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Autore: Blablia87    21/05/2016    7 recensioni
Di una panchina, una notte di pioggia e due uomini.
Genere: Malinconico, Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Mary Morstan, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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A voi, ragazze. 

 
Gli amici sono quelli che ti aiutano a rialzarti, quando le altre persone neanche sapevano che fossi caduto.
(Anonimo)







Sherlock stringe la sciarpa con più forza attorno al collo e prende posto su la solita panchina, ormai familiare.
 
La luce del lampione dietro di lui cerca di raggiungerlo, ma il detective si accomoda in modo da nascondersi al chiarore, un’ombra scura celata tra le altre di una notte londinese qualsiasi.
 
Alza quindi gli occhi su la casa difronte a sé, portando la propria attenzione al secondo piano.
 
Una sagoma, indistinta, cammina dietro le tende chiuse, lenta.
Scompare e compare ad intervalli regolari, e Sherlock non ha bisogno di indizi per sapere che si tratta di John, con in braccio sua figlia.
Saprebbe riconoscere l’andatura del medico anche in mezzo ad una folla, da quel preciso modo che ha di ondeggiare leggermente, cosa che adesso sta facendo in modo ancor più accentuato, legando ai propri passi una lieve ninna nanna per la piccola.
 
“Dormi”, lo immagina dirle dolcemente, gli occhi stanchi ma sorriso sulle labbra.
 
Lo fa ogni sera, John.
Passa davanti a quella finestra, cullandosi dai pensieri insieme a lei.
Sherlock non ha mai visto Mary, dietro ai vetri appena aranciati della camera.
 
Solo John.
Con la sua insonnia, i suoi dubbi, ed il suo amore infinito per la creatura che stringe tra le braccia, quasi aggrappandosi alla sua presenza per giustificare le propria.
 
La luce si spenge, la casa piomba nel buio.
Sherlock stringe nuovamente la sciarpa, con mani stanche, mentre le prime gocce di pioggia bagnano il terreno davanti a lui.
Si alza, affondando le dita nelle tasche del cappotto, in cerca di un po’ di tepore.
Niente guanti. Li ha scordati ancora una volta.
Muove qualche passo verso l’abitazione, quasi senza pensarci.
 
“Ciao John. Sono passato solo a vedere come va’. Ah, è davvero così tardi? Non me ne ero accorto…”
 
Suona ridicolo anche solo nella sua mente, e immaginare quanto sciocco potrebbe apparire nel farsi scappare quelle parole davanti all’amico, attraverso la gola in fiamme e la bocca asciutta, lo fa desistere ancora una volta.
 
Si volta, diretto alla strada principale, mentre il suono della pioggia – adesso forte - diviene assordante, offrendogli una scusa per annegare in quel frastuono di acqua ed asfalto i propri pensieri.
 
China appena la testa, sentendo le prime gocce riuscire a farsi strada attraverso la lana della sciarpa, piccole stilettate fredde contro il calore del proprio corpo.
Registra a malapena l’informazione: deve avere un po’ di febbre.
 
Sta iniziando a muovere i primi passi verso casa quando una variabile inaspettata lo inchioda dove si trova, respiro spezzato e bocca socchiusa.
 
Il portoncino si è aperto, dietro di lui.
 
Sherlock fa un passo in più verso l’abitazione, allontanandosi dalla luce, e non ha il coraggio di voltarsi.
Chiude gli occhi, ascoltando John attraversare la pioggia.
 
Non deve avere un ombrello con sé, riflette il detective concentrandosi sul suono delle gocce su l’altro. È  dolce, non stanno rimbalzando su una tela tirata, ma scendendo su un uomo duttile. Sfumato come il rumore dei suoi passi contro il terreno.
 
Sherlock muove appena la testa nella sua direzione, per accertarsi che non lo abbia visto.
 
John non lo sta guardando.
Ha preso posto sulla panchina sulla quale, fino a poco prima, si trovava anche lui, ma nel punto illuminato dal lampione.
Al detective viene quasi da ridere, mentre sente qualcosa dolore al centro del petto.
 
È sempre stato così, tra loro: le due facce di una stessa medaglia di vita e scelte.
Luce ed ombra. Diversi. Opposti. Complementari.
 
 
Per qualche secondo Sherlock resta immobile.
Lo studia da lontano, osservando quanto stanco appaia ora, senza il filtro di una tenda e sua figlia tra le braccia.
Sta guardando davanti a sé, John. Osserva l’acqua adattarsi alle discrepanze dell’asfalto, docile.
E lascia che la pioggia gli impregni viso e vestiti.
 
Sherlock si rende conto di essersi portato sotto la luce del lampione solo quando sente gli occhi di John e la sua confusione posarsi su di lui.
 
Per un attimo rimangono così, a fissarsi in silenzio, due gocce che cercano di adattarsi ad un terreno sul quale non avrebbero creduto di poter mai cadere.
 
Poi, con passi lenti e malfermi - tornando nell’ombra - Sherlock lo supera, andando a sedersi accanto a lui, nel lato buio di quella panchina che ora sembra l’unica cosa esistente su una luna di parole perse.
 
Vicini, in silenzio, guardano entrambi l’abitazione, ed agli occhi della donna affacciata oltre i vetri bui e opachi dell’ultimo piano, John appare solo.
 
Il medico china la testa, nascondendo il viso oltre la coltre dei propri capelli, e vorrebbe domandare all’altro cosa faccia davanti a casa sua, sotto la pioggia.
 
La verità, però, è che non gli interessa.
 
Gli importa solo che siano lì, e per un attimo i contorni di ciò che li circonda sfumano davanti ai suoi occhi appannati.
 
“Non dici niente?” Sussurra, muovendo appena le labbra. “Non è da te.” Aggiunge, cercando di nascondere il tremore della voce in una venatura ironica.
 
Sherlock resta in silenzio, ascoltandosi vibrare al suono della voce dell’altro.
 
“Sherlock.” Lo chiama allora John, addolcendo l’espressione del viso, in modo che l’altro possa vederlo.
 
“Mi dispiace.” È l’unica cosa che riesce a dire il detective, ascoltando le sue parole cadere al suolo e su John, che sembra aver improvvisamente freddo, nonostante il pesante giaccone.
 
“Non sarei dovuto venire. È stato un caso.” Aggiunge, sentendosi improvvisamente scoperto. Vulnerabile.
 
“Ti sei mai reso conto che tutta la nostra vita è stata regolata dal “caso”?” Domanda John, di colpo triste.
 
“Sì.” Acconsente Sherlock, ascoltando l’eco della voce del fratello ripetergli che no, le coincidenze non esistono.
 
“Perché sei qui?” Domanda il medico, ma in cambio ottiene solo che Sherlock si alzi e si allontani di un passo dalla panchina.
 
“Io sono qui perché l’insonnia è tornata. I brutti sogni, sono tornati. E perché mi manchi.” Aggiunge allora, nascondendo il viso alla luce.
 
“Vengo qui ogni sera, e fingo che siamo ancora su quella panchina, davanti a Buckingham Palace. Vengo a finire quel discorso.” Termina, e sente i polmoni andare a fuoco ad ogni respiro, le parole corrodere le labbra.
 
“Cercavo di ricordare perché non fossi a casa.” Gli concede Sherlock, rimanendo in piedi, immobile.
“Un motivo.”
 
Restano in silenzio, mentre la pioggia alza dal terreno un odore pungente, e Sherlock si sente improvvisamente perso.
 
“È più forte di me.” Si fa scivolare fuori dalle labbra.
 
John annuisce appena, un movimento impercettibile.
 
“Per me non è finita.” Sussurra il detective, gli argini del propria anima crepati ormai in modo irreparabile.
“Vorrei solo che… che tu riuscissi a vederlo. A vedere sul mio viso che per me non è finita.”
La voce trema appena, come la sola, piccola lacrima solitaria che sente ballare tra le ciglia.
 
“Lo vedo. Lo vedo ogni volta.” Gli risponde John, portandosi una mano tra i capelli, con un movimento rabbioso, poi stanco.
“È per questo che non riesco più a passare a Baker Street.”
 
“Perché non abbiamo fatto tutto questo prima, Sherlock? Provare a… Parlarne.” Aggiunge dopo qualche secondo, improvvisamente irritato.
“Perché adesso?”
 
“Perché pensavamo che il “io e te contro il resto del mondo” sarebbe stato per sempre. Che sarebbe bastato.” Risponde Sherlock, di nuovo padrone dei propri pensieri e della propria voce.
 
John annuisce nella pioggia, improvvisamente incapace di parlare, la gola stretta in una morsa dolorosa.
 
“Mi dispiace. Non sarei dovuto venire.”
Sherlock stringe la sciarpa, di nuovo, e si sorprende di trovarla molle tra le dita.
Tutto si sta sfaldando. Lui, lo sta facendo.
 
“Ho paura che dimenticherai. Com’era. Che io dimenticherò.”
John lo dice con una disperazione che Sherlock non ha mai sentito intaccare la sua voce, prima.
 
“Impossibile.” Il detective si muove in avanti. Il bisogno di andarsene sta diventando più forte di quello di rimanere, ed una fioca luce illumina nuovamente la finestra al secondo piano della casa.
 
“Sono felice che tu abbia trovato qualcuno che potesse darti ciò che io non avrei potuto.”
La voce si è fatta di vetro, e si è incrinata fino a ferire le corde vocali.
 
John guarda la sagoma della moglie muoversi attraverso la stanza e scuote la testa, increspando le labbra in un sorriso amaro.
 
“Ciò che non hai voluto.” Lo corregge, alzandosi a sua volta.
 “Su quel tetto hai scelto per tutti e due.”
 
Sherlock si gira a guardarlo, e non riesce a capire cosa gli agiti i lineamenti.
Non lo riconosce, e la cosa lo terrorizza.
 
“Se tu mi avessi chiesto di scappare… Di fuggire con te…” Comincia John, continuando a tenere sott’occhio la finestra della camera da letto della figlia. “Lo avrei fatto. Lo sai, vero?”
 
Sherlock sorride nel buio, suo malgrado.
 
“Devo andare.” John si volta verso di lui, e adesso è chiaro anche alla donna che si è fermata ad osservarlo nuovamente oltre il vetro, che non sia solo.
 
“Certo.” Sherlock alza il bavero del cappotto e inizia a muoversi.
 
“Ti vedo, lo sai?” Gli grida dietro John, quando è quasi oltre l’angolo della strada. “Ogni notte, su questa panchina.” Aggiunge, indicando con foga dietro di sé.
Non gli interessa che Mary possa sentirlo, l’importante è che lo faccia Sherlock.
Che ascolti.
Che capisca.
 
“Lo so.” Gli risponde il detective, voltandosi solo per un attimo, ed il medico sa che è vero.
 
“Per quanto pensi di poter continuare così?” Grida ancora, con la pioggia a solcargli il viso e i pugni chiusi. “Quanto, Sherlock?”
 
“E tu?” Risponde il detective, prima di sentire la finestra schiudersi.
 
“John!” La voce di Mary è assordante, nella sua completa estraneità a quel momento.
Cade in strada, una granata di preoccupazione ed irritazione. Finisce tra loro, ferendoli entrambi.
 
John alza la testa verso di lei, sorpreso.
 
Sherlock scompare oltre l’ultima strada, trascinando con sé i brandelli di quello che non è stato in grado di dire, ancora una volta.

 
 
 
 
Angolo dell’autrice:
 
Questa OS era nata come “prova”, come tentativo per valutare se fossi ancora in grado di scrivere su di loro, su John e Sherlock, mettendo da parte i pensieri che da un paio di giorni mi hanno ingombrato la testa e bloccato la mano.
 
Dico la verità: senza l’incoraggiamento di adlerlock, probabilmente non l’avrei pubblicata.
 
Ma il suo entusiasmo dopo averla letta è stato davvero una boccata di ossigeno.
E, quindi, eccola qui. ^_^
 
La storia, per onor di cronaca, ha anche un finale “aggiuntivo”, che la rende un po’ “meno triste”.
 
Ve lo allego, nel caso qualcuno fosse rimasto davvero troppo amareggiato da quello descritto qui sopra.
 
Come sempre grazie a tutti per aver letto fin qui.
 
Un abbraccio forte.
B.
 
 
 
 
 
 
 
Finale aggiuntivo:
 
 
Sherlock si porta il violino alla spalla e chiude gli occhi.
Come ogni notte inizia a suonare una nenia.
Una buonanotte a sé, e a chi non può più sentirla.
 
Ondeggia come una fiamma dietro le tende tirate, un specchio rotto che riflette i gesti che sa qualcun altro - dall’altra parte di Londra - star compiendo, ancora una notte.
 
Riapre gli occhi solo dopo molto tempo, i muscoli indolenziti ed il volto tirato.
Qualcosa, oltre la stoffa leggera, in strada, attira la sua attenzione: una sagoma, immobile tra la luce del lampione davanti al portone ed il buio subito vicino.
 
Il violino gli scivola tra le mani, e non si preoccupa di sentirlo cadere al suolo, un frastuono di legno vuoto e schegge.
 
Quando, solo pochi secondi dopo, apre il portoncino con fin troppa forza, John è già del tutto sotto il fascio di luce.
 
“Perché sei qui?” Domanda il detective, e quasi non riesce ad ascoltare la propria voce oltre il muro del proprio cuore in subbuglio.
 
“Cercavo di ricordare perché non fossi a casa.” Gli risponde il medico, con un sorriso morbido e lo sguardo triste.
 
“E…?” Lo incalza Sherlock, incerto.
 
 
 
“E… Speravo che vedendo la mia faccia potessi capire che per me non è finita.”
   
 
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