse all’oscuro di quelle sue manie, ma
ormai l’ipotesi di
venire colto in flagrante non lo disturbava più di tanto;
semmai, l’immagine
del volto infastidito – e lusingato – di Raphael
che lo rimproverava in quella
lingua ignota – e ad alto contenuto erotico – lo
caricava di un’eccitazione
nuova.
Forse per questo, quella
notte, quando Raphael prese congedo dagli altri vampiri per ritirarsi
nella camera
padronale, Simon non ci pensò due volte, prima di alzarsi
dalla poltrona e
seguirlo. Raphael avvertì sin dal primo istante il respiro
irregolare di Simon
alle spalle, ma non sollevò alcuna protesta;
lasciò che il ragazzo ricalcasse
la stessa superficie, deliziato dall’idea che i loro corpi
quasi combaciassero,
se non fosse stato per un’impercettibile distanza temporale.
Lo guidò sino alla
porta in laminato che segnava l’ingresso nel suo regno e
lasciò uno spiraglio
aperto, prima di sparirvi all’interno e di riporre la giacca
ordinatamente
nell’armadio. Simon si diede dello stupido, una volta di
più; cosa sperava di
ottenere, esattamente? Spiare Raphael dal buco della serratura era
l'equivalente di offrirsi volontario come Katniss per gli Hunger Games
e così
fece l’unica cosa che gli parve sensata: bussò.
«Adelante»,
acconsentì la
voce di Raphael, e un certo numero di telenovelas argentine di sua
madre
avevano permesso a Simon di capire che quella parola rappresentava un
invito e
non un insulto. Prese un grosso respiro e varcò la soglia,
non osando però
avvicinarsi al suo interlocutore.
«Allora?»,
domandò
spazientito Raphael, le braccia incrociate sul petto e un sopracciglio
sollevato.
«Emm,
sì», riepilogò
Simon, dopo un colpo di tosse. «Mi
chiedevo se avessi voglia di fare due chiacchiere, sai, per passare il
tempo»,
propose, grattandosi la nuca e abbozzando un sorriso sghembo.
«Ahi, que
bonito», lo
prese in giro Raphael, levandosi anche i mocassini.
«Ti spiacerebbe
tradurre
in una lingua a me comprensibile?»
«Nínõ,
es hora de aprender
un nuevo idioma», rise Raphael, attraversando la camera e
richiudendo la porta
alle spalle di Simon, prima di tornare sui suoi passi.
«Che?»
Raphael non si curò
di
fornirgli una spiegazione; si limitò a sogghignare,
prendendo posto sul bordo
del piumone, e fece scorrere le unghie lunghe sui bottoni della
camicia. Il
pomo di Adamo di Simon compì un giro completo nella sua
gola, a quella vista.
«Questa è
una camisa.
Avanti, ripeti», ordinò Raphael, gli occhi
intrecciati a quelli di Simon.
«Emm, camisa?»,
tentò quegli, cercando d’imitare i suoni che
lasciavano
le labbra di Raphael, ma ben consapevole di essere lontano anni luce da
quella
musicalità.
«Non male,
nínõ, non
male», lo adulò Raphael, interrompendo il
movimento lento e misurato delle dita
per tendere una mano in direzione di Simon e invitarlo a sedersi al suo
fianco.
Il giovane vampiro deglutì ancora, ripassando mentalmente le
mosse di difesa
che Jace e Alec gli avevano insegnato – si sa mai che a
Raphael venissero strane
idee. Mosse un paio di passi verso il letto a baldacchino e vi si
sedette,
attento a non sfiorare le ginocchia di Raphael.
«Bene. Ora, alziamo
la
posta in gioco», continuò quegli, liberando
un’asola alla volta e rimanendo a
petto nudo, la camicia a coprirgli unicamente i fianchi e la schiena.
Simon
dovette concentrarsi più di quanto avesse mai fatto per una
partita alla
playstation, per non far scivolare lo sguardo sul torace di Raphael,
cercando
in tutti i modi di rimanere aggrappato al suo viso – che, in
realtà, non
costituiva una distrazione di minore attrattiva.
«Derecho»,
sussurrò
Raphael, posando l’indice sul pettorale destro. A quel punto,
Simon fu
praticamente costretto a far precipitare gli occhi prima sul suo naso,
poi
sulle labbra, poi sulle vene rigonfie del collo e infine sul punto
designato.
D’un tratto, la salivazione parve arrestarsi e la lingua non
ne volle sapere di
inumidirgli le labbra; Simon si ritrovò a boccheggiare, come
il più pivellino
dei pesci rossi, le pupille quasi fuori dalle orbite.
«Dere-che?»,
balbettò, le iridi che sembravano non volersi scollare dal
capezzolo dere-qualcosa di Raphael.
«Derecho,
nínõ, derecho»,
sbuffò spazientito l’altro e, facendo scivolare
l’indice sul lato opposto,
aggiunse: «e qui, izquierda».
«E che
c’entra Izzy,
adesso?», domandò perplesso Simon, facendo entrare
nel proprio campo visivo
anche il capezzolo Izzy-qualcosa.
«Ahi,
nínõ, e pensare che
avevi cominciato così bene». Raphael
scrollò la testa, fingendo disappunto,
quand’in realtà avrebbe voluto unicamente
abbandonarsi alle risate.
«E questo come si
dice?»,
prese coraggio Simon, sollevando la mano. Raphael non dovette abbassare
il
capo, per avvertire i polpastrelli di Simon solleticargli lo stomaco,
poco più
su dell’ombelico.
«Estómaco»,
farfugliò, avvertendo
le farfalle di cui blateravano tanto i Mondani svolazzargli
all’interno. Simon
non capì come fosse accaduto, ma fu certo di avere lui il
coltello dalla parte
del manico, per una volta, e ne rinsaldò la presa.
«Estómaco»,
ripeté,
incerto, e, ottenuta l’approvazione di Raphael,
spostò il pollice qualche
centimetro più a destra, premendo su una costola.
«E qui?», sussurrò ancora, la
voce improvvisamente scesa di un’ottava.
«Costilla»,
lo illuminò
Raphael, questa volta accompagnando le dita di Simon con il proprio
sguardo,
offuscato dalla sensazione che quel punto di contatto tra loro gli
causava.
Simon annuì,
memorizzando
anche quella parola, e si mosse ancora, il lento incedere delle dita
che si
specchiava in una lieve torsione del bacino, in direzione di quello di
Raphael.
Fece slittare la mano sempre più in alto, attratto da una
cicatrice che quel
corpo sfoggiava sul fianco.
«E questa come si
chiama?»
«Cicatriz»,
sibilò
Raphael, irrigidendosi appena sotto il tocco di Simon.
«Mi
dispiace», si scusò quegli,
le parole che gli uscivano a fatica e la voce sempre più
roca. «Ti ho fatto
male?»
E Raphael avrebbe voluto
solo dirgli che sì, la sua mano gli stava scavando la pelle
morta, ma che non
gli importava, che desiderava solo che quelle dita gli raggiungessero
il
muscolo cardiaco ormai fuori uso e lo rimettessero in moto.
«No pasa
nada», rispose
invece, in un soffio difficilmente udibile.
Simon si appoggiò a
quelle
parole per un lunghissimo minuto, prima di accostare il viso al fianco
di
Raphael e di poggiare le labbra titubanti su quella lievissima
imperfezione.
«Mi dispiace, mi dispiace», mormorò
ancora, la bocca che già sfregava su quel
bassorilievo perfetto, la lingua che alleviava il dolore sepolto sotto
la
crosta.
«Ne hai altre come
questa…
cicatriz?», gli
domandò, quando si
ritenne soddisfatto, non osando però sollevare il volto per
incrociare il suo
sguardo.
E per una volta fu Raphael
a deglutire.
«Moltissime».
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Raphael ne aveva davvero
moltissime, di cicatrici; la
lingua di Simon le aveva tracciate tutte, con tanta adorazione che
adesso la
punta gli bruciava del sapore di Raphael. Il vampiro più
anziano aveva tenuto
gli occhi socchiusi per il tutto tempo, lasciando che fosse Simon a
stabilire
ogni dettaglio, l’andatura e le pause, e che si fermasse a
prendere aria –
benché non gli servisse davvero – quando ne
avvertiva il bisogno. Il tutto
aveva richiesto più tempo del previsto; l’orologio
a pendolo segnava le cinque
passate, ma nessuno dei due accennava a volersi separare
dall’altro.
Ne mancava solo una
all’appello, quella che era sotto gli
occhi di tutti, quella che più terrorizzava Simon
perché tanto esposta da
sembrare inviolabile, quella appena sotto lo zigomo sinistro.
«Questa possiamo
saltarla, se non ti va», propose
Raphael, indovinando le preoccupazioni che oscuravano appena le iridi
di Simon,
concentrate su quello sfregio che gli marchiava la guancia.
«Come te la sei
fatta?», chiese invece il giovane
vampiro, sollevando la mano e domandando, con la sua esitazione, il
permesso a
Raphael per poterla toccare. Questi annuì appena, porgendo
il viso alle dita
delicate di Simon.
«Mi ero appena unito
al clan, allora sotto la guida di
Camille», cominciò, l’alito a
solleticare il polso dell’altro. «Erano in molti
a trasformarsi, in quel periodo, e a me venivano affidati i casi
più
difficili», rammentò, e a Simon non venne
difficile immaginare il perché di
quella scelta. Raphael con lui si era dimostrato paziente, anche quando
non era
tenuto a riservargli certe gentilezze; gli aveva insegnato ogni cosa,
con una
premura che riteneva quasi impossibile potesse albergare in quel cuore
ormai
immoto da anni. «Indossavo persino la mia giacca preferita,
quel giorno, che ho
ovviamente rovinato, que cabeza de choto»,
imprecò, rimproverandosi ancora
quella stupida leggerezza che si portava dietro, per nulla smussata dal
trascorrere dei decenni.
«Questa credo di
averla capita», rise Simon. Prima che
entrambi potessero rendersene conto, il pollice di Simon stava
accarezzando la
guancia di Raphael, evitando ancora di toccare la piccola ferita. Si
scambiarono un sorriso a metà e si studiarono le labbra
appena ricurve a
vicenda per qualche secondo, prima che Raphael riprendesse la parola.
«Ho ricordi fin
troppo vividi di quel momento»,
s’interruppe, lo sguardo distante, presumibilmente incastrato
nei fotogrammi
sfocati sepolti nella memoria. Simon avvertì la piega
funesta che aveva
intrapreso il discorso, e premette un po’ più
forte il pollice sulla pelle di
Raphael.
«Si chiamava
Juliet», rivelò infine Raphael, il nome che
gli scivolò sulle labbra con la stessa difficoltà
che ancora incontrava Simon
nel pronunciare il nome di Dio. «Fu sconvolta, quando
realizzò di avere i
canini, e la sete di sangue umano, e tutto il resto. Non aveva chiesto
di
essere una vampira».
«Come me»,
intervenne Simon, la voce appena spezzata. Si sentì
subito vicino a quella sconosciuta, Juliet, e poteva figurarsi senza
sforzi il
terrore che doveva aver provato alla sensazione di formicolio alla
bocca dello
stomaco, o a quella di vertigine alla vista del sangue. Raphael
seguì il filo
dei suoi pensieri con sguardo pensieroso; non voleva che il suo
racconto
sconvolgesse gli equilibri precari che erano riusciti a stabilire nelle
ultime
settimane, non voleva turbare quell’effimero gioco da
funambuli che avevano
faticosamente messo in piedi
«Non
permetterò che a te accada lo stesso, Simon»,
disse
allora, a bassa voce, lo sguardo che perforò il pavimento,
per quant’era
inteso.
«Cosa le è
successo?»
«Si tolse la
vita». Dirlo a voce alta gli fece rivivere
la scena dall’inizio – la colluttazione, il pugnale
che riluceva tra le sue
dita sottili, la coltellata dritta al cuore. «Provai a
fermarla, ma un vampiro
neonato ha una forza immensa, se nutrito a dovere. E lei aveva appena
mangiato».
«Raphael,
mi…»
«Questo è
il segno delle sue unghie; graffiava come una gatta,
aveva una forza di volontà che le ho sempre
invidiato», ricordò Raphel, le dita
che ora si accavallavano a quelle di Simon, tutte ugualmente su quel
solco sul
viso.
«Ti ricordi
qualcos’altro di lei?»
«Ah, ogni
cosa», sospirò amaro Raphael, sollevandosi dal
letto con un balzo e tornando dopo un battito di ciglia, dopo aver
frugato in
una cassettiera, un oggetto d’argento tra le mani.
«Immagino dovesse
avere all’incirca la tua età»,
proseguì, porgendo a Simon una catenina con una piccola
tartaruga all’estremità.
«Gliel’ho strappata dal collo prima che
richiudessero la bara; avere la velocità
di un vampiro può tornare utile nei modi più
svariati».
«Non volevi
dimenticarla», appurò Simon, rigirandosi la
tartaruga tra le mani.
«Non posso
dimenticarla. Juliet è il motivo per cui mi
prendo cura di tutti gli altri, per cui considero il clan la mia
famiglia, per
cui…»
«Per cui hai aiutato
me».
«Sì. Non
posso perdere più nessuno in quel modo».
Sembrava che i sensi di Simon
lo stessero tradendo; non
aveva mai ritenuto possibile che un giorno la voce di Raphael si
sarebbe spezzata
in quel modo, o che i suoi occhi potessero assumere tinte tanto cupe.
Vederlo così,
dissolversi lentamente in frammenti, gli mosse qualcosa nel petto,
sebbene non
dovesse esserci nulla di vivo sotto la pelle.
«Non mi perderai,
Raphael», giurò a entrambi, lo voce
poco più che un sussurro.
Raphael avrebbe sorriso di un
sorriso incontaminato, se
solo ne fosse stato ancora capace. «Non avevo mai raccontato
a nessuno questa
storia», mormorò invece di rimando, sperando che
tanto bastasse a comunicare a
Simon tutte le cose che non riusciva a dirgli.
«A me l’hai
detta», constatò infatti quegli, con un certo
grado di soddisfazione.
«Immagino che ci sia
qualcosa di diverso in me, recentemente»,
azzardò Raphael, arrischiando un’occhiata fugace
in direzione dell’altro.
«E
cos’è cambiato?»
«Più di
quanto immaginassi. Più di quanto avrebbe dovuto,
probabilmente».
«Ne sono
contento», disse Simon, e lo era davvero; una
felicità senza condizioni gli stava alleggerendo il torace,
una del tipo raro,
che non aveva ancora sperimentato nella sua breve esperienza da
non-morto.
«Di cosa?»
«Di essere io quella
persona. Quella di cui ti fidi». Forse
aveva mal interpretato tutti i segnali di altro
tipo, ma sperava che Raphael potesse almeno accettarlo come suo
confidente, e
tanto gli sarebbe bastato.
«Simon»,
cominciò Raphael, la voce già greve.
«Non posso
darti nulla di più di questo, te ne rendi conto?»
«Come?»
«Simon»,
ripeté, come se non potesse evitare di
pronunciare il suo nome. «Vorrei poter essere diverso, ma non
sono che quello
che sono»
«Ovvero un arrogante
leader vampiro messicano
dall’insulto facile?», scherzò Simon,
rifiutandosi di assecondare Raphael in
quell’idiozia.
«Simon.
Ho
sempre vissuto di ombre e tra ombre, ma tu… tu sei qualcosa
di vivo, lo
capisci?»
«L’ultima
volta che ho controllato ero ancora bello che
morto».
«Si-»
«Raphael.
Ora
stammi a sentire», lo bloccò Simon, prendendogli
il volto tra le mani e fermando
il flusso di parole insensate che stava biascicando. «Non ti
chiedo altro che precisamente
questo».
Appena l’ultima
parola volò via dalla sua lingua, lo
baciò con una leggerezza ultraterrena, sfiorando appena il
labbro inferiore,
quasi avesse paura di spezzarlo, se avesse premuto solo un
po’ più forte; la
bocca serrata di Raphael si sciolse alla sua intrusione e un gemito
appena
soffocato gli sfuggì dalla gola, mentre gli occhi
– ancora socchiusi – erano pozze
liquide, completamente immersi nel volto serio e concentrato di Simon.
A
Raphael servirono tre secondi buoni prima di posizionare le mani sul
petto di
Simon, e allontanarlo appena da sé; Simon batté
le palpebre, stordito da quell’intoppo
inaspettato e riuscì a proferire solo una richiesta di
spiegazione, mimando
appena le labbra, il suono che faticava a venir fuori.
«Perché?»
Raphael raddrizzò il
petto, tentando di riacquistare una
parvenza di controllo. Già, perché diavolo aveva
spezzato quel bacio,
probabilmente l’unico che il Lewis gli avrebbe mai concesso,
ora che era stato
rifiutato senza riguardo?
«Hai proprio la
sangre blanca, tu», sospirò, più a se
stesso che a Simon, trovando che non vi fosse un appellativo migliore
di
quello, per spiegare tutti i motivi che avrebbero dovuto tenerlo a
debita
distanza.
«Cosa
avrei?»
«Il sangue bianco.
Sei la prima cosa pura che il mondo
dei Nascosti abbia mai visto», che
io
abbia mai visto, aggiunse mentalmente, ma non ritenne
opportuno rivelargli quanta
paura avesse, paura di avvelenarlo fin nelle viscere.
«È che
siete un po’ tutti troppo stressati da queste
parti», sbuffò Simon, portando le ginocchia al
petto. Raphael non mancò di
annotare quel gesto e giurò di portare sempre con
sé l’immagine di quel Simon,
minuscolo come un granello di sabbia, eppure incredibilmente
più forte di lui
in talmente tanti aspetti. Simon non parve accorgersi della venerazione
con cui
Raphael lo stava fissando, per cui proseguì la disanima del
problema del clan –
secondo la sua particolare prospettiva, ovviamente. «Dovreste
prendere in mano
un joystick, di tanto in tanto. Risolverebbe molti problemi».
«Hai intenzione di
sfidare Valentine o il Conclave a una
partita di The Walking Dead per
appianare le divergenze?», lo schernì Raphael,
richiamando alla memoria uno dei
videogiochi che sapeva essere tra i preferiti di Simon; aveva
un’insolita
passione per gli zombie, per essere un vampiro.
«Ah-ah
spiritoso», gli fece il verso Simon, fingendo una
risata. «Potremmo portare una playstation al Dumort, che ne
dici?», propose,
già entusiasta all’idea di una congrega di vampiri
che se le dava di santa ragione a Call of Duty.
«De eso ni
hablar», sibilò piuttosto categorico Raphael,
assottigliando gli occhi e accompagnando il netto rifiuto con un cenno
di
dissenso del capo.
«Okay, non ho idea di
cosa tu abbia appena detto, ma lo
prendo per un sì», cinguettò Simon,
incurante dell’espressione truce di Raphael
che parlava molto più eloquentemente di qualunque lingua.
«Non mi sfidare, nínõ»,
lo mise in guardia quegli, lo sguardo sempre più
affilato e i canini ora appena visibili.
«Credi
di farmi paura? Ormai ho scoperto il tuo punto debole».
«Ovvero?»,
domandò Raphael scettico,
aggrottando le sopracciglia.
Simon sbandierò il
suo solito
sorriso storto e si fece più vicino di alcuni centimetri,
proprio quando
Raphael credeva che non fosse possibile stare più incollati
di così. Gli posò
una mano sul collo, piegandolo appena verso di sé, e vi
poggiò le labbra sopra,
prima di risalire su per la mascella, fino al lobo, che
catturò tra i denti.
Percepì il corpo di Raphael liquefarsi sotto i suoi baci e
sorrise ancora,
prima di sussurrargli sulla pelle: «questo sangra
blanca qui».
Fuori, lontano, il sole sorgeva sui tetti di Brooklyn, ma un’alba più potente stava inaugurando la giornata – e forse un po’ anche la vita – di Raphael Santiago.
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