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Autore: Lory221B    17/05/2016    4 recensioni
Sherlock preferirebbe sprofondare in una realtà fittizzia o lasciare Londra, piuttosto che vivere una vita in cui John non è sempre al suo fianco. Ma deve finire proprio così?
[Johnlock]
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Mary Morstan, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Cap. 2 - When a heart is broken there’s nothing to break


Quando Mary fece ritorno a casa, trovò John seduto sul divano, intento a leggere qualcosa sul tablet. La donna gli si sedette accanto e notò che il marito stava riguardando i vecchi post del suo blog. Mary sapeva che non sarebbe mai riuscita a togliere l'avventura da John e non lo voleva nemmeno, ma più passava il tempo, più le sembrava che il marito non fosse in grado di reggere la routine domestica per cui avevano tanto combattuto.

John, negli ultimi mesi, era uscito sempre meno per aiutare Sherlock con i casi ed era sempre stata lei ad incoraggiarlo perchè lo chiamasse, quando lo vedeva ciondolare avanti e indietro per l'appartamento. Ogni volta che aveva intavolato il discorso Sherlock, John aveva risposto a monosillabi e nemmeno Mary era riuscita del tutto a capire cosa fosse preso a John.

Il problema era che nemmeno John lo sapeva. Sentiva che gli mancava qualcosa e ogni volta che avvertiva quella fitta nello stomaco, quella sensazione che lui ricollegava alla voglia di avventure con Sherlock, allora decideva di correre in Baker Street. Risolto il caso, ritornava da Mary e la routine si riproponeva da capo.

Non sapeva cosa lasciava dietro di sé, una volta chiusa la porta del 221B; non aveva idea dell'espressione di tristezza che si dipingeva improvvisamente sul volto di Sherlock e non sapeva che il suo amico non riusciva più a suonare perché faceva difficoltà a fare qualunque cosa, attorniato dall'ingombrante vuoto che John lasciava quando chiudeva la porta.

Ma nemmeno Sherlock sapeva che John percorreva i primi scalini, allegro per aver risolto il caso o più che altro di aver passato del tempo con lui, mentre quando arrivava alla fine della scalinata, la sua mano tremava sulla maniglia della porta d'ingresso.

Il silenzio era sempre stato d'ostacolo in ogni loro interazione, c'erano tanti di quei sentimenti inespressi in ogni sguardo, in ogni sfiorarsi che sarebbe bastato davvero poco per prenderne coscienza.

Se i meccanismi di difesa di Sherlock, erano pian piano crollati, di fronte all'intensità dei suoi sentimenti, per John non era accaduta la stessa cosa.

L'incapacità di John di capire che non era l'adrenalina che gli mancava ma Sherlock, era tale, che la routine era l'unica cosa che gli era rimasta.

Così, se ne stava seduto sul divano, con il tablet a testimonianza delle loro avventure, sua moglie accanto a lui e la figlia nella culla.

***** *****

Ventiquattro ore dopo, il detective poté finalmente lasciare l'ospedale e fare ritorno a casa, dopo che aveva rifiutato qualunque tipo di terapia psicologica. Nel corso di quelle ore, si era costantemente tuffato nel suo Palazzo Mentale, cercando di ignorare gli infermieri che venivano a controllare che i suoi valori fossero sempre nella norma ma soprattutto aveva cercato di non pensare a quello che gli aveva detto Mycroft.

Era un tentativo di suicidio? No, morire non era nelle sue intenzioni.

Aveva sparato a Magnussen, evento che aveva archiviato da qualche parte nella sua testa, in un luogo inaccessibile, dove finivano tutte le questioni che non voleva o non poteva affrontare. Mycroft cercava di provocare una sua reazione sulla questione in ogni occasione, ma Sherlock si limitava a ignorarlo, confidando che prima o dopo avrebbe smesso.

Aveva sparato a Magnussen perché John fosse al sicuro. John avrebbe fatto la stessa cosa per lui, lo aveva già fatto, del resto. E questa consapevolezza chiudeva ogni ulteriore questione sul punto.

In realtà, non era la prima volta che Sherlock dimostrava di cosa era capace. Aveva quasi gettato Moriarty dal tetto, per cui non era così strano che messo alle strette avesse deciso per un taglio definitivo.

Ma lo avrebbe fatto, prima di John?

Iniziò a salire con fatica le scale del 221B quando sentì dei rumori provenienti dal suo appartamento. Credeva che ormai, Mycroft lo avesse fatto bonificare da qualunque droga, per cui era certo che non fossero i suoi uomini. Sperò si trattasse di John e improvvisamente il passo si fece più veloce e sicuro. Aprì la porta e il dottore era proprio lì e un brivido lo percorse quando la consapevolezza che ovviamente era solo di passaggio, prese più forza in lui. Per un attimo aveva creduto di trovarsi nell'altra realtà, quella del Palazzo Mentale.

John si girò, sentendo la porta aprirsi e per un momento, anche per lui, erano di nuovo Sherlock e John al 221B. Squadrò Sherlock da capo a piedi; anche se era visibilmente denutrito e malridotto dagli ultimi avvenimenti, riusciva sempre ad essere elegante e misurato nel suo incedere, così affascinante con quell'aura di avventura e mistero che lo circondava.

- Ciao, John - lo salutò Sherlock, la voce che ostentava finta sicurezza e tranquillità, come se non fosse appena tornato da un'overdose.

- Ho buttato tutto quello che ho trovato in giro per l'appartamento, tutto quello che era sfuggito agli uomini di Mycroft, non c'è più nemmeno un grammo - affermò il dottore, rispondendo a una domanda che non gli era stata posta.

Sherlock gli lanciò soltanto un'espressione annoiata, buttò il cappotto sul divano con fare teatrale, sollevò uno dei cuscini del divano stesso, rivelando un sacchetto che di certo non conteneva zucchero e lo lanciò a John - Avete dimenticato questo -

John l’afferrò al volo e per poco non lo gettò con tutta la forza che aveva, contro una parete. Si fissarono a lungo, entrambi con uno sguardo di ghiaccio. Sherlock sapeva benissimo quello che stava facendo, quella domanda che si era posto in ospedale, quel "lo avresti fatto prima di John" lo aveva portato a due conclusioni. La prima era che assolutamente non lo avrebbe fatto e di conseguenza si era trovato a dare ragione a suo fratello, i sentimenti avevano completamente offuscato il suo giudizio.

Da quando non aveva più John nella sua vita, era tornato ad essere il ragazzino che piangeva mentre i genitori portavano Barbarossa dal veterinario per farlo sopprimere. L'equazione era davvero semplice e la soluzione era una soltanto, la solitudine lo proteggeva e pertanto doveva rimanere nuovamente da solo. Se fosse riuscito ad allontanare John, se avesse avuto la forza di mandarlo via per sempre, allora non avrebbe più sentito quel dolore ogni volta che se ne andava.

- La smetti di comportarti da stronzo? - sbottò John - Le persone che ti vogliono bene, soffrono - fece duro, per poi cambiare repentinamente tono, come a ricacciare una lacrima - Non ti importa di nessuno di noi? -

Per un attimo Sherlock sentì un'ombra attraversare le stanze del suo Palazzo Mentale; era qualcuno che rispuntava ogni tanto, anche se si era sparato in testa, anche se l'altro John lo aveva gettato giù per una cascata. Camminava elegantemente, in maniera misurata, perché Moriarty era sempre lì, quando Sherlock si sentiva debole. "Ancora questi dubbi Sherlock? Avevi detto che l'altro John era molto sveglio, più di quello che pensava. Non mi sembra. Hai dimostrato in mille modi quanto tieni a lui. Brutto, non è vero, quando i cuccioli trovano un altro padrone?"

- John - fece Sherlock, ma tutto quello che voleva disperatamente dire gli morì in gola. Ore di tempo passate a pensare che dovesse allontanare John da sé ed un solo sguardo per decidere che non sarebbe mai riuscito a farlo. 

Doveva dire qualcosa, solo per farlo rimanere - Se hai finito di fare il cane anti-droga, vorrei controllare sul mio sito se c'è qualche caso nuovo - aggiunse, con noncuranza, ma sperando così di “arruolarlo”.

John sospirò, ma confidava che almeno quella soluzione avrebbe tenuto il detective lontano dalle sue pessime abitudini - D'accordo, ho qualche ora prima della visita dal pediatra -

"Certo, briciole di tempo. Dovevi passare dalla mia parte Sherlock, quella degli angeli è noiosa e solitaria" rimarcò Jim.

***** *****

Il 1895 si era rivelato davvero utile, portando le indagini di Sherlock su nuovi piani. Se prima era costretto ad uscire di casa per risolvere i casi che richiedevano un controllo degli indizi sul campo, grazie allo scenario che creava nella sua testa e ai fascicoli di Lestrade, era in grado di risolvere anche casi da 8. Guardava le foto, leggeva le deposizioni e poi ricostruiva tutto in uno scenario di fantasia, a volte poteva anche mantenere l'ambientazione vittoriana, bastava riarrangiarla un po'.

Di tempo ne aveva, John era bloccato tra i turni della clinica e la figlia, e Sherlock non vedeva motivo di uscire di casa senza il suo fidato blogger. Naturalmente non passò molto tempo che l'uso di sostanze illecite rientrasse nella vita del detective, solo che non gli bastava più drogarsi nella realtà, cominciava a sprofondare ancora più dentro il trip anche nel 1895.

Ogni volta che sentiva che il suo Palazzo Mentale dava segni di cedimento, che la realtà cercava di insinuarsi ricordandogli che c'era un intero mondo fuori dalla sua testa, s’immaginava di mettere a tacere tutto con l'utilizzo di una siringa.

Più tempo passava lontano dalla realtà, più sentiva che i problemi scivolavano via. Che fosse nel 1800 o che facesse qualche incursione in altre epoche, John era sempre il suo unico e migliore amico. Tutti quei discorsi che avrebbe voluto fare con lui, se solo avesse avuto la convinzione che John avrebbe in qualche modo capito e ricambiato, poteva finalmente farli liberamente. Era proprio John che lo provocava nel corso dei loro immaginari appostamenti, "deve avere degli impulsi" "perché ha scelto di vivere solo?".

Se le prime volte Sherlock aveva risposto in maniera elusiva, man mano aveva ceduto a quelle conversazioni, finendo per raccontare a quel John, cose che non ammetteva nemmeno con sé stesso. Eppure, in un certo senso, lo stava facendo.

Iniziò raccontando di quando da bambino aveva grosse difficoltà ad integrarsi, in quanto non riusciva a capire perché i suoi coetanei fossero così diversi da lui.
La campana di vetro sotto cui era stato cresciuto, fatta soltanto di rapporti con i genitori e con Mycroft, non lo aveva preparato ad un incontro con altri bambini e quel senso di inadeguatezza nei confronti del resto delle persone, aveva finito per trascinarselo fino all'età adulta.

John del 1895 lo ascoltava rapito, gli stringeva la mano quando i ricordi diventavano tristi, lo rassicurava quando ammetteva che di sentimenti e relazioni non capiva niente. Sherlock sentiva un'ondata di calore investirlo, ogni volta che riusciva a mettere insieme quei discorsi, per poi sentire il gelo quando usciva da quella realtà, incapace ormai di distinguere il giorno dalla notte.

Niente aveva più senso al 221B reale ma tutto era perfetto in quello del Palazzo Mentale; il suo mondo interno era più ricco e migliore di quello esterno. Altri lo avrebbero definito un elaborato sistema di difesa per non affrontare i problemi, i sentimenti, il dolore, la perdita ma lui lo vedeva solo come un rifugio sicuro, evitando in ogni modo di analizzare perché ne avesse sempre più bisogno.

Fu l'ultima conversazione nel 1895 a portarlo più a fondo di quello che credeva possibile. Lui e John avevano rincorso un assassino per tutta Londra e poi, infreddoliti, erano corsi a Baker Street per riscaldarsi attorno al fuoco.

Il bagliore delle fiamme risplendeva sul viso di John, dandogli un aspetto romantico e dolce, e Sherlock non poté non allungare le dita per provare ad accarezzargli una guancia. Era mai successo prima? Aveva toccato John in altre situazioni ma mai in maniera così intima.

Il dottore gli sorrise di rimando e si avvicinò a lui lentamente, finché inaspettatamente le loro labbra si incontrarono in maniera piuttosto goffa. Quando si staccarono, il detective si ritrovò a sorridere.

Sentiva che stava per dirlo, a voce alta, in maniera misurata e controllata, senza bisogno di ricamarci sopra. Voleva solo dire "ti amo" e togliersi quel pensiero. Stava cercando il coraggio di dirlo, ma John si allontanò per sedersi sulla sua poltrona, lasciando improvvisamente una sensazione di vuoto, la realtà che gli ricordava che non era accaduto davvero.

Il dottore si lisciò i baffi, come nulla fosse successo e si rivolse allegramente a Sherlock - Crede dovrei tagliarli? -

Sherlock si riprese da quello che aveva immaginato poco prima, ringraziando che la sua mente si fosse fermata prima di elaborare qualcosa di ancora più intimo, che lo avrebbe annientato definitivamente  - In effetti, preferisco i dottori ben rasati -

- Poi, però, non somiglierei troppo all'altro me, quello reale? - chiese John, con tono leggermente più simile all'altro John. Quello meno paziente ma in carne ed ossa.

Sherlock sembrò schiaffeggiato dalla domanda, quel John non aveva mai più ammesso di non esistere da quanto si erano trovati alle cascate Reichenbach.

- Perché ne stiamo parlando? - chiese il detective, ancora frastornato, iniziando a cercare una siringa per rimuovere quello che stava accadendo.

- A Mary non piacciono, credo li taglierò - Continuò impassibile John - Le ho detto che è in cinta? -

Sherlock sbiancò, quando era successo? Non qui, non era possibile, Mary l'aveva quasi eliminata dal Palazzo Mentale, era solo una figura che veniva richiamata ogni tanto, giusto per dare un tocco di realtà.

- Perché ho i baffi? - chiese John ad un tratto, mentre Sherlock iniziava ad essere molto confuso su dove esattamente si trovasse. Era nel suo Palazzo Mentale, ma era come se non fosse più lui quello che decideva cosa doveva accadere. Perché Watson aveva affermato che Mary era in cinta?

- A te non piaccio, con i baffi - constatò il dottore - Era un modo per non fantasticare oltre all'amicizia? Un sistema di protezione? Alla fine ti sei comunque lasciato baciare -

- Smettila immediatamente! – gridò il detective, ma John non sembrò minimamente turbato - E poi, perché ci stiamo dando del tu? -

- Va bene, possiamo continuare a fare finta che questo sia reale e che tu non sia in stato di semi incoscienza, riverso sul divano. Spero non ti stia soffocando nel tuo vomito. Che cose aveva detto la Donna? Il cadavere non sarebbe sexy? Concordo -

- Cosa? - sbottò Sherlock e sentiva che le stanze del suo Palazzo avevano iniziato a tremare, le porte sbattevano rumorosamente e lui non riusciva più a controllare nulla.

- Possiamo anche continuare a fare finta che non provi niente, se non amicizia, per l'altro John. Pessima idea immaginare di baciarmi qui, come farai a tornare nella realtà? Un briciolo di spirito di autoconservazione credevo lo avessi ancora. Forse ce l'hai, non ti ha permesso di dirmi che mi ami -

Lo amava, lo aveva quasi detto.

- Sta vaneggiando, Watson! -

- Non credo. Non vuoi fantasticare su di lui, sull'altro John, perché significherebbe ammettere quello che provi per lui. Sono un po' geloso di Jim vestito da sposa però, devo ammetterlo. O di Irene nuda che appare nei momenti meno opportuni -

Sherlock crollò seduto sulla sua poltrona, sentiva un'emicrania in arrivo e non era più tanto sicuro di dove si sarebbe risvegliato, sul divano o nuovamente in ospedale? Alzò lo sguardo, in tempo per costatare che non era più il 1895. Sembrava il presente, ma con qualcosa di diverso.

Si rivolse nuovamente a John, che aveva abbandonato gli abiti vittoriani per essere in linea con la nuova ambientazione -  John, sembra che ci ragioni da tempo, sul significato di questo luogo -

- Sei tu che ragioni, io sono solo la voce di sostegno. Ma nemmeno qui hai il coraggio di dirmi quello che provi e magari andare oltre a un bacio da adolescenti. O il suggerimento di tagliarmi i baffi era un preludio a quello?  Baci più profondi, forse sì, ma poi ti sei spaventato dei tuoi stessi pensieri. Ed eccoci qui - rispose un John, che sembrava dannatamente più simile a quello vero.

Sherlock si alzò in piedi, passeggiando nervosamente e continuando a passarsi distrattamente una mano nei capelli - Sono solo stanco, per questo le mie sinapsi stanno elaborando questo dialogo insensato -

- Raccontati tutte le balle che vuoi. Nella realtà hai da risolvere un caso che Lestrade ti ha lasciato la settimana scorsa, ma tu hai preferito farti una dose e rientrare in questo scenario. Sei stupito che ne parlo? Non è assurdo, io sono te, sono una parte della tua coscienza, cos'altro dovrei essere? E ora, il tuo prezioso cervello, vuole farti notare che ti stai autodistruggendo, sepolto in questo palazzo mentale. Svegliati, Sherlock! Non sei più felice nemmeno qui! -

Sherlock si fermò in mezzo alla stanza, l'appartamento aveva iniziato a ruotare su se stesso.

- In questa realtà si sta insinuando l'altra - constatò John. - E nella realtà non vedi John da tempo, non suoni da settimane, non mangi, a stento bevi, risolvi pochi casi. Il tuo spirito di autoconservazione ti sta dicendo di saltare sul primo aereo per Boston -

- Non è una soluzione - rispose con un filo di voce.

- E' un nuovo inizio, o tanto vale che ti spari la dose fatale. Sei troppo intelligente per fare questa fine e vuoi davvero dare ragione a Mycroft, ammettendo che non sai reggere sotto la pressione dei sentimenti? Che sei coinvolto? -

- Non voglio - esalò soltanto.

- Che cosa? - rispose John, aspettandosi che Sherlock avesse compreso che morire sarebbe stato inutile.

- Non voglio che John si dimentichi di me -

Il suo John non disse niente, con gli occhi lucidi stava per dichiarare che mai lo avrebbe messo da parte e che mai lo avrebbe dimenticato, ma un'altra persona entrò nella Baker Street del Palazzo Mentale, senza bussare, senza chiedere permesso.

Come nella realtà, era entrata nella sua vita come un tornado d’infelicità e non si era mai scusata di averlo fatto, anzi gli aveva persino sparato - Guardiamo in faccia la realtà, Sherlock. Mio marito, un giorno, sarà impegnato con la scuola di Elisabeth, la recita di fine anno, il corso di danza, le cene con i genitori. Si dimenticherà comunque di te. Quei giorni sono finiti, vai avanti. Non voglio che tu muoia e accadrà se passi il tempo in un trip infinito. Vai a Boston –

- Non è detto che debba per forza andare così – rispose John, dando vita ai pensieri di Sherlock.

Mary rimase algida e si avvicinò al marito – Sherlock, sei talmente confuso che non ti ricordi di quando, nel tuo Palazzo Mentale, siamo andati sulla tomba di Emelia Ricoletti. Tu hai chiesto aiuto e John ti ha abbandonato per andare via con me. Lo sai anche tu che finirà così. E’ già così! –

L'arrivo di Mary nel suo angolo di felicità, lo costrinse a uscire bruscamente dal suo Palazzo Mentale.  

Era seduto sul divano, stremato. Era bianco come uno straccio, respirava a fatica e il battito cardiaco era accelerato. Era visibilmente dimagrito, senza forze e con una sensazione enorme di vuoto. Stava per piangere, ne era certo, era troppo stanco e troppo fatto per mantenere il solito autocontrollo.

Quando finalmente riuscì a calmare i singhiozzi, guardò le sue mani tremanti come se non gli appartenessero e finalmente se ne rese conto. Lui non era quell'essere debole che si piangeva addosso e se la sua testa stava cercando di salvarlo, l'avrebbe ascoltata.

Se non poteva più essere felice nemmeno nel suo mondo immaginario, allora doveva andarsene.

Una vita senza John sarebbe stata vuota ma non vivere più sarebbe stato inutile e la sua mente razionale non poteva concepire lo spreco delle sue capacità, non se avveniva per colpa dei sentimenti. Si rimise con difficoltà in piedi e digitò un sms per Mycroft.

Il gioco si trasferiva a Boston.

****** *****

John aveva visto sporadicamente Sherlock nelle settimane dopo che era uscito dall'ospedale. Neanche a farlo apposta, si erano accavallati una serie d’impegni a cui aveva fatto fronte con difficoltà. Oltre ai consueti appuntamenti casa-clinica, si erano aggiunti una serie d’inconvenienti, uno più assurdo dell'altro. Prima c'era stato un disguido con la sua banca, per cui era corso d'urgenza a parlare con il responsabile della sua filiale; poi era saltata la corrente elettrica ed erano rimasti senza luce ad imprecare contro la società fornitrice, la quale sembrava non credere al guasto; il giorno dopo ancora, gli era stato rubato il cellulare in metropolitana, costringendolo ad una imbarazzante denuncia a Scotland Yard e altre ore perse.

Si sentiva paranoico, ma gli sembrava quasi che non fossero solo mere coincidenze. Aveva subito pensato a Mycroft, ma sembrava eccessivo anche per lui.

Fu così che quando finalmente entrò in Baker Street, sperando in qualche nuovo caso, non poté non restare a bocca aperta dal disordine che occupava il soggiorno. Sembrava che Sherlock avesse preso tutto quello che possedeva e lo avesse sparpagliato per l'appartamento.

- Sherlock, sei da qualche parte? - gridò John.

Sherlock aveva sentito l'arrivo di John già quando aveva aperto la porta d'ingresso, ma aveva ardentemente sperato di essersi sbagliato. Aveva mentalmente contato ogni gradino percorso da John, aveva immaginato ogni granello di polvere che si era alzato mentre sollevava i piedi uno dopo l'altro, aveva visualizzato la mano che si appoggiava morbida alla maniglia e non si era mai mosso da dov'era.

Il detective sospirò, temendo che quel momento prima o dopo sarebbe arrivato e rispose alla domanda di John con più naturalezza possibile  - Sono in camera mia -

Il dottore camminò lungo il corridoio, schivando altre cose buttare a terra, fino ad arrivare alla camera.

Sherlock era di schiena; la camicia, solitamente aderente, sembrava essere diventata larga e anche i pantaloni ricadevano come su un manichino. John si forzò di non iniziare la conversazione sgridandolo per lo stato un cui si trovava e mantenendo un tono calmo, riprese a parlare - Hai deciso di dare via tutte le tue cose? -

- No, sto solo selezionando - rispose il detective, voltandosi. Le occhiaie gli donavano ancora meno che la repentina perdita di peso e John non poté non maledire ogni secondo che non aveva passato con lui da quando era uscito dall'ospedale.

Non riusciva a non stare male e sentirsi in colpa vedendolo così, per non essere stato abbastanza presente e prendersi cura di lui, come aveva promesso a Mycroft. Spesso si era chiesto perché fosse così facile stare lontano da Baker Street; agognava andare da Sherlock e allo stesso tempo sentiva che non era la cosa giusta da fare, come se tradisse Mary ogni volta che vi metteva piede.

Era perché era l'unico luogo in cui si era sempre sentito libero di essere se stesso, senza maschere. Ogni secondo in Baker Street era vissuto intensamente, ogni secondo che passava con il detective, sia che stessero dietro un caso o che battibeccassero sulla necessità di mangiare e dormire.

Il dottore si guardò in giro e notò un maglione appoggiato sullo schienale di una sedia. Non era di certo di Sherlock e a ben guardare pareva proprio suo. Non vedeva quel maglione da tanto tempo, non ricordava nemmeno l'ultima volta che lo aveva indossato. Eppure era abbastanza sicuro di averlo portato via quando aveva traslocato. Forse lo aveva dimenticato nei mesi che era rimasto da Sherlock a meditare se tornare con Mary, prima della riunione di Natale a casa Holmes, prima che fosse costretto a decidere se perdonare la donna che gli aveva mentito ma che portava in grembo sua figlia, prima che Sherlock sparasse a Magnussen per metterlo al sicuro.

Il detective notò lo sguardo di John, rivolto a quel maglione che era rimasto a fargli compagnia mentre John non c'era più - E' tuo, volevo giusto restituirtelo - affermò, senza tradire alcuna emozione. La verità era che voleva portarlo con sé, per avere ancora un pezzo di John, ma così non sarebbe mai stato un nuovo inizio.

- Mi spieghi cosa succede? - chiese John, continuando a guardarsi attorno, stranito da tutto quel caos. Era strano però, come riuscisse a sentirsi sempre a casa in Baker Street, una parte di lui era sempre lì.

- Parto - disse soltanto il detective.

John fu travolto da quell'unica parola composta da cinque lettere. Non riuscì a fare un ragionamento sensato perché la prima cosa che gli venne in mente, fu che il caso Moriarty era ormai risolto e il Governo poteva aver deciso di rimettere in atto l'esilio.

- Cosa? Credevo che tuo fratello avesse sistemato tutto, che ti avessero concesso la grazia o roba simile -

- Non sono obbligato, voglio partire. Vado a Boston - rispose, continuando a piegare i suoi vestiti ed evitando di guardare in direzione di John; se avesse visto lo sguardo spaventato dell'amico all'idea che se ne andasse, non sarebbe riuscito a partire.

John sembrò sollevato dalla risposta - Idiota, mi hai spaventato. Un caso interessante? -

- John, tu guardi ma non osservi. Tutte le mie cose sono sparse per l'appartamento, è evidente che parto per trasferirmi lì -

John pensò che stesse scherzando, troppe volte aveva decantato Londra, la sua città, il cuore pulsante della metropoli che amava. Si aspettava che scoppiasse a ridere, deridendolo per averci creduto. Invece era mortalmente serio.

- Perché? - chiese soltanto il dottore, la mente improvvisamente vuota.

- Ci sono tanti motivi John, uno più valido dell'altro -

- Non mi stai rispondendo - incalzò.

- Che cosa cambia il perché vado via? - rispose, alzando lievemente il tono di voce.

- Cambia che vorrei capire. Cambia che sei il solito. Mi avresti almeno salutato o mi sarebbe arrivato un sms o un biglietto magari? - rispose velenoso.

- Non fare il melodramma – affermò, senza il solito tono strafottente. Ogni accusa di John era come una spina nel petto.

John continuava a scuotere la testa, anche quando stava partendo per l'Europa dell'est era stato più amichevole. Forse perché era un addio, mentre questo non lo era? Era uno dei tanti piani stravaganti dei fratelli Holmes, in cui lui era rimasto in mezzo?

John prese a camminare avanti e indietro, cercando di calmarsi - Perché le cose con te, non sono mai facili? - scandì ogni singola parola, perché davvero era stufo di dover affrontare quel genere di situazioni. Possibile che Sherlock non si rendesse conto che gli spezzava il cuore ogni volta che se ne andava? Era il suo migliore amico, gli doveva tanto e teneva a lui come a nessun altro che aveva incontrato nella sua vita.

- Ormai dovresti esserci abituato - rispose soltanto Sherlock.

- No, non lo sono. Vorrei che almeno per una volta mi dicessi le cose come stanno - La voce di John si stava leggermente incrinando - Dimmi cosa succede, senza preoccuparti di proteggermi. Non sono un piccolo essere indifeso che ha bisogno di essere salvato, dimmi cosa succede, Sherlock! -

- Niente, per una volta non succede niente. Parto e basta - continuò. La voce che cominciava a vacillare, se fosse riuscito ad andarsene senza vedere John sarebbe stato molto più semplice, ma doveva rivederlo un'ultima volta, solo per salutarlo.

- Ridicolo - commentò John, con un sorriso incazzato.

Sherlock ignorò l'astio di John e ricominciò a prendere gli indumenti che aveva intenzione di portare con sé a Boston. Pochi in realtà, preferiva comprarsene di nuovi, i suoi gli ricordavano troppe avventure.

- Lestrade, Molly, la signora Hudson, loro lo sanno? – chiese John, sempre più perplesso.

- No, ma non ho intenzione di fare una festa d'addio. Parto e basta -

- Bravo, egoista fino in fondo -

Sherlock non poté non abbassare lo sguardo; stava deliberatamente provocando John, voleva che fosse incazzato perché così sarebbe stato più facile andarsene. Niente sorrisi colmi di parole non dette, niente strette di mano che mascheravano un impellente bisogno di un ultimo contatto fisico.

Sherlock prese una camicia e la gettò nella valigia, continuando a ignorare lo sguardo di John che gli trapanava la nuca. Il dottore fece un passo in direzione di Sherlock, ma lui non si mosse, finché John non lo prese per una spalla, costringendolo a girarsi.

- Sherlock non... – iniziò, ma si perse negli occhi cristallini del detective. Ma sentì che doveva fare qualcosa, non poteva perderlo ancora.

- John, lascia stare – lo interruppe Sherlock.

- Non andartene, non posso sopportare tutto questo un'altra volta - Si ritrovò a pensare al salto dal tetto e ai due anni in cui non aveva davvero vissuto, finché Sherlock non era tornato, per poi vederlo portato in carcere e poi volare via, anche se solo per quattro minuti. Perché faceva così male e perché Sherlock deliberatamente gli infliggeva un altro dolore?

Sherlock gli rivolse lo sguardo che gli riservava ogni volta che John non lo vedeva, un misto di adorazione e tristezza. Ma sta volta John lo stava fissando dritto negli occhi.

- Tu non vuoi partire, non sei felice. Non sarai felice lontano da tutti noi - fece John.

- John, fidati di me, devo farlo -

John arretrò, schiaffeggiato - Sapevo che c'era qualcosa, non lo fai di tua spontanea volontà -

Sherlock chiuse gli occhi e poté sentire il cuore che pulsava più velocemente e il respiro che si faceva irregolare "A questo punto diglielo" fece l'altro John "Non ti lascerà mai in pace, non capisce che ogni volta che fa così è come se ti pugnalasse dritto nel petto. Che ogni segno d'affetto seguito da 'non siamo una coppia', 'vedrò se sono libero', ti spezzano il cuore. E' arrivato il momento".

- Sherlock - riprovò John - Dimmi cosa succede, risolveremo la situazione insieme -

"Insieme", pensò Sherlock, era proprio questo il problema - Non si può -

- Perché? - incalzò John.

- Perché ti amo - esalò soltanto il detective e quasi gli venne da vomitare ad averlo detto ad alta voce.

John non disse niente per almeno un minuto, rimase a fissarlo, non capendo se fosse serio ma sapendo in un remoto angolo della sua testa, che forse lo aveva sospettato da molto tempo e non aveva mai voluto ammetterlo.

Allungò nuovamente una mano ma Sherlock si scansò - Mi dispiace – aggiunse il detective e a John venne voglia di piangere, perché era assurdo che Sherlock si scusasse per quello che aveva detto.

- Sherlock, non so davvero cosa dire – fece John, rendendosi conto di quanto fossero orribili quelle parole.

- Non occorre, va bene così – rispose lui, riprendendo a fare la valigia e cercando di non pensare a quello che era appena accaduto; lo avrebbe abbondantemente affrontato appena fosse rimasto da solo. Oppure lo avrebbe gettato assieme a tutti i momenti che voleva dimenticare della sua vita.

- Vuoi una mano? - chiese John, che ormai parlava senza rendersi conto di quello che stava dicendo.

- Preferirei di no - rispose soltanto, dandogli nuovamente la schiena per tuffarsi nell'armadio.

John rimase immobile a fissare Sherlock che prendeva dei vestiti e li metteva in valigia, quasi meccanicamente. Perché se Sherlock si fosse fermato a riflettere su quello che era appena successo, le gambe gli avrebbero ceduto.

Dopo qualche minuto di stallo, il cellulare di John squillò e il dottore decise di allontanarsi dalla camera, appena vide il nome di Mary sul display.

Sherlock intanto, continuava a fare il vuoto nella testa, accingendosi a camminare per un corridoio del Palazzo Mentale, chiudendo tutte le porte che riguardavano John: c'era quella in cui Sherlock gridava di avere soltanto un amico, un'altra in cui John lo proteggeva da un cecchino, un'ultima in cui lo abbracciava stretto, più a lungo di quanto fosse veramente accaduto al matrimonio.

Chiuse l'ultima porta, quella che conteneva il "Ti amo" che gli era appena stato strappato e la sbatté con forza.

John ritornò dal soggiorno, a passo incerto - Io dovrei andare – affermò soltanto, impreparato alla rivelazione di Sherlock e incapace di reagire.

- Non annoiarti in mia assenza - rispose soltanto il detective.

John spostò ancora il peso da un piede all'altro ma poi si arrese all'incapacità di formulare un pensiero coerente - Sarai sempre il mio migliore amico, Sherlock e mi mancherai - disse soltanto, prima di voltarsi e andare.

Sherlock ricacciò in gola ogni frase per trattenerlo ancora lì e si sedette sul letto, le valigie erano quasi pronte.


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Angolo autrice

Il precedente capitolo aveva il itolo di una famosa canzone dei Tears for fears, anche colonna sonora di Donnie Darko. Per questo secondo capitolo ho ripreso una strofa del ritornello di Tripping di Robbie Williams.

Grazie a tutti per essere arrivati fino a qui!

   
 
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