ORME
Arya odiava la pioggia. Saltò giù dalla torre a piedi uniti, trattenendo il respiro. Alcuni coppi si spezzarono con l’impatto, scivolò lungo il tetto con l’agilità del veleno lungo una lama e riuscì a trovare un appiglio in tempo, prima di finire risucchiata nel vortice di uno dei canali. Restò lì, penzolante, con il mantello carico d’acqua che la strangolava a poco a poco e il fluire delle gocce che la spingeva verso la turbinosa arteria di Braavos. Fece per issarsi, stringendo gli addominali e slanciando le gambe, ma un’altra tegola partì verso i flutti. Ora la mancina reggeva tutto il suo peso, amplificato dalle vesti umide. Sganciò la cappa nera con la mano libera e la sentì accartocciarsi nella notte, come seta nei palmi della tempesta. Rivolse il volto nudo all’alto, verso le proprie dita sofferenti e maledisse R’hollor per aver abbandonato la capitale dei fuochi proprio quel giorno. Era la prova che nessuna luce avrebbe mai spazzato via l’unico vero dio: la morte.
«Non oggi!», scandì Aria, con la pioggia battente che si infiltrava prepotente tra le labbra. Trasse a sé le ultime forze rimaste e si arrampicò verso la salvezza. Gattonò in direzione di un giardino pensile con vista sulla zona est. Conosceva a memoria il quartiere, gli occhi fortunatamente non le erano necessari, sapeva con sicurezza dove dirigersi. Saltò da un edificio all’altro, cadendo in ginocchio sulle tegole scivolose. Si rialzò a fatica, schiacciata dal vento, e raggiunse traballante il rifugio. Corse verso l’angolo più riparato della terrazza, incrostato fra le mura esterne della casa e protetto da una stabile tettoia. Lì si raggomitolò, pensando alle orme lasciate sul luogo del delitto. Se fosse stata una persona, se avesse avuto ancora un’identità, la scia di prove avrebbe potuto turbarla. Ora Arya era solamente uno strumento nelle mani del dio. Nessuno avrebbe mai trovato un colpevole, perché semplicemente non c’era. Arya non esisteva più.
Ricordò una volta, a Grande Inverno: pioveva a dirotto, e lei era in ritardo. Septa Mordane l’aspettava per la lezione di cucito. Aveva appena galoppato per tutta la zona esterna alle mura, vincendo la gara con Jon. Non avendo voglia di presentarsi, aveva deciso di rifugiarsi nelle cucine. Stava per addentare una fetta di torta alle mandorle, appena sfornata, quando la Septa era entrata nella stanza e aveva cominciato ad urlarle contro di sbrigarsi a raggiungere Sansa. Quando si chiese come avesse fatto a trovarla, trovò in risposta la scia di fango tracciata dai suoi stivali.
A quel tempo era ancora “faccia di cavallo”. Le mancava quell’epiteto, probabilmente perché ora un viso vero non l’aveva più. Non aveva un nome, un volto, restavano soltanto le orme a identificarla, orme di un passato scivolato via insieme alla pioggia.
Messer Sottile le aveva proibito i ricordi. Era un comando difficile da ignorare, soprattutto da quando si era resa conto di quanto potesse ferire la nostalgia. Preferiva essere uno strumento che sopportare tutto il dolore, ed era grata che qualcuno le avesse mostrato la Via.