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Autore: Egi_    03/06/2016    0 recensioni
"Non so per quanto si baciarono perché Emma non seppe dirmelo, poteva essere stato un minuto, potevano essere state tre ore, un giorno, una notte, un sogno, un nulla. Mi disse che la vita le era sembrata tutta concentrata lì, in un eterno presente, un battito di ciglia, un respiro sulla pelle, la curva di un collo visto e subito dimenticato fra la folla."
Genere: Mistero, Romantico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Storico
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"Si è sollevato un incendio azzurro"

Quando i pompieri arrivarono a casa dei Rogers era ormai troppo tardi. L’incendio, alimentato dal vento secco che spirava da ovest, aveva assunto dimensioni preoccupanti e minacciava di consumare diversi ettari del bosco che circondava la nostra città.
La piccola casa era stata completamente inghiottita dalle fiamme e se ne indovinava a malapena la sagoma in quella tempesta di fuoco.
Tutta South Haven si riversò nelle strade per assistere al disastro, le mamme già in vestaglia e i papà in completi da lavoro.
Il sole che si smorzò repentinamente gettando il quartiere in un’oscurità prematura mi ricordò una piaga biblica e mi suscitò immagini spaventose, di cavallette impazzite e corpi di primogeniti riversi sui pavimenti lindi delle case del quartiere.
Era uno spettacolo straordinario nella sua drammaticità: il cielo caliginoso e l’aria satura di cenere, i nostri genitori nelle strade, con il naso all’insù e la mano davanti agli occhi, noi rinchiusi nelle nostre camere con il naso spiaccicato contro il vetro.
Non avevo mai visto niente del genere.
Naturalmente tentai di correre fuori, di unirmi alla folla degli adulti che commentava e pontificava sull’accaduto ma mio padre mi ordinò di restare al sicuro tra le mura domestiche, asserendo che quelli non erano affari da ragazzini.
Così mi accontentai di osservare l’Apocalisse appollaiato sulla finestra di camera mia, il binocolo tanto premuto sugli occhi da farmi male.
La casa dei Rogers continuò a bruciare per almeno un paio d’ore ed io ne rimasi stupito. Mi chiesi come fosse possibile che una baracca simile ci potesse mettere tanto a incenerire.
Era, indubbiamente, la più brutta casa della città.
Abbarbicata ai margini di South Haven, assomigliava spaventosamente a uno scheletro. Più che una casa era un abbozzo di casa, somigliava a un progetto mai terminato, uno schizzo venuto male e poi abbandonato, rigettato dal suo stesso autore.
Vi si arrivava seguendo una strada stretta e accidentata che nei pressi dell’abitazione passava dall’asfalto al terriccio, assottigliandosi fino a trasformarsi in un sentiero di campagna.
La casa apparteneva più al bosco che alla città, più alla natura che alla civiltà.
Quando eravamo bambini, avvicinarsi alla baracca dei Rogers era una sfida che solo i più coraggiosi raccoglievano e non per le condizioni pietose della casa ma per le reazioni del vecchio Billy Rogers che, schivo com’era, odiava queste nostre piccole spedizioni e scoppiava in scatti d’ira violenta che ci costringevano a fuggire a gambe levate.
Per il consiglio comunale di South Haven, casa Rogers era come un pugno in un occhio e l’avrebbero già demolita se non fosse stato per Billy che con la sua faccia truce e quei bicipiti saettanti, faceva cagare sotto mio padre e tutti i suoi colleghi consiglieri.
Billy era un male necessario.
Rammentava costantemente ai nostri padri l’uomo che non volevano diventare e i genitori che non sarebbero mai dovuti essere; quanto erano fortunati ad abitare in quelle adorabili villette color pastello, con il giardino ordinato e le aiuole potate ad arte, a guidare una station wagon e ad avere un buon lavoro.
Ricordo che quella sera rimasi seduto fino a tardi davanti alla tivù, insieme alla mia famiglia, per commentare le ultime notizie sul rogo.
Ognuno dei miei parenti sembrava avere un’idea diversa su ciò che aveva scatenato la tragedia.
Per mio padre l’incendio era certamente dovuto a un malfunzionamento, un malaugurato incidente.
“È sicuramente la linea elettrica! So per certo che non veniva controllata da almeno vent’anni! Vent’anni, vi rendete conto?”
Secondo mia madre invece il rogo era doloso.
“Quell’uomo era pieno di nemici, pieno! Era un tale furfante…Non fraintendetemi, non sto mica dicendo che se lo sia meritato. Quelle povere creature che vivevano con lui poi…”
Ogni volta che al notiziario locale venivano nominate Daisy e Betty Rogers, gli occhi di mamma si riempivano di lacrime.
Era sempre stata piuttosto melodrammatica.
I corpi delle povere creature però non furono ritrovati, né quella notte né nei giorni a venire.
Erano scomparsi, dissolti nel nulla.
Daisy e Betty rimasero sulla bocca di tutti per parecchi mesi.
Dov’erano finite le figlie di Billy Rogers? Possibile che fossero semplicemente svanite in quella notte dei primi di settembre fra le ceneri e il fumo?
Ognuno in città aveva una sua teoria.
Simon Reyes, uno scimmione della squadra di football, si vantava di intrattenere una relazione epistolare con Daisy Rogers e asseriva che la ragazza era solita mandargli piccoli pezzi di se: ciocche di capelli, sigarette fumate a metà e persino un paio di mutandine rigorosamente odoranti del suo sesso.
Secondo mia madre invece (che aveva un’opinione su tutto e una particolare predilezione per le teorie complottiste) sarebbe stata proprio Daisy a uccidere il padre e ad appiccare il fuoco.
“A quell’età e con quella reputazione… suppongo che avesse avuto qualcosa da nascondere. Immagino che a suo padre non sarebbe piaciuto avere un’altra bocca da sfamare.”
La signora Dollhaven invece era convinta che fosse stato proprio Billy ad appiccare il rogo.
“Quell’uomo era pazzo! Ricordo ancora la vigilia di Natale del millenovecentosettantadue, quando ha travolto con quella sua stupida, vecchia carretta la cagna dei Vane. Un demonio, non si è nemmeno fermato a soccorrerla!”
Mia madre annuiva, una tazza di the caldo in una mano e una rivista di gossip nell’altra.
“Com’è che li chiamano? Sociopatici! Non provano rimorso, nossignore!”
Quelle riunioni di vicinato potevano andare avanti per ore ed erano capaci di continuare anche dopo cena, correndo sulla linea del telefono.
Non nascondo che anch’io ero interessato alla dinamica degli eventi ma per coinvolgimento personale, non per mero desiderio di pettegolezzo.
Quell’estate infatti ero stato trascinato inevitabilmente in una serie di strani eventi di cui all’epoca non avevo colto l’importanza, il valore.
Solo dopo anni, quando avevo ormai lasciato South Haven da parecchio tempo, essi erano tornati ad assillarmi costringendomi a venire a patti con quello che era successo.
 
O che non era successo affatto. 
 
  
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