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Autore: graciousghost    12/05/2016    4 recensioni
{Saphael ♥}
Raphael ha moltissime cicatrici e Simon vorrebbe solo baciargliele tutte, curando ferite vecchie, ma ancora dolorose, e nuove, ma che bruciano con un'intensità spaventosa.
«Hai proprio la sangre blanca, tu».
«Cosa avrei?»
«Il sangue bianco. Sei la cosa più pura che il mondo dei Nascosti abbia mai visto», che io abbia mai visto.
Genere: Angst, Fluff, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Raphael Santiago, Simon Lewis
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Sangre Blanca

 

 

Simon aveva familiarizzato con quasi ogni ala dell’Hotel Dumort, imparando a riconoscerne gli angoli, a indovinare le stanze solo dal mobilio o dal drappeggio delle tende alla finestre, e ad apprezzarne i quadri alla pareti; sapeva che dietro ogni tela e ogni divano si celava il buon gusto di Raphael, ne individuava l’impronta persino nella porcellana, quasi che quell’ossessione che gli gravava sul petto ormai da tempo non gli desse pace neppure quando il capo del clan di vampiri di New York non era nei paraggi. Un’unica area del Dumort serbava ancora i suoi segreti, agli occhi vergini di Simon: la stanza da letto di Raphael, luogo avvolto dal più peccaminoso tabù, se Simon vi si soffermava a pensare con una tale frequenza. Ne aveva intuito pressappoco l’ubicazione, trovandosi a tendere le orecchie oltre le mura spesse e a contare i passi che servivano a Raphael per raggiungere la sala comune. In più di un’occasione, aveva seguito con la coda dell’occhio la direzione che prendevano quelle gambe – così dannatamente invitanti –, tentando di fare appello alla piantina mentale che si era disegnato dell’Hotel, per prevedere le possibili svolte o scalinate. Non era certo che Raphael fosse all’oscuro di quelle sue manie, ma ormai l’ipotesi di venire colto in flagrante non lo disturbava più di tanto; semmai, l’immagine del volto infastidito – e lusingato – di Raphael che lo rimproverava in quella lingua ignota – e ad alto contenuto erotico – lo caricava di un’eccitazione nuova.

Forse per questo, quella notte, quando Raphael prese congedo dagli altri vampiri per ritirarsi nella camera padronale, Simon non ci pensò due volte, prima di alzarsi dalla poltrona e seguirlo. Raphael avvertì sin dal primo istante il respiro irregolare di Simon alle spalle, ma non sollevò alcuna protesta; lasciò che il ragazzo ricalcasse la stessa superficie, deliziato dall’idea che i loro corpi quasi combaciassero, se non fosse stato per un’impercettibile distanza temporale. Lo guidò sino alla porta in laminato che segnava l’ingresso nel suo regno e lasciò uno spiraglio aperto, prima di sparirvi all’interno e di riporre la giacca ordinatamente nell’armadio. Simon si diede dello stupido, una volta di più; cosa sperava di ottenere, esattamente? Spiare Raphael dal buco della serratura era l'equivalente di offrirsi volontario come Katniss per gli Hunger Games e così fece l’unica cosa che gli parve sensata: bussò.

«Adelante», acconsentì la voce di Raphael, e un certo numero di telenovelas argentine di sua madre avevano permesso a Simon di capire che quella parola rappresentava un invito e non un insulto. Prese un grosso respiro e varcò la soglia, non osando però avvicinarsi al suo interlocutore.

«Allora?», domandò spazientito Raphael, le braccia incrociate sul petto e un sopracciglio sollevato.

«Emm, sì», riepilogò Simon, dopo un colpo di tosse.  «Mi chiedevo se avessi voglia di fare due chiacchiere, sai, per passare il tempo», propose, grattandosi la nuca e abbozzando un sorriso sghembo.

«Ahi, que bonito», lo prese in giro Raphael, levandosi anche i mocassini.

«Ti spiacerebbe tradurre in una lingua a me comprensibile?»

«Nínõ, es hora de aprender un nuevo idioma», rise Raphael, attraversando la camera e richiudendo la porta alle spalle di Simon, prima di tornare sui suoi passi.

«Che?»

Raphael non si curò di fornirgli una spiegazione; si limitò a sogghignare, prendendo posto sul bordo del piumone, e fece scorrere le unghie lunghe sui bottoni della camicia. Il pomo di Adamo di Simon compì un giro completo nella sua gola, a quella vista.

«Questa è una camisa. Avanti, ripeti», ordinò Raphael, gli occhi intrecciati a quelli di Simon.

«Emm, camisa?», tentò quegli, cercando d’imitare i suoni che lasciavano le labbra di Raphael, ma ben consapevole di essere lontano anni luce da quella musicalità.

«Non male, nínõ, non male», lo adulò Raphael, interrompendo il movimento lento e misurato delle dita per tendere una mano in direzione di Simon e invitarlo a sedersi al suo fianco. Il giovane vampiro deglutì ancora, ripassando mentalmente le mosse di difesa che Jace e Alec gli avevano insegnato – si sa mai che a Raphael venissero strane idee. Mosse un paio di passi verso il letto a baldacchino e vi si sedette, attento a non sfiorare le ginocchia di Raphael.

«Bene. Ora, alziamo la posta in gioco», continuò quegli, liberando un’asola alla volta e rimanendo a petto nudo, la camicia a coprirgli unicamente i fianchi e la schiena. Simon dovette concentrarsi più di quanto avesse mai fatto per una partita alla playstation, per non far scivolare lo sguardo sul torace di Raphael, cercando in tutti i modi di rimanere aggrappato al suo viso – che, in realtà, non costituiva una distrazione di minore attrattiva.

«Derecho», sussurrò Raphael, posando l’indice sul pettorale destro. A quel punto, Simon fu praticamente costretto a far precipitare gli occhi prima sul suo naso, poi sulle labbra, poi sulle vene rigonfie del collo e infine sul punto designato. D’un tratto, la salivazione parve arrestarsi e la lingua non ne volle sapere di inumidirgli le labbra; Simon si ritrovò a boccheggiare, come il più pivellino dei pesci rossi, le pupille quasi fuori dalle orbite.

«Dere-che?», balbettò, le iridi che sembravano non volersi scollare dal capezzolo dere-qualcosa di Raphael.

«Derecho, nínõ, derecho», sbuffò spazientito l’altro e, facendo scivolare l’indice sul lato opposto, aggiunse: «e qui, izquierda».

«E che c’entra Izzy, adesso?», domandò perplesso Simon, facendo entrare nel proprio campo visivo anche il capezzolo Izzy-qualcosa.

«Ahi, nínõ, e pensare che avevi cominciato così bene». Raphael scrollò la testa, fingendo disappunto, quand’in realtà avrebbe voluto unicamente abbandonarsi alle risate.

«E questo come si dice?», prese coraggio Simon, sollevando la mano. Raphael non dovette abbassare il capo, per avvertire i polpastrelli di Simon solleticargli lo stomaco, poco più su dell’ombelico.

«Estómaco», farfugliò, avvertendo le farfalle di cui blateravano tanto i Mondani svolazzargli all’interno. Simon non capì come fosse accaduto, ma fu certo di avere lui il coltello dalla parte del manico, per una volta, e ne rinsaldò la presa.

«Estómaco», ripeté, incerto, e, ottenuta l’approvazione di Raphael, spostò il pollice qualche centimetro più a destra, premendo su una costola. «E qui?», sussurrò ancora, la voce improvvisamente scesa di un’ottava.

«Costilla», lo illuminò Raphael, questa volta accompagnando le dita di Simon con il proprio sguardo, offuscato dalla sensazione che quel punto di contatto tra loro gli causava.

Simon annuì, memorizzando anche quella parola, e si mosse ancora, il lento incedere delle dita che si specchiava in una lieve torsione del bacino, in direzione di quello di Raphael. Fece slittare la mano sempre più in alto, attratto da una cicatrice che quel corpo sfoggiava sul fianco.

«E questa come si chiama?»

«Cicatriz», sibilò Raphael, irrigidendosi appena sotto il tocco di Simon.

«Mi dispiace», si scusò quegli, le parole che gli uscivano a fatica e la voce sempre più roca. «Ti ho fatto male?»

E Raphael avrebbe voluto solo dirgli che sì, la sua mano gli stava scavando la pelle morta, ma che non gli importava, che desiderava solo che quelle dita gli raggiungessero il muscolo cardiaco ormai fuori uso e lo rimettessero in moto.

«No pasa nada», rispose invece, in un soffio difficilmente udibile.

Simon si appoggiò a quelle parole per un lunghissimo minuto, prima di accostare il viso al fianco di Raphael e di poggiare le labbra titubanti su quella lievissima imperfezione. «Mi dispiace, mi dispiace», mormorò ancora, la bocca che già sfregava su quel bassorilievo perfetto, la lingua che alleviava il dolore sepolto sotto la crosta.

«Ne hai altre come questa… cicatriz?», gli domandò, quando si ritenne soddisfatto, non osando però sollevare il volto per incrociare il suo sguardo.

E per una volta fu Raphael a deglutire.

«Moltissime».

 

 

♠ ♠ ♠ ♠ ♠ ♠ ♠ ♠ ♠ ♠ ♠ ♠ ♠ ♠ ♠

 

 

Raphael ne aveva davvero moltissime, di cicatrici; la lingua di Simon le aveva tracciate tutte, con tanta adorazione che adesso la punta gli bruciava del sapore di Raphael. Il vampiro più anziano aveva tenuto gli occhi socchiusi per il tutto tempo, lasciando che fosse Simon a stabilire ogni dettaglio, l’andatura e le pause, e che si fermasse a prendere aria – benché non gli servisse davvero – quando ne avvertiva il bisogno. Il tutto aveva richiesto più tempo del previsto; l’orologio a pendolo segnava le cinque passate, ma nessuno dei due accennava a volersi separare dall’altro.

Ne mancava solo una all’appello, quella che era sotto gli occhi di tutti, quella che più terrorizzava Simon perché tanto esposta da sembrare inviolabile, quella appena sotto lo zigomo sinistro.

«Questa possiamo saltarla, se non ti va», propose Raphael, indovinando le preoccupazioni che oscuravano appena le iridi di Simon, concentrate su quello sfregio che gli marchiava la guancia.

«Come te la sei fatta?», chiese invece il giovane vampiro, sollevando la mano e domandando, con la sua esitazione, il permesso a Raphael per poterla toccare. Questi annuì appena, porgendo il viso alle dita delicate di Simon.

«Mi ero appena unito al clan, allora sotto la guida di Camille», cominciò, l’alito a solleticare il polso dell’altro. «Erano in molti a trasformarsi, in quel periodo, e a me venivano affidati i casi più difficili», rammentò, e a Simon non venne difficile immaginare il perché di quella scelta. Raphael con lui si era dimostrato paziente, anche quando non era tenuto a riservargli certe gentilezze; gli aveva insegnato ogni cosa, con una premura che riteneva quasi impossibile potesse albergare in quel cuore ormai immoto da anni. «Indossavo persino la mia giacca preferita, quel giorno, che ho ovviamente rovinato, que cabeza de choto», imprecò, rimproverandosi ancora quella stupida leggerezza che si portava dietro, per nulla smussata dal trascorrere dei decenni.

«Questa credo di averla capita», rise Simon. Prima che entrambi potessero rendersene conto, il pollice di Simon stava accarezzando la guancia di Raphael, evitando ancora di toccare la piccola ferita. Si scambiarono un sorriso a metà e si studiarono le labbra appena ricurve a vicenda per qualche secondo, prima che Raphael riprendesse la parola.

«Ho ricordi fin troppo vividi di quel momento», s’interruppe, lo sguardo distante, presumibilmente incastrato nei fotogrammi sfocati sepolti nella memoria. Simon avvertì la piega funesta che aveva intrapreso il discorso, e premette un po’ più forte il pollice sulla pelle di Raphael.

«Si chiamava Juliet», rivelò infine Raphael, il nome che gli scivolò sulle labbra con la stessa difficoltà che ancora incontrava Simon nel pronunciare il nome di Dio. «Fu sconvolta, quando realizzò di avere i canini, e la sete di sangue umano, e tutto il resto. Non aveva chiesto di essere una vampira».

«Come me», intervenne Simon, la voce appena spezzata. Si sentì subito vicino a quella sconosciuta, Juliet, e poteva figurarsi senza sforzi il terrore che doveva aver provato alla sensazione di formicolio alla bocca dello stomaco, o a quella di vertigine alla vista del sangue. Raphael seguì il filo dei suoi pensieri con sguardo pensieroso; non voleva che il suo racconto sconvolgesse gli equilibri precari che erano riusciti a stabilire nelle ultime settimane, non voleva turbare quell’effimero gioco da funambuli che avevano faticosamente messo in piedi

«Non permetterò che a te accada lo stesso, Simon», disse allora, a bassa voce, lo sguardo che perforò il pavimento, per quant’era inteso.

«Cosa le è successo?»

«Si tolse la vita». Dirlo a voce alta gli fece rivivere la scena dall’inizio – la colluttazione, il pugnale che riluceva tra le sue dita sottili, la coltellata dritta al cuore. «Provai a fermarla, ma un vampiro neonato ha una forza immensa, se nutrito a dovere. E lei aveva appena mangiato».

«Raphael, mi…»

«Questo è il segno delle sue unghie; graffiava come una gatta, aveva una forza di volontà che le ho sempre invidiato», ricordò Raphel, le dita che ora si accavallavano a quelle di Simon, tutte ugualmente su quel solco sul viso.

«Ti ricordi qualcos’altro di lei?»

«Ah, ogni cosa», sospirò amaro Raphael, sollevandosi dal letto con un balzo e tornando dopo un battito di ciglia, dopo aver frugato in una cassettiera, un oggetto d’argento tra le mani.

«Immagino dovesse avere all’incirca la tua età», proseguì, porgendo a Simon una catenina con una piccola tartaruga all’estremità. «Gliel’ho strappata dal collo prima che richiudessero la bara; avere la velocità di un vampiro può tornare utile nei modi più svariati».

«Non volevi dimenticarla», appurò Simon, rigirandosi la tartaruga tra le mani.

«Non posso dimenticarla. Juliet è il motivo per cui mi prendo cura di tutti gli altri, per cui considero il clan la mia famiglia, per cui…»

«Per cui hai aiutato me».

«Sì. Non posso perdere più nessuno in quel modo».

Sembrava che i sensi di Simon lo stessero tradendo; non aveva mai ritenuto possibile che un giorno la voce di Raphael si sarebbe spezzata in quel modo, o che i suoi occhi potessero assumere tinte tanto cupe. Vederlo così, dissolversi lentamente in frammenti, gli mosse qualcosa nel petto, sebbene non dovesse esserci nulla di vivo sotto la pelle.

«Non mi perderai, Raphael», giurò a entrambi, lo voce poco più che un sussurro.

Raphael avrebbe sorriso di un sorriso incontaminato, se solo ne fosse stato ancora capace. «Non avevo mai raccontato a nessuno questa storia», mormorò invece di rimando, sperando che tanto bastasse a comunicare a Simon tutte le cose che non riusciva a dirgli.

«A me l’hai detta», constatò infatti quegli, con un certo grado di soddisfazione.

«Immagino che ci sia qualcosa di diverso in me, recentemente», azzardò Raphael, arrischiando un’occhiata fugace in direzione dell’altro.

«E cos’è cambiato?»

«Più di quanto immaginassi. Più di quanto avrebbe dovuto, probabilmente».

«Ne sono contento», disse Simon, e lo era davvero; una felicità senza condizioni gli stava alleggerendo il torace, una del tipo raro, che non aveva ancora sperimentato nella sua breve esperienza da non-morto.

«Di cosa?»

«Di essere io quella persona. Quella di cui ti fidi». Forse aveva mal interpretato tutti i segnali di altro tipo, ma sperava che Raphael potesse almeno accettarlo come suo confidente, e tanto gli sarebbe bastato.

«Simon», cominciò Raphael, la voce già greve. «Non posso darti nulla di più di questo, te ne rendi conto?»

«Come?»

«Simon», ripeté, come se non potesse evitare di pronunciare il suo nome. «Vorrei poter essere diverso, ma non sono che quello che sono»

«Ovvero un arrogante leader vampiro messicano dall’insulto facile?», scherzò Simon, rifiutandosi di assecondare Raphael in quell’idiozia.

«Simon. Ho sempre vissuto di ombre e tra ombre, ma tu… tu sei qualcosa di vivo, lo capisci?»

«L’ultima volta che ho controllato ero ancora bello che morto».

«Si-»

«Raphael. Ora stammi a sentire», lo bloccò Simon, prendendogli il volto tra le mani e fermando il flusso di parole insensate che stava biascicando. «Non ti chiedo altro che precisamente questo».

Appena l’ultima parola volò via dalla sua lingua, lo baciò con una leggerezza ultraterrena, sfiorando appena il labbro inferiore, quasi avesse paura di spezzarlo, se avesse premuto solo un po’ più forte; la bocca serrata di Raphael si sciolse alla sua intrusione e un gemito appena soffocato gli sfuggì dalla gola, mentre gli occhi – ancora socchiusi – erano pozze liquide, completamente immersi nel volto serio e concentrato di Simon. A Raphael servirono tre secondi buoni prima di posizionare le mani sul petto di Simon, e allontanarlo appena da sé; Simon batté le palpebre, stordito da quell’intoppo inaspettato e riuscì a proferire solo una richiesta di spiegazione, mimando appena le labbra, il suono che faticava a venir fuori. «Perché?»

Raphael raddrizzò il petto, tentando di riacquistare una parvenza di controllo. Già, perché diavolo aveva spezzato quel bacio, probabilmente l’unico che il Lewis gli avrebbe mai concesso, ora che era stato rifiutato senza riguardo?

«Hai proprio la sangre blanca, tu», sospirò, più a se stesso che a Simon, trovando che non vi fosse un appellativo migliore di quello, per spiegare tutti i motivi che avrebbero dovuto tenerlo a debita distanza.

«Cosa avrei?»

«Il sangue bianco. Sei la prima cosa pura che il mondo dei Nascosti abbia mai visto», che io abbia mai visto, aggiunse mentalmente, ma non ritenne opportuno rivelargli quanta paura avesse, paura di avvelenarlo fin nelle viscere.

«È che siete un po’ tutti troppo stressati da queste parti», sbuffò Simon, portando le ginocchia al petto. Raphael non mancò di annotare quel gesto e giurò di portare sempre con sé l’immagine di quel Simon, minuscolo come un granello di sabbia, eppure incredibilmente più forte di lui in talmente tanti aspetti. Simon non parve accorgersi della venerazione con cui Raphael lo stava fissando, per cui proseguì la disanima del problema del clan – secondo la sua particolare prospettiva, ovviamente. «Dovreste prendere in mano un joystick, di tanto in tanto. Risolverebbe molti problemi».

«Hai intenzione di sfidare Valentine o il Conclave a una partita di The Walking Dead per appianare le divergenze?», lo schernì Raphael, richiamando alla memoria uno dei videogiochi che sapeva essere tra i preferiti di Simon; aveva un’insolita passione per gli zombie, per essere un vampiro.

«Ah-ah spiritoso», gli fece il verso Simon, fingendo una risata. «Potremmo portare una playstation al Dumort, che ne dici?», propose, già entusiasta all’idea di una congrega di vampiri che se le dava di santa ragione a Call of Duty.

«De eso ni hablar», sibilò piuttosto categorico Raphael, assottigliando gli occhi e accompagnando il netto rifiuto con un cenno di dissenso del capo.

«Okay, non ho idea di cosa tu abbia appena detto, ma lo prendo per un sì», cinguettò Simon, incurante dell’espressione truce di Raphael che parlava molto più eloquentemente di qualunque lingua.

«Non mi sfidare, nínõ», lo mise in guardia quegli, lo sguardo sempre più affilato e i canini ora appena visibili.

«Credi di farmi paura? Ormai ho scoperto il tuo punto debole».

«Ovvero?», domandò Raphael scettico, aggrottando le sopracciglia.

Simon sbandierò il suo solito sorriso storto e si fece più vicino di alcuni centimetri, proprio quando Raphael credeva che non fosse possibile stare più incollati di così. Gli posò una mano sul collo, piegandolo appena verso di sé, e vi poggiò le labbra sopra, prima di risalire su per la mascella, fino al lobo, che catturò tra i denti. Percepì il corpo di Raphael liquefarsi sotto i suoi baci e sorrise ancora, prima di sussurrargli sulla pelle: «questo sangra blanca qui».


 

Fuori, lontano, il sole sorgeva sui tetti di Brooklyn, ma un’alba più potente stava inaugurando la giornata – e forse un po’ anche la vita – di Raphael Santiago.

***

Note dell'autrice:

La prima parte si basa sui prompt di Sharon e Donnie, ovvero: Nínõ, es hora de aprender un nuevo idioma - / - Che? +  baciare ogni cicatrice, ricevuti durante il WAOFP. La seconda parte è stata più che altro dettata dalla bellezza di questi due bimbi. Non avendo io letto i libri, non sono sicura della congruenza della storia di Raphael, da qui l'avvertimento What if, spero in ogni caso di non aver scritto troppe castronerie. Spero questa mia incursione nella sezione possa risultare gradevole a tutti ^-^

graciousghost

 

   
 
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