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Autore: sevenyears    15/05/2016    0 recensioni
-Tutta questa storia non ha senso.
-Appunto perché di questo si tratta.
-Di una storia?
-Esattamente. Smettila di farti domande. Noi siamo i protagonisti di qualcosa che, se siamo fortunati, qualcuno leggerà. Io sono il pazzo dimenticato in un cassonetto. Tu l’angelo salvatore. Doveva andare così.
Genere: Drammatico, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Mi sono chiesta spesso quale fosse il significato dell’espressione “diventare l’ombra di sé stessi”. Lo trovavo un concetto poetico, interessante anche, ma totalmente astratto. Ero assolutamente convinta che fosse impossibile privare l’uomo dell’unica cosa che fosse condannato a possedere. La materialità. Non si può diventare fantasmi. Per lo meno non da vivi. Sei costretto a trascinarti dietro un corpo, qualunque forma esso abbia, per un determinato numero di anni. Prima di abbandonarlo da qualche parte e trasformarti in altro. Che questo pensiero possa essere consolante per alcuni, non lo metto in dubbio. C’è chi ci trova un certo sollievo, nell’esserci. Non importa come o dove, non importa quando. Basta non sprofondare nel nulla. Basta aver attraversato, anche se per un numero di anni limitato e totalmente inconsistente, quest’oceano di vite amare e inutili. Poter dire di averlo fatto, insomma. Non essere costretti al silenzio in qualche universo buio e parallelo.
Io, personalmente, non ci trovo niente di confortante nell’essere qua. Nell’essere me, nell’essere chi sono. Non per questo cerco la morte, più o meno ovviamente. Privarsi della vita è qualcosa di totalmente diverso dal non averla mai avuta. La mia condizione ideale sarebbe, o sarebbe stata, il non aver mai preso una forma definita e definitiva e definibile. Essere rimasta impigliata nei pensieri di qualche essere superiore, galleggiando beatamente in un vuoto cosmico deliziosamente e realmente irreale.
Purtroppo questo non è avvenuto, ed è fin troppo scontato precisarlo. Intrappolata in un corpo più o meno detestabile, a seconda dei giorni, costretta a sorridere ad altri esseri inutili convinti di essere qualcosa di importante. Convinti di stare prodigandosi per qualcosa di importante, o che importante lo sarà in futuro. Costretta a fingere di essere soddisfatta di una vita che non possiedo e non mi possiede. A riflettere su idee balorde come, appunto, “diventare l’ombra di sé stessi”. Non credendo in niente di prettamente metafisico, benché il mio essere, il mio esistere, sia interamente basato su qualcosa di trascendente e inconfutabilmente indimostrabile.
E poi, dal nulla, mi fu sbattuto davanti un individuo che rappresentava esattamente quello in cui non credevo. Una frase banale spiaccicata su un libro in vendita a una bancarella. Un aforisma dentro un cioccolatino.
Era reale, ovviamente. Aveva un corpo, delle scarpe, degli occhi (occhi assolutamente vuoti).
Ma questo, tutto questo, tutto quello che lo riguardava, lo si poteva solo intuire. Era facile capire che, un tempo, lì doveva esserci stata una persona come le altre. Con un colorito, una città di provenienza, magari una zia con una risata discutibile. Perfino una storia.
E spero sia superfluo dire, a questi punti, quanto l’avere una storia non sia per niente qualcosa di scontato. Non tutti ce l’hanno. Alcuni se la sono costruita, senza per questo riuscirci. Ad alcuni è caduta in testa, e magari ci hanno scritto anche un libro. Altri l’hanno cercata invano. Altri ancora non si sono mai posti il problema, e hanno continuato imperterriti ad ascoltare musica, tirare i calci alle pietre, sposarsi.
Ma oh, cosa era quel ragazzo.
Non era più niente di umano. Non era più voci, sguardi, gesti.
Seduto lì dove era seduto, si girava una sigaretta con mani tremanti. Il tabacco era sparso sul tavolo. La cartina tutta stropicciata. Nessuno lo aiutava, nessuno faceva caso a lui. Come se non ci fosse. E questo confermava tutti i miei sospetti.
Lo osservai per un po’, prima di avvicinarmi, prendere una sedia da un altro tavolo e sedermi di fronte a lui.
-Come ti ha ridotto questa vita.
Lo conoscevo. Tempo fa. Avevo creduto perfino di poter uscire dalla mia condizione di non-esistenza, per lui. Cominciare a guardare il mondo con occhi diversi, non so se migliori o peggiori. Provavo per lui qualcosa che comunemente chiamano amore. Amore. Che parola stupida. Solo una parola, appunto.
Mi rivolge un po’ di attenzione. Poca, quanto basta per rendersi conto di avermi davanti. Non so se sia ancora abbastanza intelligente per riconoscermi, per capire chi sono. Non so se il dolore sia capace di privarti anche dell’unica cosa buona che ci è stata data.
-Euridice.
-Allora hai ancora un cervello. Mi fa piacere.
-Chi ti ha mandato?
-Nessuno.
-I miei genitori, forse?
-Non so chi siano.
-Non li vedo da mesi. E mesi.
-Evidentemente non eri abbastanza importante.
-L’ho sempre saputo.
Parlavamo la stessa lingua. La lingua di due persone che, banalmente, avevano avuto una storia banalmente lunga. Si erano fatti banali promesse, avevano perfino comprato una casa banale e progettato un banalissimo matrimonio. Ancora più banalmente, lui l’aveva lasciata a tre mesi dal suddetto matrimonio. Si era innamorato di un’altra. Scontato. Melodrammatico. Ignorando le mie maledizioni, le mie proteste, le mie preghiere.
Due persone che banalmente avevano trascorso gli ultimi sei anni delle loro vite lontani, cercando (lei) banalmente di non pensarci e pensarsi. Senza riuscirci più di tanto. Venendo a sapere di matrimoni celebrati realmente. Di due figlie con nomi orrendamente banali. Chiudendosi in casa con una tv accesa e un pacchetto di sigarette, come unica compagnia. A guardare il mondo scorrere fuori dalla finestra, rifiutandosi di andare avanti. Costruendosi un illimitato numero di castelli, pensieri deliranti, difese immunitarie e non. Cominciando a vedere la vita come un gruppo di cellule impazzite che avevano fatto del casino, provocando incidenti globali, nascite, discorsi noiosi. Non credendo più in niente, se non in quattro pareti e un divano.
E poi, due settimane fa, qualcuno aveva infranto le mie muraglie cinesi per farmi sapere che il mio amato, amaro Daniel era finito in un manicomio. Meglio detto reparto di psichiatria di un costoso ospedale, o una costosa clinica per malati mentali, o qualsiasi cosa fosse. Impazzito dal dolore per aver perso, in un incidente un incendio una rapina o un naufragio, la moglie e le due figlie.
E io nemmeno sapevo che una cosa simile potesse succedere. Impazzire dal dolore. Concetto estraneo quanto diventare l’ombra di sé stessi. Qualcosa che succede solo nei film e nelle serie tv che danno in replica su un canale a pagamento che non guarda nessuno.
“Non diciamo puttanate” avevo liquidato chi me lo aveva fatto sapere. Ottenendo una risposta risentita e seccata di cui mi ero curata ben poco. Non diciamo puttanate.
E invece era successo esattamente questo.
Daniel aveva cominciato a sentire le voci, a diventare depresso, fare cose strane. Non sempre, non tutto il giorno. Solo a momenti. Solo a momenti.
I genitori (o meglio, il padre e la matrigna delle favole), sempre stati indifferenti ma preoccupati quel minimo da toglierlo da casa temendo un suicidio, lo avevano chiuso nell’ospedale o clinica sopracitato. Senza, a quanto pareva, esserlo mai andati a trovare.
Essendo stata chiamata in causa come unica persona che gli rimaneva, e provando una gran pena per questa cosa, stamattina mi sono avvolta due sciarpe intorno alla faccia (o al collo, è la stessa) e ora sono qua.
A fissare un antico grande amore, che ormai è solo antico.
A fissarlo, mi ci perdo.
Gli rimangono poco capelli. Poca pelle, anche. Sottile e grigia, quasi posso vedergli lo scheletro e il sangue che scorre lento. Magro. Magro come io non lo sono mai stata in vita mia.
Penso che i deportati di Auschwitz avessero un po’ quell’aspetto lì, una volta tirati fuori dalle camere a gas. Quell’aspetto un po’ inquietante, un po’ doloroso, che un po’ fa tenerezza. Che un po’ ti fa salire nel petto quell’odiosa e scontata consapevolezza: che, per quante lacrime possano inspirarti, per quante poesie o pensieri tristi possano tirarti fuori, è troppo tardi.
-Mi hanno detto che eri qui.
-Chi te lo ha detto.
-Non me lo ricordo.
-Bene.
-Forse pensavano che avrei potuto, non lo so.
-Magari, salvarmi.
-Non diciamo puttanate-, ancora. –Tenerti un po’ di compagnia. Sai no, come si fa con i moribondi.
-Quello che sono.
Io non penso sia pazzo. A guardarlo così, non ha l’aspetto di uno schizofrenico, o qualsiasi cosa abbiano voluto farlo passare. Solamente distrutto, solamente prossimo ad abbandonare la sua sciocca materialità e migrare in un posto pieno di sole.
-Perché ti sei fatto portare qui.
-Puoi farmi tu la sigaretta? Non mi riesce.
-Non sono capace.
-Provaci. Di sicuro ti viene meglio che a me.
È tutto abbastanza irreale. Qui, a parlare con la persona per cui ho più volte pensato a un suicidio mai commesso per codardia. Con la persona che, posso affermarlo con cognizione di causa, mi ha rovinato la vita. Mi ha escluso dal mondo, mi ha escluso da me stessa e da chi conoscevo.
Con una persona che non è più niente, che a rigor di logica non dovrebbe essere nemmeno in grado di spiccicare due parole.
-Pensavo di trovarti in un angolo, a parlare in latino al contrario. O qualcosa del genere.
-Quello lo faccio solo quando sono al cesso. Invece di leggere le scritte sugli shampoo, sai.
-Mi avevano detto- non esito, non esisto, non me ne faccio di problemi –che sentivi delle voci, che ti dicevano di uccidere o di ucciderti.
-Qui non siamo nella realtà, Euridice. Siamo una favola. E nelle favole, la matrigna cattiva convince il marito che il povero figlio senta le voci. Che voglia iniziare a uccidere le persone, diffondere virus pandemici o iniziare una nuova guerra del Vietnam o del Golfo. E il marito, quel sacco di merda privo di volontà, ci crede. Le dà retta.
-E ti sbattono qua dentro.
-E mi sbattono qua dentro. Non conta quello che dici di essere, il più delle volte. Conta quello che gli altri credono.
-O vogliono credere.
-O vogliono credere, ovviamente. Faceva comodo buttarmi via. Riprendersi la casa, che è di proprietà di mio padre. Metterla in affitto o venderla.
-Non voglio credere siano arrivati a tanto. Eri suo figlio, che cazzo.
-Hai detto bene, ero.
-Ma non puoi andartene da qui? Ora, adesso? Se ne saranno ben resi conto che non sei pazzo.
-Oh, sì. Sono io che ho chiesto di rimanere. Non ho un posto dove andare.
-Be’, vuol dire che fai pena.
-Non ti sto chiedendo di venire a vivere da te.
-Ci mancherebbe.
So che parlargli così, come se fosse normale, lo fa sentire normale. Lo tiene in vita. Non posso e non voglio e non sono tenuta a chiedergli dei suoi sentimenti. Di come si sente, se ne vuole parlare, se è riuscito più a dormire una sola cazzo di notte. La sofferenza non se ne va, la sofferenza si maschera. Dietro un dialogo da libro di francese delle elementari per imparare l’uso del presente e dell’imperfetto. Dicono che il dolore capiti, e la sofferenza invece sia una scelta. Io credo che tu non possa scegliere di soffrire, di desiderare cavarti il cuore ogni giorno e non avere coltelli abbastanza taglienti per farlo. Altrimenti, nessuno sarebbe mai triste al mondo. Vivremmo in un cartone animato per bambini, pieno di persone felici e colori e animali morti dietro gli alberi.
Nella vita, tutto capita. Non puoi scegliere niente, se non lasciarti andare. Decidere di buttarti nel fiume, carico di tutti i tuoi rancori, le tue misere gioie, i dolori, i ricordi annebbiati, le giornate sprecate. Scegliere di non scegliere, gettare le maschere, scendere nell’inconsistenza dell’esistenza così come la conosciamo.
E Daniel, Daniel cosa sta facendo. Io cosa sto facendo.
Si possono affrontare certi discorsi? Non credo. Di certe cose non se ne può parlare nemmeno con sé stessi, o con il proprio analista. Meglio anche non farsi domande, non saperle, non sapere niente.
-Tutta questa storia non ha senso.
-Appunto perché di questo si tratta.
-Di una storia?
-Esattamente. Smettila di farti domande. Noi siamo i protagonisti di qualcosa che, se siamo fortunati, qualcuno leggerà. Io sono il pazzo dimenticato in un cassonetto. Tu l’angelo salvatore. Doveva andare così.
-No che non doveva. Le cose non succedono per una ragione. Tu non sei qui perché si potesse arrivare a questo. Ma perché, semplicemente, tutto capita. Tutto capita a caso. Per esempio, appena uscita da qui potrei essere uccisa da un vaso di gerani che mi cade in testa. Potrei cominciare a volare.
-Potresti innamorarti di nuovo di me. Perché lo sai, è così che va la storia.
-Non esiste nessuna storia! Non esistono storie in cui io e te ora siamo insieme. Non esistono. Se fosse come dici tu, esisterebbe il destino. Esisterebbe qualcuno che pensa a noi, un lieto fine. Ma sono puttanate. Non è vero niente. Nemmeno noi lo siamo.
-Siamo reali in quanto personaggi. Forse, perfino protagonisti. Forse comparse in una storia più grande, ma c’è qualcuno che leggerà di noi. Altrimenti non avrebbe senso. Non avremmo senso. Niente lo avrebbe.
-Ed è esattamente così! Perché ti ostini a credere che qualcuno ci abbia buttato qui per una ragione. La ragione non c’è. Non c’è nemmeno nessuno che ci ha buttato qui. Non c’è niente. Ci sono solo proiezioni di cose mai avvenute in un abisso in qualche altro universo che non esiste.
-Tutti gli universi esistono.
-Come a dire, che non ne esiste nemmeno uno.
-Esistono mondi paralleli, anche. Tanti quanti sono le decisioni che non prendiamo. Da qualche parte, nello spazio e nel tempo, altre versioni di noi fanno quello che noi non abbiamo fatto per paura o mancanza di tempo o coscienza che quella non fosse la cosa giusta.
-Tu stai qui. Qui, a parlarmi di moltiplicazioni di mondi e molteplicità di realtà, quando io ti sto dicendo il contrario. Non è giusto e non è normale. E io sto solamente sprecando il mio tempo.
-Tu non esisti, fuori di qua. Tu esisti solo come parte della mia storia. La mia tragica storia di marito vedovo che si ritrova spiaccicato in un posto orrendo a causa dei genitori malvagi. Che poi ricomincia ad amare grazie a una ragazza che non vedeva da anni, e che in teoria dovrebbe odiarlo. Chi ti ha pensata, ha pensato solo questo di te. Te, in funzione di me. Nient’altro.
Non mi degno di rispondergli. Sarà l’ultima volta che metterò piede qua dentro. Mi sono già annullata una volta per lui, e non intendo farlo nuovamente. Mi avvolgo di nuovo tutte le sciarpe, tutte le giacche, tutti i guanti. Per sfidare il freddo fuori. Il freddo. Incrocio un dottore che assomiglia straordinariamente al George Clooney di E.R., percorro velocemente il corridoio deserto e tristissimo. Saluto per sempre e mentalmente quel posto di merda, sperando di non vederlo più e dimenticarmi di quella conversazione delirante. Apro la porta per uscire e mi investe un vento gel
 
                                                                                                                                 Fine
 
 
 
   
 
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