Serie TV > Criminal Minds
Ricorda la storia  |      
Autore: Mikky    21/05/2016    1 recensioni
Reid viene preso in ostaggio da un S.I. deciso a ucciderlo e gli viene data la possibilità di fare un ultima telefonata.
Genere: Drammatico, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Spencer Reid
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'S&M'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Marry me/Kill him

Un anno. Per un intero anno riuscimmo a non far capire agli altri che il nostro rapporto era mutato, che non eravamo più semplici amici, bensì altro.
Ogni posto isolato, come l’ascensore, un ufficio dismesso o l’archivio, diventava un luogo dove poter trovare un secondo per noi durante la giornata, per poterci sfiorare e dirci senza filtri quello che pensavamo veramente. Poi c’era la notte, ci trovavamo nel mio appartamento se eravamo in città, se, invece, eravamo a seguire un caso sgattaiolavamo nella stanza dell’altro e stavamo insieme, alcune volte anche solo per rimanere abbracciati.
In mezzo a quel mare di male avevamo bisogno di un’ancora di salvezza e lo eravamo l’uno per l’altra.
Ben presto divenimmo troppo imprudenti e così ci scoprirono. Quel giorno dovevamo andare insieme a un convegno sulla storia della fisiognomia, così uscimmo dall’ufficio e prendemmo la sua macchina, più comoda e spaziosa rispetto alla mia piccola monovolume.
Dopo un caso pesante come quello da cui eravamo tornati, che ci aveva impedito di stare insieme anche solo per un secondo, quel parcheggio silenzioso e scuro sembrò fin troppo invitante. Dovevano essere solo alcuni baci e qualche carezza, ma ben presto mi trovai sopra di lui, con le sue mani sotto la maglia, quasi pronto a togliermela. Fu Derek a trovarci così, con la cartella di un nuovo in caso in mano.
La cosa trapelò fin troppo velocemente, portando un po’ d’imbarazzo nella squadra, visto che nessuno se l’era aspettato. Eravamo una coppia strana, assurda, troppo simili, ma allo stesso tempo troppo diversi per stare insieme.
Ma tutti, compresi noi, ci abituammo ben presto a questa nuova situazione. Certamente non volevamo essere troppo sfacciati, quindi ci limitavamo, non c’erano effusioni o contati troppo lunghi… ma un ultimo bacio prima di vederlo andare a combattere il crimine sul campo era di dovere.
Prima di andare via, prima di mettersi quello schifo di giubbotto che, certo, gli salvava la vita ma lo rendeva troppo lontano da me, mi dava un bacio delicato sulla fronte promettendomi che sarebbe tornato, prima di darmene uno sulle labbra.
Lui tornava sempre.
Eppure quel giorno non lo stava facendo.
Osservavo dallo schermo del computer di Garcia su cui si vedeva la casa che era fuori dal camioncino dell’F.B.I. in cui eravamo rinchiuse, cercavo una sola ombra che mi dicesse che stesse bene. Che cosa stupida visto che potevo sentire in diretta quello che stava dicendo. Ma era proprio quello che udivo che mi preoccupavo: era agitato, balbettava troppo o prendeva respiri troppo profondi.
“Oh, Spency, stai calmo” sussurrai, sentendo l’ansia attanagliarmi. Cominciai a torcermi le mani.
Era lì dentro per convincere l’S.I. a consegnarsi premendo sul fatto che la madre fosse morta per cause naturali e non per un complotto di purificazione da parte dei medici...chi meglio di lui lo poteva fare?
Gracia si girò verso di me, appoggiando la sua mano sul mio braccio, con il pollice disegno dei piccoli cerchi, cercando di tranquillizzarmi. Le sorrisi, tornando a osservare lo schermo.
“Ha ragione, dottor Reid” disse lentamente l’S.I. e subito sentii il mio cuore meno pesante. Ma mi sembrò di impiombare nell’oscurità quando il retro del furgoncino si riempì del suono di una sicura di una pistola che veniva tolta. “Io non ho potuto salutare mia madre, lei ha qualcuno da salutare, dottore, prima di morire”.
“Signor…”.
“No?” chiese il killer. Mi alzai di colpo, facendo cadere la sedia, seguita da Garcia. “E allora…”.
“Aspetta!” urlò Spencer “Ce l’ho, ce l’ho! Ma dobbiamo fare un accordo”.
Silenzio. L’S.I. doveva aver fatto un cenno, perché sentii Spencer prendere fiato. Chiudendo gli occhi potevo vedere il suo volto tirato e i suoi occhi chiusi, mentre nel suo cervello c’è il conflitto che riguarda l’arrendersi di fronte alla morte.
Conoscevo ogni suo gesto, ogni suo respiro e sospiro, e il significato che avevano. Penso fosse una normale conseguenza delle notti passate assieme, di quell’intimità che avevamo costruito lentamente, passo dopo passo.
“Promettimi che aspetterai che riattacchi prima di sparare” sussurrò Spnecer “Non voglio che senta”.
“Vedremo”.
Sentimmo un fruscio e il telefono fisso di Garcia cominciò a suonare. Guardai l’apparecchio come se potesse mordermi, come se potesse saltarmi addosso e finirmi da un momento all’altro. Feci persino un passo indietro.
La porta del furgoncino si aprì e JJ entrò, mentre Hotchner rimase fuori con la solita espressione severa. La bionda mi si avvicinò “Sai che cosa devi fare”.
“Essere coraggiosa per lui” sussurrai.
“Come se nulla fosse, come se non sapessi. Ce la farai” mi accarezzò la schiena “Pronta?”.
Annuii e lei premette il pulsante, mettendo in vivavoce. Ma io rimasi muta, fu Garcia a rispondere per me. Aveva gli occhi lucidi, ma cercò di sorridere “Luce dei miei occhi, stai cercando me?”.
“No, mi dispiace Garcia. Sto cercando Minerva”.
Presi fiato “Ehi, Spencer”.
“Ciao Minnie”. Sembrava tranquillo, come se quella fosse una chiamata normale, come quando stava tornando a casa o quando mi avvisava che stava venendo da me o... Come poteva essere così sereno?
“Avete sentito tutto vero?”.
Sentii le lacrime salirmi fino agli occhi, così dovetti alzare lo sguardo osservando un angolo del soffito, cercando di riprendere il controllo. “Lavoriamo per l’F.B.I., la privacy è un concetto molto astratto”.
Spencer ridacchiò, ma poi sospirò. Era rassegnato. “Devi farmi un piacere”.
“Devo chiamare tua mamma?”.
“No, Garcia deve avere ancora il messaggio che ho registrato quando c’è stato il caso dell’antrace”.
L’hacker annuì. “Sì, dice che ce l’ha.”
“Ma non è quello che ti dovevo chiedere. Devi prendere una cosa dalla tasca della mia giacca”.
Feci un passo indietro, scuotendo la testa. “No, no e poi no! Spenc, non puoi farmi questo, non puoi chiedermelo adesso”.
“Come sai che ti devo chiedere qualcosa?”.
Una risata nervosa mi uscì dalle labbra, ma proprio mentre ridevo le prime lacrime scivolarono sulle guancie. Sembravano quasi bruciare. “Sarai anche un plurilaureato, ma su alcune cose sei veramente un incapace”.
“Quando l’hai trovato?”.
“Sei mesi fa, dopo Indianapolis”.
“Oh…”.
Entrambi ci ricordavamo quella notte.
Avevamo visto la morte, l’avevamo sentita su di noi, cruenta e crudele. Tornati a casa ci siamo trovati a voler vivere, a ricordarci cosa avevamo e delle infinite possibilità che avevamo di fronte a noi. Passammo la notte ad amarci disperatamente, più e più volte, sperando che così quella orribile sensazione passasse, finche non ci addormentammo. Quando mi ero svegliata felice e stanca, avevo iniziato a sistemare gli abiti sparsi per il locale, cercando di dare una parvenza di ordine. Avevo preso la sua giacca, decisa a sistemarla sull’attaccapanni, quando sentii un peso strano, cercai nelle tasche ed ecco apparire quel cofanetto di velluto blu.
Lo avevo aperto e avevo capito. Non gli avevo chiesto nulla, non mi sembrava giusto. Aveva bisogno dei suoi tempi per ammettere quello che provava e non volevo forzarlo in nessun modo, così avevo aspettato. Ma ora trovavo assurdo che il destino avesse scelto proprio quel momento per quella domanda.
“Prendilo”.
“Io…”.
“Ti prego”.
Asciugai le lacrime e mi piegai a raccogliere la sua giacca, che era caduta con la mia sedia. Cercai nella tasca interna e lo trovai subito. “Ce l’ho”.
“Aprilo”.
Obbedii e il piccolo solitario cominciò a brillare, illuminato dalla luce dei monitor. Mi salì un nodo alla gola, mentre lo sentivo prendere fiato. “Lo avevo immaginato diverso, meno orecchie ad ascoltare e una bella serata…”.
L’S.I. ridacchiò “Che le devo dire, dottore? Doveva farlo molto tempo fa. Ma adesso si muova”.
“Lo so, non ha nemmeno senso che faccia un discorso elaborato visto la situazione” disse lui. Un altro respiro più profondo: aveva bisogno di altro coraggio. “Minerva…”.
“Spencer, non sei obbligato”.
“Ho bisogno di saperlo prima di morire”.
“Non dire così…”.
“E’ la realtà”.
JJ mi cinse le spalle, mentre io esplodevo in lacrime. Come potevo rispondere a quella domanda se lui era convito di morire? Come potevo giurarli amore eterno se fra pochi minuti sarei rimasta sola?
“Non piangere” mi consolò dolcemente “Vorrei che sorridessi”.
“Lo sto facendo” mentii.
“So qual è il suono del tuo sorriso”.
Mi asciugai gli occhi con forza e, aggrappandomi al ricordo dell’ultima sera a casa, mentre gli insegnavo a giocare a birra pong, sorrisi “Dimmi”.
“Minnie, mi vuoi sposare?”.
Sentii Garcia singhiozzare, mentre JJ mi strinse a sè. Non avevo la forza di parlare, mi coprii la bocca con una mano. Una tempesta di emozioni cominciò a muoversi dentro di me, portandomi a chiedere se fossi pronta a un tale passo, se ci fosse o meno un modo giusto per rispondere oppure no in quel momento e cosa lui si aspettasse...
“Tempo scaduto…” disse l’S.I..
“Sì” urlai “sì, sì, sì e sì. Spencer lo voglio”.
La telefonata si concluse. Sentimmo dei fruscii, si stava togliendo gli auricolari. “Ti amo” sussurrò contro il microfono, prima di staccarlo.
Sfiorai il schermo su cui appariva la casa in cui era rinchiuso. Morgan si era posizionato con la SWAT sulla porta, pronto a fare irruzione, e poi arrivò il colpo.
Sussultai e rimasi immobile, osservando gli agenti entrare, ma allo stesso tempo non li vedevo in modo chiaro. Ci furono altri colpi. Sentii le mani di JJ che cercarono di afferrarmi meglio e bloccarmi, ma le sfuggii e corsi fuori.
La SWAT stava uscendo dalla casa, togliendosi i caschi e i giubbotti, mentre i paramedici entravano con tutte le apparecchiature per la rianimazione e il primo soccorso. Provai a entrare, ma questa volta mi intercettò Hotch, che mi prese al volo.
Piansi, urlai e scalciai, senza sentire quello che stava cercando di dirmi. Mi fermai solo quando vidi uscire una lettiga e Morgan al fianco, che non mi permetteva di vedere chi fosse il ferito. Mi zittii e riuscii a sentire le sue parole. “Dai, ragazzino, respira, continua a farlo. Resisti”.
Derek e il ferito salirono sull’ambulanza e, con le porte che si chiusero, mi risvegliai dal mio torpore “Dovrei andare io…” sussurrai.
“Lui non vuole…Non vuole che lo veda in questo stato”.
“Ma noi ci sposeremmo”.
“Lo so, Minnie”.
“Non voglio che muoia da solo”.


Immaginate di aver finalmente trovato la persona con cui volete passare la vita.
Immaginate di poter toccare il cielo con un dito ogni volta che questa vi sorrida o vi tocchi.
Immaginate che lei sia l’unica ragione per cui vi alzate la mattina e il sorriso quando vi addormentate.
Immaginate, adesso, che qualcuno ve la tolga, ve la porti via, che decida in modo assolutamente casuale che tutto deve finire.
Non vi sentireste persi, abbandonati, a un passo da un baratro senza uscita? Non vi sentireste come se vi avessero tolto una parte fondamentale, come se non poteste più respirare?
Be’, io mi sento proprio così. Per sei ore sono rimasta fuori dalla sala operatoria ad aspettare, con uno spettro oscuro che alleggiava sopra di me, pronto a ghermirmi. Sembrava quasi che qualcuno cercasse di strapparmi via il cuore.
Quando il dottore ci aveva spiegato cosa era successo, dove si trovava il proiettile e cosa avrebbe fatto, mi era mancata la terra sotto i piedi, mi era sembrato che un altro proiettile mi entrasse nel cuore, nello stesso punto. Ma mi ero fatta forza e avevo ascoltato. Dovevo sapere.
Avevo qualche conoscenza di medicina base grazie a mia madre e riuscii a capire quanto fosse pericolosa l’operazione. Così pregai, pregai finche Spencer non uscì.
Era pallido, quasi cadaverico. e lo portarono nella sua camera, dove sarebbe sempre stato controllato dai medici e dagli infermieri.
“Qualcuno rimarrà con lui la notte?” aveva chiesto il chirurgo e mi ero fatta subito avanti, entrando nella stanza prima che mi desse qualsiasi indicazione. Ero come in trance. Avevo bisogno di sentire il suo battito cardiaco, di sentirlo ancora vivo.
Sentii Morgan parlare sottovoce “Le ha chiesto di sposarlo prima di essere colpito”.
Questo sembrò abbastanza e nessuno provò ad allontanarmi da quel letto.
Sono qui da tre giorni, aspettando che apra gli occhi. Non mi sono mai allontanata, se non per i miei bisogni fisiologici o sotto la pressione della squadra, ma non mi assentavo mai più di qualche minuto.
Volevo essere con lui qualsiasi cosa succedesse.
E’ sera e mi sto lentamente addormentando. Ho appoggiato la testa su un cuscino e sotto ci ho messo un braccio per essere più comoda, con i polpastrelli dell’altra mano seguo le vene del suo braccio, fino a raggiungere il polso e poi le dita.
Delle farfalle cominciano a muoversi dentro la mia pancia al ricordo di quelle stesse dita che mi sfiorano, che mi accarezzano dolcemente. Mi sembra un’eternità, ma in verità è passata solo una settimana da quando abbiamo fatto per l’ultima volta l’amore e quella notte, ridendo e scherzando, avevamo parlato di figli. Lui serio mi aveva comunicato il suo terrore per la trasmissione genetica della schizofrenia, mentre io, cercando di farlo sorridere, avevo proposto di avere quindici figli e tutti dai nomi improponibili.
Ora, con la proposta, quel discorso andava affrontato molto bene...
“Posso avere voce in capitolo sui nomi ora che ci sposiamo?”.
Alzo lo sguardo e incontro gli occhi semichiusi di Spencer, che mi sorride. Esplodo e mi metto a piangere come una bambina.
“Ti prego, non piangere”. Mi fa segno di avvicinarmi, così salgo sul letto vicino a lui. Con fatica riesce a sollevare la mano e accarezzarmi la guancia.
Chiudo gli occhi, beandomi di quel contatto. Avevo sperato di risentire quel tocco sulla pelle, lo avevo sognato e ora mi sembra quasi impossibile.
Esausto abbandona la mano, che cadde sulle mie gambe, dove tengo le mie mani. Il suo sguardo va sudi loro e noto immediatamente la sua espressione mutare. “L’anello?”.
Cerco nella tasca del maglione e gli passo il cofanetto. “Non mi sembrava giusto. Almeno questo lo volevo fare bene”.
Spencer prende la scatola e la rigira tra le mani, per poi aprirla, osservando con attenzione il gioiello. “La commessa ha riso quando gli ho detto che taglia avevi. Diceva che era adatto a una bambina”.
“Ho le dita da bambina” gli faccio notare.
Sembra quasi non ascoltarmi, continua con il suo discorso facendo collegamenti che mi sono sconosciuti. “Sai tra le coppie che nascono online solo il 6% fallisce, contro il 7,6% delle coppie che si conoscono in modo tradizionale?”.
Scoppio a ridere, veramente divertita “Noi non ci siamo conosciuti in modo così tradizionale alla fine”.
Mi prende la mano con delicatezza e io mi zittisco all’improvviso “Io voglio essere nel 92,4% con te”. Con delicatezza mi infila l’anello nel dito.
Mi avvicino e gli poso un bacio delicato sulle labbra, poi mi sistemo vicino a lui. La sua mano dolcemente e a fatica mi accarezza la spalla.
Sono di nuovo a casa.
  
Leggi le 1 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Criminal Minds / Vai alla pagina dell'autore: Mikky