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Autore: njaalls    07/06/2016    0 recensioni
Il peggiore incubo di Bellamy è sé stesso, ma Clarke non ha paura.
Raccolta os/flash fic/drabble di missing moments, what if, AU (modern, Teen Wolf, ecc).
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bellamy Blake, Clarke Griffin, Un po' tutti
Note: AU, Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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Nightmares.

 
Prompt: persone A of your OTP has a nightmare about person B.

Bellamy le vede entrambe, a modo loro belle e terribilmente diverse, sorridersi a vicenda.
Clarke ha i capelli biondi, ma intorno a lei ogni cosa sembra essere più scura e opprimente mentre quella sensazione di male grava sul petto dell'uomo che la guarda come fosse un brutto vizio, un tormento, un male radicato da troppo tempo in un corpo troppo infantile. Gina, invece, ha lunghe ciocche scure, appuntate sulla nuca in modo distratto, e sorride in maniera amichevole, spontanea, illuminando tutto intorno.
Sembra l'entrata di Arcadia e sono naturali in quel contesto, tra loro, in una casa che non è mai stata veramente di nessuna delle due, se l'unica cosa che hanno condiviso è stato l'affetto dello stesso uomo, niente di più, niente di meno, ma forse un buon legante.
Quel uomo che, adesso, sembra essere solo uno spettatore esterno, nell'ombra e nel silenzio. Almeno fino a quando pare che entrambe lo notino e gli sorridano: quando si voltano, Bellamy annaspa e i loro petti sono impregnati di sangue che si dirama sopra i loro seni come in una macchia che diventa sempre più grande.
Gina cade a terra e Clarke prova ad aiutarla, ma anche la sua ferita è troppo grave perché possa reggere qualcun altro, i suoi occhi si riempiono di lacrime e lei crolla in ginocchio.
Lo sguardo che entrambe rivolgono a Bellamy è straziante, disperato, grave e spaventato, quasi fosse sua la colpa. Poi, comprende: vede la sua mano armata, la pistola argentata e il braccio teso. Il cuore batte all'impazzata quando si sveglia e capisce di essere stato lui a sparare. Allo stesso tempo, è anche l'arma.


Resta immobile sul letto della camera che gli è stata data e si guarda intorno, la fronte imperlata di sudore e il petto che si alza e si abbassa in maniera incontrollata. Studia l'arredamento minimo della cabina davvero piccola e chiude gli occhi, sperando di cancellare la sua presenza lì, quello che ha fatto, che è successo, gli errori che lo tormentano e quel incubo che è vivido. Troppo vivido.
Le sue gambe si muovono tra le coperte leggere e c'è la sua giacca da guardia appesa ad un gancio vicino l'entrata, i vestiti che usa di solito —e a cui dovrebbe dare una rinfrescata— sulla sedia ai piedi del letto e la pistola sul piccolissimo mobile che funge da scrivania. È l'unico oggetto sulla superficie fredda e liscia, ma nemmeno il resto della minuscola camera contiene affetti, oggetti personali, o qualcosa che lo identifichi. Durante il giorno, quando ha tutto addosso e la coperta è ripiegata alla perfezione, sembra quasi inutilizzata.
Adesso Bellamy ha la fronte impregnata di sudore, il cuore che batte senza sosta e le mani chiuse in due pugni così stretti da avere le nocche di un bianco spaventoso. Respira più volte, come per tranquillizzarsi, ma l'angoscia è quasi soffocante perché era lui.  E le sue mani, sogno o no, sono macchiate di sangue che non è il proprio.
Quando getta le gambe fuori dal letto e tasta per terra alla ricerca delle solite scarpe consumate, ma non le mette, limitandosi a fissarle.
Non dorme mai al buio. Sa che è grande e grosso, che probabilmente ha già compiuto ventiquattro anni e non ha paura di restare incastrato nel baratro della notte, ma preferisce sapere di aprire gli occhi dopo incubi come quelli e di sapersi orientare, riconoscere dove si trova, se in una tenda con cento ragazzini, sull'Arca o ad Arcadia. Ogni possibilità lo spaventa: ogni posto ha un ricordo traumatico della sua vita, la morte lo segue e lui è sempre arrabbiato.
Le due cose spesso coincidono.
Si alza e tira giù dalla sedia i pantaloni neri, li mette e si stropiccia più volte gli occhi, con i capelli scombinati e la maglietta blu che ha utilizzato per gran parte del tempo sulla terra prima di entrare a Mount Weather e che gli si appende malamente sull'addome. L'ha ritrovata dopo poco essere tornato al campo, quella maglia, e l'ha riconosciuta al centro di raccolta degli abiti usati per il buco sul fianco sinistro, l'ha preso come un segno e se l'è tenuta senza battere ciglio. Ora la usa per dormire, essendo l'unico indumento pulito che gli appartiene.
Lascia tutto in camera —la giacca da guardia, la pistola, l'altra maglia sporca e il coltello che conserva sotto al cuscino— e potrebbe essere confuso per un sonnambulo che arranca per tutto il corridoio, se almeno ci fosse qualcuno. Invece è deserto.
Gli viene istintivo, non ci pensa nemmeno e senza riflettere sulle conseguenze, percorre il breve spazio fino alla camera due porte dopo la sua: vicini, ma non troppo. Le sue nocche, le stesse che erano bianche fino a poco prima per la tensione nel suo corpo, bussano leggere alla superficie liscia e fredda dell'entrata. Poi si poggia allo stipite con il gomito e lascia che il viso stanco, spaventato e martoriato affondi nella pelle liscia del bicipite: strizza gli occhi e prende un profondo respiro per resistere, farcela, vincere il suo passato.
La porta di scosta e lui repentinamente si allontana quando basta per lasciare che la figura minuta appena comparsa veda il suo viso e lui faccia lo stesso con un sorriso un po' di colpa.
Gli occhi di Clarke sorridono insieme alle sue labbra, sono belli, magnetici e caldi come quelle giornate d'estate in cui Miller vorrebbe andare al mare, ma sono troppo lontani e allora lui impreca togliendosi più vestiti possibili e Bellamy ride per la sua parlantina. Clarke apre di più la porta e lascia che, oltre il suo viso, venga alla luce del corridoio anche il suo corpo morbido, avvolto in una camicia da notte verde scuro e lunga fino alla caviglia. Non è la prima volta che Bellamy gliela vede addosso da quando fingono che quella sia casa loro e che vada tutto bene, ma ogni volta guarda il tessuto fasciargli il ventre e le braccia, osserva come i suoi piedi piccoli sbuchino sul pavimento freddo e quanto il colorito della sua pelle e i suoi capelli biondi stiano bene con quella sfumatura di verde, quasi tendente al marrone.
«Non riesci a dormire neanche stanotte?» domanda, alzando le sopracciglia e ammorbidendo la sua espressione.
Lui sospira e scuote la testa, abbassandola come se potesse avere una colpa e quindi una vergogna. Sono bravi ad addossarsi sempre tutti gli sbagli, anche quando non ne hanno, perché per loro il perdono è facile da dare agli altri, ma non a se stessi. «Tu ci riesci?»
Le labbra di Clarke si piegano in una smorfia, mentre —Bellamy lo vede— prova a non sprofondare nell'oscurità e nella morsa di ciò che più li sconvolge: il sangue che macchia le loro mani e che, giorno dopo giorno, non sembra andar via. Ma come potrebbe, alla fine? «Vuoi entrare?»
Bellamy si scosta i capelli umidi dalla fronte e lancia uno sguardo al corridoio che si staglia al loro orizzonte, prima di abbozzare un sorriso stanco e tirato verso la piccola Clarke, che piccola non lo è più, ma che per lui sarà sempre la spina nel fianco che è in grado di farlo piangere e imprecare. Per quella ragazzina, che ormai una donna è, andrebbe in capo al mondo e sarebbe pronto a mandare all'aria mesi di redenzione e fatica pur di difenderla e proteggerla. Morirebbe per lei ed è stato ad un passo dal farlo, mentre ora non se ne pente un solo istante e correrebbe di nuovo il rischio se fosse necessario.
Si stringe nelle spalle e guarda quanto sia meravigliosa nelle sue spalle pesanti e nelle dita intrise si sangue. Come le sue. Le sorride perché è sempre Clarke, solo più cresciuta, ed è con lui. Uguale a lui. «Ti va di bere qualcosa?»
«Va bene»
Bellamy deve solo aspettare che metta svelta un paio di scarpe logore sulle punte, prima che lo raggiunga e non si preoccupi nemmeno di chiudere la porta alle sue spalle, tanto sono le loro camere, ma è come se non lo fossero mai state. La osserva e sa che non possono avere nulla di così importante e materiale in quella terra, dove l'unica cosa che conta è tenersi stretta la propria vita e quella delle persone a cui si tiene.
Le loro braccia si sfiorano più volte, mentre percorrono i lunghi corridoi di Arcadia e nessuno sembra notarli in quel silenzio soffocante.
Quando prendono posto l'uno di fronte all'altro, finalmente, con quei bicchieri che tracannano in un sorso immediato e liberatorio, forse cominciando a comprendere che se lo sono meritato, dopo tanta agonia e tanta sofferenza.
Ci meritiamo un drink.
Prendine uno anche per me.

La mano di Clarke scivola lungo la superficie fredda del tavolo e, con attenzione e delicatezza, prende quella di grande e rovinata di Bellamy, distraendolo dai suoi pensieri che lo conducono sempre al punto di partenza: lei che se ne va, Gina, la sua morte, lui che perde la testa e l'elenco potrebbe non finire mai. Gli sorride, cercando di conquistare il più bel grande sorriso che possa voler regalare a qualcuno -alla persona di cui le importa di più- e guarda l'espressione dell'uomo ammorbidirsi.
«Vuoi parlarmi del tuo incubo?» chiede, un filo di voce e un amore immenso, in mezzo a tanto male, che le scoppia dentro al cuore.
Lui annuisce, come un bambino che finalmente ha trovato il modo per esprimere se stesso, cosa lo turba e la persona giusta su cui contare, crescere e fare affidamento.
«Ti perdevo» ammette. E quel pensiero, ora espresso ad alta voce, non ha mai fatto così male.
  
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