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Autore: Coraline Mondrian    16/05/2016    2 recensioni
Siamo in continuo cambiamento.
Frank e Gerard, due adolescenti senza speranza, masticati e risputati dalla vita, si trovano nel modo più improbabile e diventano presto inseparabili. Attraverso le loro conversazioni riscoprono se stessi e si fanno forza l'un l'altro in una risalita che è sempre più faticosa, iniziando a creare un nuovo mondo alternativo, il Loro Mondo, fatto di schermi e fuso orari, il quale, forse, non li giudicherà.
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[dal testo:]
"Gerard Arthur Way entrò nella mia vita come la neve scende al suolo: improvvisamente ma con lentezza, dolcemente determinato a nascondere tutto ciò che vi era prima sotto la sua soffice essenza, così che, quando guardavo fuori e dentro, vedevo ancora la scuola e i ragazzi, i problemi e la depressione, ma erano ricoperti da un sottile strato di candore, che li rendeva anonimi, vuoti, e, forse, un po’ meno pericolosi."
((è la mia prima frerard, perdonatemi se fa schifo))
Genere: Dark, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Frank Iero, Gerard Way | Coppie: Frank/Gerard
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Siamo in continuo cambiamento.
Ogni momento, senza volerlo, senza saperlo, senza poterlo impedire,  ci rinnoviamo, lasciando in  un angolo ciò che non consideriamo più così importante, ciò che ci ha deluso, ciò  che siamo finalmente riusciti ad accantonare, per far posto a nuove idee, persone, speranze…  
Ci evolviamo fino a trovare l’armonia.
Può sembrare una banale frase fatta, ma se ci pensate non è così scontato. Immedesimatevi. Il nostro cervello ci protegge da ciò che ci ha fatto o ci fa male, cerca di trovare, per quanto siamo ancora legati a al passato, dei nuovi obiettivi, delle nuove occasioni, e, anche se ogni rifiuto ci toglie una parte di fiducia, fa di tutto per dimostrarci quanto questi siano migliori dei precedenti, quanto non rimarremo delusi.
Tutto ciò inconsciamente; è quasi una forma di sopravvivenza. Fino a un po’ di anni fa’ avrei detto che, anche se proviamo, anche se vogliamo crederci, anche se ci impegniamo e facciamo di tutto per essere felici, per dimenticarci di ciò che siamo stati e darci una seconda, terza, quarta possibilità, è un cerchio continuo, che ”l’armonia” è solo un’utopia, un’illusione tanto ipocrita quanto i “vissero per sempre felici e contenti”, ma, dopo aver conosciuto Gee, posso dire che l’armonia esiste. Che, in qualche modo, e spesso quando siamo sul punto di abbandonarci, possiamo trovare la felicità… Gerard Arthur Way entrò nella mia vita come la neve scende al suolo: improvvisamente ma con lentezza, dolcemente determinato a nascondere tutto ciò che vi era prima sotto la sua soffice essenza, così che, quando guardavo fuori e dentro, vedevo ancora la scuola e i ragazzi, i problemi e la depressione, ma erano ricoperti da un sottile strato di candore, che li rendeva anonimi, vuoti, e, forse, un po’ meno pericolosi.
Lo realizzai molto tempo fa, quando ero solo un adolescente distrutto, dopo essermi svegliato per l’ennesima volta sulla scomoda tastiera del pc, sorridendo.
Sorridendo.
Nonostante fossero le 5.37 di mattina, nonostante avessi dormito meno di tre ore, nonostante mi fossi addormentato sulla fredda tastiera del computer…
Nonostante avessi una depressione diagnosticata da uno psichiatra, ero davvero felice.
Mi chiamo Frank, e questo non è il resoconto della mia vita: è la storia, invece, di quanto due persone possano fare del bene le une per le altre.
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Conobbi Gerard Way nel peggiore dei modi: progetto di scambio interculturale scolastico.
Ad ogni studente della mia classe, in seconda superiore, venne assegnato un corrispondente francese, con in quale dovevamo comunicare via mail (noi scrivevamo in francese, loro ci rispondevano in inglese). Il progetto sarebbe terminato poi due anni dopo, quando ognuno di noi sarebbe andato per una settimana a casa del suo “amico di penna” e, il mese seguente, viceversa.
Quando mi venne comunicato il nome e l’indirizzo email del mio corrispondente ero davvero molto riluttante, nonostante ciò la sera stessa inviai la prima mail, non curandomi del fuso orario. Ero abbastanza bravo in francese, ricordo.
Caro Gheràrd Arthur Way,
sono il tuo corrispondente americano, della scuola di  North Arlington.
A presto,
Frank Iero.
Okay, forse non ero poi così brillante, ma non era una questione di padronanza della lingua: il problema era che, oltre a non avere molta confidenza, soprattutto con gli sconosciuti, a causa delle varie situazioni imbarazzanti che avevo creato, la mia testa era ancora dolorante per ciò che era accaduto il pomeriggio stesso.
Ve lo avevo detto che ero sfigato, vero?
Ero la vittima preferita dei bulletti a scuola.
Bene, quel giorno, appena uscimmo dall’edificio scolastico, McCracken e gli altri decisero che non  bastavano più le parole orribili e  i numerosi lividi su tutto il mio corpo, avevano bisogno di altre soddisfazioni, così mi soffocarono.
Sono laureato in psicologia da anni, e posso affermare che io e Gee, interiormente, eravamo molto più forti di loro, anche quando ci stavamo abbandonando alla depressione.
Presero lo zaino di Howard   e Toro, il più robusto, lo schiacciò forte contro la mia faccia.
Accadde in un attimo.
Avevo le spalle contro il muro e un giocatore di rugby contro di me.
La pressione era insostenibile.
Oltre a non riuscire a respirare, sentivo il cranio scricchiolare … o forse era solo un’allucinazione causata dalla mancanza di ossigeno?
Tutti gli studenti si erano fermati a guardare.
Silenzio.
Pensavo che sarei morto.
Speravo che sarei morto.
Silenzio.
Migliaia di pensieri avevano inondato la mia mente dolorante, e io ci stavo annegando.
Dicevano tutti la stessa cosa.
Passarono secondi, o forse ore, ma chi conta il tempo per gli ultimi momenti della propria vita?
Finalmente svenni e Toro allentò la presa, lasciandomi cadere.
Sbattei la testa forte sull’asfalto ruvido della strada. Come un gong, quel rumore aveva segnato la fine di qualcosa, ma non sono ancora sicuro riguardo cosa fosse.
La folla mormorava, ma io non potevo sentirla, non più.
Non so cosa successe in seguito, ma nessuno chiamò un’ambulanza, nessuno aspettò che mi svegliassi.
Quando ripresi i sensi erano le 20.
Dovevo tornare a casa, dovevo fingere, come ogni giorno, che tutto andasse bene, o, perlomeno, che le cose stessero migliorando. Dovevo farlo per mia madre… e per tutte le pillole che mi facevano ingerire.
La depressione è come un burrone: se ci cadi, continui a cadere sempre più in basso, non puoi evitarlo, neanche le pillole possono evitarlo, continui a cadere e magari neanche te ne accorgi finché non ti schianti sul fondo, e lì capisci quanta strada hai fatto, quanto sei lontano da tutto in resto e, soprattutto, il tipo di percorso che ti separa dalla normalità.
Io avevo probabilmente toccato il fondo, ma non stavo iniziando a risalire. Sapevo in ogni caso che la risalita sarebbe stata molto faticosa, e che in confronto il fondo sarebbe stato relativamente comodo.
Fortunatamente quando arrivai lei era fuori, così che cercai di calmarmi e focalizzare l’attenzione su ciò che era successo, e, soprattutto, sui danni.
Avevo un largo sfregio sulla nuca, che mi faceva molto male ma stava cicatrizzando, e la testa era così dolorante… avevo paura che fosse la conseguenza di un trauma cranico.
Non volevo che mia madre si preoccupasse, ancora, che mi portasse dallo psichiatra, ancora, non volevo che capissero quanto loro mi facevano stare male…ancora.
Così strinsi i denti e aspettai che il male passasse, e per distrarmi un po’ scrissi e inviai, appunto, la prima dannata mail.
La sua email di risposta mi arrivò 3:27 minuti dopo.
“Forse anche Gheràrd Arthur Way ha una vita di merda”, avevo pensato.
Caro Frank Iero,
Mi chiamo Gerard, non Gheràrd. In ogni caso apprezzo lo sforzo che ha impiegato a scrivere il mio nome, a mandarmi quella email, a cercare di instaurare una conversazione, ma, veramente, non sono il tipo, e, soprattutto, non me lo merito.
E non serve che tu mi dica che va tutto bene, che le cose migliorano, perché so che le cose non migliorano mai, è sempre così, non importa quanto ci credi, quanto ci provi, è tutto… statico. E fa tutto cagare.
Scusa per lo sfogo,
Gerard Way .
In quel momento nacque qualcosa di strano: nella sua mail lessi le mie parole, e capii che dovevo aiutare a tutti i costi quel ragazzo sconosciuto, quel Gerard, nonostante non riuscissi ad aiutare neanche me stesso, ma, forse, lui aveva una possibilità in più di salvarsi. O forse aveva un motivo in più di salvarsi.
L’avevo capito dalla facilità con cui aveva esternato le sue emozioni, in una email, diretta a una persona che non aveva mai visto. Quando “sei messo molto male”, come lo ero io, non hai più la forza o il coraggio di esprimere i tuoi sentimenti e il tuo malessere, perché se quando stavi cadendo nessuno ti ha fermato, che senso ha urlare dal fondo del burrone?
Gerard stava ancora cadendo, e, anche se non lo sapeva, stava implorando perché qualcuno lo fermasse.
Alla fine ci salvammo entrambi, perché Gee mi aiutò a risalire dal fondo, nonostante tutti gli altri avessero mollato il colpo, quel piccolo fiocco di neve riuscì a tirarmi su e io gli impedii di cadere più in basso, ritirandolo verso la salita con me. Certo, era un meccanismo molto complesso e delicato, ed entrambi avevamo paura pe prima o poi crollasse, ma alla fine riuscimmo ad andare avanti. Ripercorremmo tutto il percorso che ci aveva allontanato dalla normalità al contrario, e non lo nego, fu molto faticoso, ma alla fine riuscimmo a vincere.
Vincemmo insieme. 
   
 
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