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Autore: Esteliel    22/05/2016    0 recensioni
L'illusione della giustizia può essere un'arma a doppio taglio, che anche dopo molti anni torna a perseguitare i sogni di chi, di proposito, ha deciso di voltarle le spalle. Ed è quando l'illusione viene allo scoperto che si presenta anche un atroce dubbio: la giustizia da che parte stava davvero?
Genere: Azione, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La notte non aveva portato né consigli né novità incoraggianti. Il giorno successivo alla triplice evasione cominciò, se possibile, in modo ancora più frenetico del precedente. Il vento freddo dei primi giorni di marzo che si insinuava attraverso le finestre aperte del grattacielo di Scotland Yard non era sufficiente a far desistere le decine di giornalisti che ormai si davano il cambio davanti ai portoni al pianterreno. Pochi reporter insistevano ancora a chiedere notizie alle guardie spossate, ma nessuno di loro sembrava disposto a cedere. Se ne stavano appostati a poca distanza dalle porte sbarrate, insieme ai rispettivi cameraman e furgoni di servizio. Di tanto in tanto, quando un commissario usciva di soppiatto dalla sede della polizia, un nugolo di giornalisti lo assaliva, accompagnandolo fino alla macchina d’ordinanza e lasciandolo in pace solo quando il malcapitato partiva a sirene spiegate. Sorte peggiore fu riservata al portavoce della polizia, che fu dato in pasto alle televisioni allo scoccare delle otto. La donna, fasciata in un severo tailleur rosso cupo, si fece largo tra i microfoni tesi con aria professionale, alzando le mani per invitare i giornalisti a mantenere la calma.
«Signori, per favore» esordì, sforzandosi di alzare il tono di voce per farsi udire al di sopra del coro di voci. «I nostri agenti sono in servizio, dal primo all’ultimo. Invitiamo tutti i cittadini a stare tranquilli e ad evitare i luoghi affollati, come centri commerciali, luoghi di ritrovo e uffici statali.»
«Credete che gli Storti possano colpire una scuola?» chiese un giornalista più basso degli altri, che era riuscito ad infilarsi attraverso la calca e ora puntava con decisione un piccolo registratore contro il portavoce.
La donna impallidì, i suoi occhi scuri si sgranarono per la paura.
«No, non crediamo che arriveranno a tanto» rispose dopo un attimo di esitazione. «Ma dobbiamo chiedervi, per favore, di non intralciare il nostro lavoro» insisté, più decisa. «Le foto segnaletiche stanno già girando per le stazioni locali, non c’è motivo…»
«Potrebbero trovarsi al Museo Nazionale? O nella cattedrale di Westminster?» la interruppe un’altra giornalista, addossandosi ai suoi vicini per potersi sporgere verso di lei.
«Secondo lei, possono essere così sfacciati da tentare qualcosa nei pressi di Buckingam Palace?» si sovrappose un altro, spintonando a suo volta la collega. «O alla torre dell’Orologio?»
«Signori, vi ho già assicurato che i nostri agenti li stanno cercando» ripeté il portavoce. «Non possiamo sapere dove…»
«La banda avvertì prima di colpire ad East Court» si intromise un giornalista di colore, sovrastando le voci degli altri con un tono baritonale.
«Non abbiamo ricevuto alcun avviso, per il momento» ammise il portavoce, lanciandosi un’occhiata alle spalle, in cerca di una via di fuga.
«E pensate che avvertiranno anche stavolta?»
«È probabile che mantengano la stessa linea e quindi…»
«Il giudice Masters! Da questa parte!» la interruppe il grido di un giornalista, che aveva appena notato Masters scendere dalla sua auto.
Una delle guardie si fece avanti, raggiungendo il giudice e schermandolo dalle domande insistenti. Masters aumentò il passo quel tanto che gli era possibile senza dover danneggiare la sua dignità ed evitando di spiegazzare i pantaloni del costoso completo gessato che indossava. Procedette a testa alta, dietro la protezione della guardia, e si infilò attraverso lo spiraglio che un’altra guardia gli aveva aperto nel portone.
Borbottando qualcosa tra i denti, si diresse sicuro verso gli ascensori, ignorando gli sparuti impiegati che gli passavano accanto, rivolgendogli un cenno di saluto. Di lì a pochi minuti spalancava con stizza la porta dell’ufficio di Whitmore, precipitandosi dentro come un’anima in pena.
«Il mio telefono sta squillando dalle cinque di questa mattina!» sbottò, prima di accorgersi che non era stato il primo ad arrivare.
Sanders era sprofondato in una poltrona posizionata in un angolo della stanza. Accanto ad essa c’era un piccolo tavolino, su cui era appoggiata una bustina di tabacco e un posacenere colmo di mozziconi. Il direttore di Hammersmith emise un verso rauco e vi spense la sigaretta che stava finendo in quel momento. I suoi polpastrelli erano giallognoli per il contatto con il tabacco sciolto. Masters gli scoccò un’occhiata disgustata, prima di rivolgere la propria attenzione al capo di Scotland Yard. Appena i suoi occhi freddi si posarono su di lui, il giudice dischiuse la bocca per la sorpresa, suo malgrado. Whitmore era seduto dietro la sua scrivania, con la schiena appoggiata all’indietro contro la spalliera della sedia. Solchi scuri gli segnavano la pelle sotto gli occhi. Non era difficile notare che indossava gli stessi abiti del giorno precedente.
«Il mio non ha smesso dalle cinque di ieri» replicò, esausto.
Sollevò la tazza di caffé con la mano destra e ne buttò giù a forza un altro sorso.
Il giudice strinse le labbra, sprofondando una mano nella tasca della giacca. Pur di non incrociare lo sguardo di Sanders o essere costretto a salutarlo, cominciò a vagare per l’ufficio. Non si fermò neanche quando echeggiò il trillo del telefono. Whitmore posò la tazza di caffé, sollevando la cornetta con gesto stanco.
«Certo, avranno trovato un rifugio» lo sentirono replicare gli altri due, con una punta di esasperazione. «Non hanno lasciato la città.»
Sanders emise uno sbuffo di derisione, allungando ancora una volta la mano verso la sua busta di tabacco. Masters notò il suo gesto con la coda dell’occhio.
«Le dispiace?» sibilò.
Sanders lasciò ricadere la busta con gesto stizzito, mordendosi la lingua in tempo per trattenere parole poco gentili. Dopo pochi istanti Whitmore chiuse la comunicazione.
«Come può essere certo che non abbiano lasciato la città?» lo interrogò subito Sanders, senza avere il tatto di fingere di non aver udito la conversazione.
«Non se ne andrà così» sospirò Whitmore.
«Tuttavia non ci sono stati avvertimenti» interloquì Masters, appoggiato sul termosifone accanto alla finestra. «A meno che la notizia diffusa dal vostro portavoce non sia falsa.»
«Non ci sono stati avvertimenti» confermò Whitmore, accigliandosi per la velata offesa del giudice. «Per il momento.»
Sanders si schiarì rumorosamente la gola, passando lo sguardo dal capo di Scotland Yard al giudice. Sembrava invitare Whitmore a mostrare un po’ di polso, ma non si azzardò ad esprimere alcun pensiero in tal senso.
«Forse è il caso che torni ad Hammersmith.»
L’unica cosa che ottenne fu un ghigno soddisfatto da parte di Masters. Lì per lì, sembrò che Whitmore non l’avesse neanche udito. Se i suoi due ospiti avessero fatto più attenzione ai lineamenti del suo volto, avrebbero notato il movimento quasi impercettibile delle guance che si contraevano per lo sconforto e l’atroce senso di impotenza. Deluso, il direttore del carcere si alzò con un grugnito per raggiungere la porta.
Il telefono squillò di nuovo. Sanders si bloccò a pochi passi dalla soglia. Per mascherare il suo intento di origliare ancora, tornò verso la poltrona che aveva occupato fino a poco prima, raccogliendo il sacchetto di tabacco che aveva casualmente dimenticato. Masters scosse la testa e strinse le braccia dietro la schiena. Non degnò l’apparecchio di uno sguardo, preferendo distrarsi a guardare fuori della finestra. Whitmore non poté non notare il malcelato interesse di entrambi, così schiacciò direttamente il pulsante del viva voce.
«Whitmore, Scotland Yard» si presentò con voce monotona, ripetendo la frase con cui aveva principiato le decine di telefonate arrivate fin dal giorno precedente. «Con chi parlo?»
Si udì un respiro pesante e un rumore di passi di sottofondo.
«Martin, spero tu stia bene.»
La voce all’altro capo del filo suonò cupa, ma il tono era piano, quasi gentile. Il capo di Scotland Yard sobbalzò leggermente sulla sedia. La mano che aveva schiacciato il pulsante ebbe un tremito improvviso.
«Victor.» Pronunciò quel nome con una sorta di risentito disagio.
Il pacchetto di tabacco di Sanders cadde a terra con un suono ovattato. Le spalle di Masters sussultarono. Senza che nessuno dei due l’avesse premeditato, l’istante successivo si trovarono entrambi davanti alla scrivania, le mani appoggiate sulla superficie lignea.
«Chi c’è lì con te?» volle sapere Ramsfield, a cui non poteva essere sfuggito quel rumore di passi affrettati.
La domanda fu formulata con un’ innocente curiosità, che strideva con il tono basso della sua voce. Whitmore sollevò gli occhi verso gli altri due. Masters scosse impercettibilmente la testa.
«Il direttore del vostro carcere» replicò Whitmore con cautela.
«Salve, signor Sanders» salutò Ramsfield, in un tono così cordiale da mandare in bestia il diretto interessato, già irritato dal fatto di essere stato nominato da solo.
«Cosa credi? Di prenderti gioco di me?» ringhiò contro il tasto acceso del viva voce. «Non sperare, ci rivedremo presto!»
Seguì una breve pausa, riempita da una risatina dall’altra parte. Dal timbro si capiva chiaramente che proveniva da qualcun altro.
«È possibile» concesse Ramsfield.
Echeggiò uno schiocco, il tipico rumore di uno schiaffo, e poi riprese a parlare la voce di Ramsfield.
«Mi sembrava giusto avvertirti, Martin.»
«Tu parli di giustizia?» sbottò ancora Sanders, impedendo a Whitmore di chiedere delucidazioni.
«Ha ragione» ammise Ramsfield, ma il suo tono era ironico e deluso allo stesso tempo. «Dovremmo chiedere lumi al giudice Masters, in merito.»
Sanders scoccò un’occhiata infuocata a Masters, il cui volto era talmente pallido che si intravedevano le vene pulsanti sotto gli occhi. Whitmore allungò una mano per ripristinare la comunicazione normale, ma il direttore del carcere glielo impedì, sporgendosi sulla scrivania.
«Perché non glielo chiedi direttamente?» propose Sanders, guardando il giudice con aria vendicativa. «È proprio qui.»
Il silenzio fu disturbato dal gesto brusco di Masters, che si allontanò spaventato dalla scrivania.
«Quale onore» riprese la voce di Ramsfield, con una nuova sfumatura minacciosa. «Quando avrà giudicato se stesso, faremo una lunga chiacchierata, giudice.» L’ultima parola era stata marcata con evidente disprezzo.
Masters, che si teneva lontano dalla scrivania come se temesse di vedere spuntare Ramsfield proprio da lì, sembrava sconvolto. Le braccia fasciate dal completo gessato tremavano lungo i fianchi. Il direttore del carcere spostava lo sguardo da lui al telefono, sorpreso che il suo gesto avesse causato una tale agitazione. Ma, prima che uno dei due potesse fare altro, Whitmore calò la mano sulla scrivania, colpendo il legno con un gesto stizzito.
«Per l’amor del cielo, Victor!» esplose, usando la mano libera per tergersi il sudore che gli cadeva sugli occhi. «Che hai in mente?»
«I Lloyds, amico mio.»
Quelle parole caddero come pietre nell’antro spossato della mente dei presenti. Sul volto di Whitmore si dipinse un’espressione attonita. Sanders non seppe decidere se era dovuta al luogo nominato o all’appellativo con cui l’altro si era rivolto a lui e, in ogni modo, era troppo preoccupato dall’ultima rivelazione per preoccuparsene. Masters emise un respiro mozzato, chinando la testa.
«È una follia» commentò, la voce resa rauca dalla tensione.
Whitmore appuntò lo sguardo su di lui e poi ancora sulla luce rossa del telefono. Gli sembrava quasi di poter vedere Ramsfield che tendeva l’orecchio, dall’altra parte.
«Follia è non sapere cosa si sta facendo» replicò. «Io lo so bene. Possiamo dire che il tuo Thompson lo sapesse altrettanto bene?»
Il tono della sua voce suonò diverso, stentato. La rabbia era tenuta a freno dietro parole amare.
«Il tuo Thompson?» ripeté Sanders ad alta voce, guardando la spia rossa del viva voce come se potesse dargli una risposta.
Whitmore gli lanciò un’occhiata di ammonimento, prima di coprirsi la fronte con la mano. Non vide il giudice che indietreggiava ancora, fino a crollare su una sedia poco distante. Il direttore del carcere, invece, lo ignorò apertamente. Troppi eventi stavano scorrendo davanti ai suoi occhi e il suo cervello, abituato a registrare nomi e condanne, non era pronto ad interpretarli tutti all’unisono. Solo l’occhiata del capo della polizia lo convinse a richiudere la bocca, costringendolo a fissare ancora la cornetta chiusa del telefono, in attesa che il loro interlocutore saziasse la sua curiosità. Quello che udì, però, deluse le sue aspettative.
«Ti ho avvertito, Martin» concluse Ramsfield, risoluto. «Non è questo il momento di dare spiegazioni.»
La sua voce sembrava tornata ad assumere un tono piano, ma Whitmore conosceva bene il significato sotteso a quelle parole. Sapeva che il suo ex collega aveva appena ingoiato un boccone amaro, come aveva fatto negli ultimi anni. Il dispiacere per la sua condizione riusciva quasi a superare il disagio causato da quel gesto di lealtà. Perso dietro le fila dei propri pensieri, fu colto alla sprovvista quando sentì che il respiro dall’altra parte si affievoliva, segno che Ramsfield stava mettendo giù la cornetta.
«Victor!» lo richiamò Whitmore, aggrappandosi a quel nome come se fosse la sua ancora di salvezza contro il peso delle decisioni che avrebbe dovuto prendere.
«Sono qui.»
La sua voce si era tinta di un intento consolatore che distrusse gli ultimi barlumi di autorità che ancora aleggiavano in quella stanza. Whitmore strizzò gli occhi, tenendo la testa bassa in modo da non dover sostenere lo sguardo inquisitore di Sanders che, ne era certo, lo stava fissando da vicino. A malapena udì il gemito soffocato di Masters, concentrandosi invece su quella che riteneva sarebbe stata la sua ultima domanda ad un vecchio amico.
«Pensi di ottenere così la giustizia che ti è stata negata?»
Si era rivolto alla cornetta chiusa, ma non poté impedire alla sua mente di immaginare la fronte dell’altro che si corrugava, l’ombra che attraversava i suoi occhi verdi; occhi che guardavano lontano, ispezionando vecchi ricordi comuni.
«Non penso» lo corresse Ramsfield. Il cupo brontolio aveva lasciato il posto ad una ferrea risoluzione. «Io voglio.»
Whitmore spalancò gli occhi, colpito da quella risposta. Istintivamente allungò una mano verso il telefono, le pupille dilatate per la tensione prolungata. Aveva già sollevato il ricevitore, quando un impiegato irruppe nell’ufficio. A giudicare dal lembo di cravatta che svolazzava al di sopra della sua spalla e dagli occhiali che gli pendevano di traverso, aveva salito di corsa diversi piani.
«Signore, gli Storti hanno inviato un comunicato alla stampa!» esclamò con il poco fiato che gli era rimasto, tanto che subito dopo fu costretto ad un’inspirazione forzata.
Notando che iniziava a barcollare, Sanders gli andò incontro, stringendogli una spalla. Whitmore sbatté le palpebre un paio di volte, prima di premersi la cornetta del telefono contro l’orecchio. L’unico rumore che gli restituì fu quello della linea libera.
«I Lloyds» mormorò, abbassando la cornetta con gesto lento, come se non sapesse che altro fare.
L’impiegato si aggrappò al braccio di Sanders, fissando sbigottito il suo superiore. Ancora a corto di fiato, annuì lentamente, mentre i suoi occhi schizzavano nervosi da Whitmore a Masters. Il giudice era ancora accasciato sulla sedia, con la testa china in avanti e stretta tra le mani pallide.
«Mobilita tutte le auto» gli giunse l’ordine del capo di Scotland Yard.
L’impiegato lasciò di colpo Sanders, quasi temesse di essere lui la causa dell’espressione affranta del suo superiore. Annuì un’altra volta e si prese solo qualche istante per raddrizzarsi gli occhiali, prima di lasciare l’ufficio con la medesima fretta con cui vi era entrato.
Whitmore deglutì a vuoto e si volse verso il direttore di Hammersmith.
«Andrò anch’io.»
«La accompagno» si offrì prontamente Sanders, gonfiando il petto. Indugiò qualche attimo, prima di scoccare un’occhiata in direzione di Masters. «Che significa “il tuo Thompson”?»
I suoi occhi scuri lo fissavano con dura ostinazione, incuranti della crisi in cui l’altro era precipitato dopo la telefonata. Whitmore non reagì in alcun modo a quella domanda. Passò accanto al giudice come se fosse un soprammobile e lasciò il suo ufficio senza una parola. Sanders fu sorpreso da quell’improvvisa freddezza, ma non si diede per vinto. Masters dovette sentire il peso della sua insistenza, poiché emise un altro gemito e si affondò le dita tra i capelli grigi.
«Lui e mia figlia stavano ancora pagando la loro casa» confessò, con voce tremante. «Che altro potevo fare?»
Le ultime sillabe si persero in un leggero balbettio. Il suo volto era ormai nascosto tra le mani malferme. Sanders corrugò la fronte e continuò a fissarlo, torreggiando su di lui. Un po’ di concentrazione lo aiutò a mettere insieme gli ultimi pezzi.
«Schifoso bastardo» borbottò, sputando quelle due parole come se fossero veleno. La sua bocca si contrasse in una smorfia. Voltò le spalle a Masters e marciò verso la porta. «Anche noi ci rivedremo presto.»
La porta che sbatteva alle sue spalle assegnò un tono solenne alla sua minaccia. Rimasto solo con la sua colpa, il giudice si piegò in avanti, finché i suoi gomiti toccarono le ginocchia.
«Che altro potevo…» balbettò ancora, la voce rotta da lacrime di rabbia e vergogna.
  
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