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Autore: moganoix    17/06/2016    2 recensioni
"Rosso era il colore che più mi rappresentava, che delimitava gli orli sfrangiati della mia misera esistenza dettata dai tempi di un piacere malato, di una pazza passione."
"Ed una rosa candida nacque sulle spoglie di una rosa scarlatta."
||KaiSoo||
Genere: Fluff, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: D.O., D.O., Kai, Kai
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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A/N: La storia è ambientata in un'epoca pensata come il nostro 1600-1700 circa, con il variare di alcuni elementi da me introdotti che ovviamente non erano presenti a quel tempo.

Red mask, white rose


Fu proprio durante quello stesso ballo che quel misterioso ragazzo si inchinò di fronte a me, mi prese la mano come se stesse sfiorando la più delicata delle porcellane invece che semplice e candida pelle callosa di schiavo coperta da un guanto altrettanto bianco, me la baciò come solo il più cortese tra i galantuomini sfiora con le proprie labbra la mano della sua fanciulla, e mi chiese di ballare con lui. Una maschera occultava il suo volto per metà, lasciando intravedere la mascella scolpita, pelle scura ma non troppo, dolce come miele, del colore dell’ambra. Sfoggiava un completo fine ed articolato al tempo stesso, la giacca del medesimo colore cremisi con cui la passione danza voluttuosa davanti ai voraci occhi umani, una camicia larga che si adagiava sul suo corpo come le foglie che cadono dai rami trovano stabilità sul terreno autunnale, pantaloni stretti che fasciavano gambe slanciate e magre, un fisico stupendo, che si faceva desiderare anche da un ragazzo come me. Non sapevo chi fosse, sapevo solo che mi stava conducendo nel bel mezzo di una sala da ballo, teneva strette le mie mani, fragili e tremanti, nelle sue, grandi e calde. Iniziò a muoversi, ed io non potei fare altro che seguirlo mentre ammiravo segretamente quella bellezza nascosta che mi era apparsa di fronte agli occhi. Guidava i miei passi imperturbabile, mentre io tenevo la testa bassa, sbirciando a volte con sguardi rapidi nell’intento di distinguere almeno un’altra parte del suo volto.
“Tu non vedrai il mio viso come io non vedrò il tuo, Kyungsoo. Per quanto misera e spoglia sia la maschera che tu porti per celare il tuo volto, questa non mi permette di scorgere per intero quel che tenti di dissimulare sotto di essa.”
Eccola, la sua voce, temperata e soave, seducente e quasi afrodisiaca oserei dire.
“Perdonatemi, signore, per la mia invadenza, prometto che non succederà più.”
E chinai il capo, come mi era solito fare al cospetto dei miei padroni, è un segno di rispetto e di sottomissione.
“Non ti chiedi come io possa conoscere il tuo nome, Kyungsoo? Non ti alletta questa curiosità?”
“Signore, sono uno schiavo. Non mi è permesso porvi domande, né tanto meno anche solo pensarle. Il mio compito è quello di servirvi, nulla di più, nulla di meno.”
Il giovane nobile fece scaturire una leggiadra risata dalle sue labbra, poi con una mano mi percorse una guancia e scese sul collo, lento, provocando una serie infinita di brividi lungo la mia schiena.
“Parli molto bene, Kyungsoo, per essere uno schiavo. Deduco che tu debba aver studiato.”
Le parole sfuggirono dai miei pensieri, e piano piano andarono a riempire la fittizia bolla d’aria in cui ci eravamo rinchiusi: “Ero figlio di mercanti prima. So leggere e contare, scrivere poco. I miei genitori, caduti in disgrazia per la perdita della maggioranza delle loro navi in una spedizione al di là dell’oceano sono stati costretti a vendermi al sovrano per ottenere un risarcimento”.
Vidi le sue labbra contrarsi in una sottile e severa linea: “Sembri così indifferente a tutto ciò… Da quanto tempo sei rinchiuso in questo palazzo?”
“Da quando avevo dieci anni, signore. Ora ne ho ventitré, sono tredici anni.”
“Capisco.” Mi tracciò la linea del mento con la stessa sensuale delicatezza di prima, risvegliando in me un certo piacevole palpito tipico di quei momenti tendenti all’onirico nei quali si cade sempre in tentazione, e si diventa peccatori. “Sembri davvero delizioso, Kyungsoo, davvero delizioso. Sei uno schiavo di sesso, no?”
Quella definizione mi atterrò, seppur ormai fosse la mia vita dalla tenera età di dieci anni. Non potei negargli una certa eleganza dopotutto, la maggior parte delle persone che mi reclamavano come loro iniziavano dicendomi che ero bellissimo e finivano gridandomi ‘puttana!’ dietro le spalle.
“Sì” risposi semplicemente, e dopo una pausa aggiunsi “Sono al vostro servizio, se voi desiderate il mio corpo.”
“Ti desidero, Kyungsoo, ma prima dimmi qualcosa di te.”
“Non posso dirvi nulla che voi non conosciate già, signore.”
“Perché sei a questa festa?”
“Mi è stato dato il preciso ordine di soddisfare le richieste di eventuali clienti.”
Restò un po’ in silenzio, sentivo i suoi occhi puntati su di me, mentre continuava a farmi danzare a ritmo del quartetto di archi che scandiva a turno movimenti allegri o lenti e liberava musica classica magistralmente poetica. Ritornai con gli occhi rivolti verso il basso, e subito la sua mano fu pronta a sollevare il mio mento e a farmi voltare verso di lui.
“Quando si balla, soprattutto con me, ci si guarda sempre negli occhi, non dimenticarlo.”
Ed io potei solo annuire, mangiando con gli occhi quella maschera, quasi ad implorarla di cadere per permettermi di intravedere il viso del mio cavaliere.
“Qual è il vostro nome, signore?”
“O il mio nome, o il mio volto. A te la scelta di cosa conoscere.”
“Signore, mi perdoni, ma non credo di comprendere…”
Lo sconosciuto mi fece girare tra le sue braccia, per poi prendermi al volo prima che io cadessi.
“Ti lascio scegliere, Kyungsoo, tra udire il mio nome o scorgere il mio volto.”
“Perché non entrambi?”
Sentii la sua mano posata sul mio fianco stringere forte il tessuto, inevitabilmente ghermendo in quella morsa anche parte della mia pelle, visti i miei abiti leggeri sussultai.
“Sei sveglio, Kyungsoo. Ed ora dimmi, perché desideri sapere entrambi?”
Allentò la presa, ed io potei nuovamente respirare senza sentirmi in gabbia. Deglutii, pensando ad un modo adatto per ribattere.
“Un nome non ha significato se a questo non si può ricondurre un volto, mentre un volto è solo uno tra i tanti, se non viene identificato da un nome. Entrambi si perdono nell’aria come le rondini senza un nido a cui tornare, vengono calpestati dai secoli come un piccolo roditore muore se non può più raggiungere la sua tana, annegati come una farfalla in uno stagno o un pesce che ha perso la facoltà di muovere le pinne. Per questo desidero conoscere sia il vostro volto che il vostro nome, mio signore.”
Avvertii la sua mano correre su e giù per il mio fianco, carezzandomi frugalmente il ventre o talvolta scendendo coraggiosamente a tastare le mie natiche.
“Credo che la tua vera fonte di sensualità sia la tua dolce lingua, Kyungsoo. Sei un bravo oratore, mi hai convinto.”
E detto ciò incastrò il suo viso nell’incavo del mio collo, solleticandomi la gola ed il mento con le piume che ornavano la sua maschera, per lasciarmi un lievissimo bacio all’interno esso, quasi come se volesse farmi prima prendere confidenza con la forma delle sue labbra. Ripeté il gesto più volte, e, quando mi accorsi che la maggioranza della gente continuava ad osservarci insistentemente, lo pregai di staccarsi, egli mi liquidò con un semplice: “Questa è una festa in maschera, Kyungsoo. Molte donne ne approfittano per vestirsi da uomo, e viceversa. Nessuno se ne farà un dramma se balliamo insieme.” Il mio tremulo ‘Sì, signore’ venne assorbito dalle note possenti che investivano l’aria e si infilavano frementi tra le pieghe degli ampi abiti femminili, tra le insegne militari e le medaglie di onorificenza che gli uomini sfoggiavano sul petto, tra i lussuriosi ghirigori che arricchivano con il loro stile barocco l’immensa volta a botte decorata da affreschi d’oro imperioso, casto argento, poetico lapislazzulo e passionevole rubino. Angeli svolazzavano sul curvo piano bidimensionale, come ad avvolgere tutti i presenti in sala, come a custodire me e lui, pensai distrattamente.
“Sei mai stato a letto con degli uomini, Kyungsoo?”
“Sì, signore. Ho giaciuto sia con donne che con uomini, con chiunque mi desiderasse. Io sono solo uno schiavo.”
E poi percepii solo il suo soffio che scandiva come in una lenta cantilena accompagnata da un risolino quasi sadico queste parole, mentre teneva il mio mento fermo, bloccato verso l’alto in modo che io non potessi più muovere la testa: “Quindi sei già consapevole del dolore che proverai… Ciò significa che potrei anche spingermi…” – e qui mi sembrò di avvertire le sue labbra piegarsi in un sorriso tra il perverso ed il desideroso, abbassò il tono di voce già roco – “… un po’ più in là.”
Mi venne come spontaneo deglutire e tremare sotto la presa ferrea delle sue dita, quasi mi scappò un ansito, forse di timore, forse…
“Oh, non devi avere paura di me, mio caro Kyungsoo. Hai già peccato in precedenza e un’altra misera volta non ti renderà già più sporco di quello che sei ora.”
Avrei voluto mai come in quel momento potermi inchinare di fronte a lui, baciargli gli stivali e le mani e chiedergli perdono; ai padroni solitamente piaceva quando mi sottomettevo e mi umiliavo di fronte a loro, anche se non c’era nulla da condonare. Mi prostravo, faccia a terra, e speravo solamente che facessero in fretta. Però quel giorno lui non mi permise mai di abbassare lo sguardo al pavimento luccicante e scivoloso, non mi consentì di fare ciò che ormai ero costretto a compiere da tredici anni prima a quella parte.
 
Sei uno schiavo, inginocchiati.
Sei uno schiavo, pregami.
Sei uno schiavo, sta’ zitto.
Sei uno schiavo, non ti lamentare.
Sei uno schiavo, non muoverti.
Sei uno schiavo.
Sei uno schiavo.
Sei uno schiavo.
Prostrati, spogliati, non urlare.
Sei una puttana.
 
In quel momento invece realizzai che il suo parlare con me non era volgare come gli altri, era diretto. Un uomo non si vergogna a parlare con un altro uomo solo se quest’ultimo è suo pari. Ma io non ero suo pari, io ero uno schiavo, tuttavia egli insisteva. Batteva sinuosamente la lingua sul palato, spigliatamente, come se discorrere con me fosse la cosa più normale del mondo. In un certo senso tutto ciò mi spaventava; da quando ero tornato ad essere un uomo vero e non un animale? Dovevo forse anche io dargli del ‘tu’ e smettere di chiamarlo…
“…, signore.”
No, mai. Mai alzare gli occhi al cielo, mai guardare le stelle, mai sognare la luna, solo la terra umida e fredda mi accoglie e mi accetta.
Di riflesso abbassai il capo, e lì arrivò la prima percossa, forte, veloce, improvvisa. Nessuno avrebbe potuto accorgersene, ma fece male.
“Ti avevo ordinato di guardarmi negli occhi, Kyungsoo.”
“Io non vedo i suoi occhi, sign-”
Un altro colpo, nello stesso punto di poco prima.
“Non essere impertinente.”
E tutto ciò che di lui mi colpì, in fondo, fu la tranquillità assurda con cui conduceva ogni cosa, il ballo, le sue parole, i nostri dialoghi; tutto ciò suscitava me un pensiero di eterna calma, una serena pace fuori dalla dimensione buia e sporca in cui ero costretto a dimorare. Come i dolci suoni dei violoncelli che volavano allegri fuori dalle ampie vetrate, il mio sguardo cadde allora, dopo un po’ di tempo, sui lunghi e flessuosi rami verdi di un salice piangente. Anche essi parevano danzare i lenti movimenti scanditi dallo sfregare degli archetti sulle corde tese, dolcemente accompagnati dal vento come le mie gambe, le mie braccia, tutto il mio corpo erano guidati dal ragazzo di fronte a me. Allora puntai il mio sguardo nei suoi occhi, per quel poco che riuscivo a scorgere, e piano piano iniziai ad individuare morbidi particolari in essi. L’iride non era fredda e nera come avevo creduto al primo sguardo, ma pareva di un tenero castano assai scuro, quasi rassicurante rispetto al gelo, malleabile. L’ombra della maschera li celava un po’ alla mia vista, ma io volevo vederli. E perdermi in essi. Dovevo solo togliergli quella maschera, gettarla via ed abbandonarla sul pavimento, scansarla in modo da non fargliela più raggiungere, distruggerla. La mia mano corse dispettosa a sfiorare i contorni di quel malevolo impedimento, ne disegnò i bordi gemmati di pietre cremisi e corvine, ne carezzò il tessuto liscio e prezioso al tatto, nero come il peccato, e per ultimo ne sfiorò le lunghe piume vermiglie, rosse dello stesso rosso del sangue, delle rose, dell’amore che sfocia in desiderio. Rosso era il colore che più mi rappresentava, che delimitava gli orli sfrangiati della mia misera esistenza dettata dai tempi di un piacere malato, di una pazza passione. Mi accorsi di stringere ancora tra le dita quella maschera maledetta solo quando una delle sue mani si appoggiò sulla mia. Era calda, calda come quando si sta davanti al caminetto in inverno.
“Kyungsoo, non qui.”
Lentamente rimosse la mia mano dal suo viso e la riportò al suo posto, sulla sua spalla.
Mi dimenticai di dirgli ‘Sì, signore’.
“Ti vedo impaziente…”
“In verità lo sono molto…” ed aggiunsi solo dopo “…signore.”
“Vieni con me, Kyungsoo.”
Prese la mia mano delicatamente ed io mi misi al suo fianco. Attraversammo indisturbati la sala da ballo, poi l’ingresso, e quando fummo sulla porta mi fu chiaro che il suo scopo era quello di portarmi sotto il crudo cielo notturno, direttamente scoperto allo sguardo attraente di quelle meravigliose stelle che ormai da tredici anni mi era vietato anche solamente nominare. Il primo passo verso quello splendido giardino fu riluttante, al secondo abbassai al capo, senza dare importanza alla possibilità di ricevere altre percosse. Impercettibilmente strinsi la sua mano e mi avvicinai a lui. Mi accompagnò in un luogo nascosto, un punto del giardino difficilmente raggiungibile, appartato, ma illuminato da lanterne sparse un po’ qua e là. Non era molto spazioso, ma si sarebbe potuto definire grazioso, quasi carino, se solo non fosse stato per le labirintiche siepi decorate da rose cremisi. Quelle rose rovinavano la bellezza fanciullesca del luogo, trasformandolo in una prigione di voglie e smanie. Ad un lato del piccolo spiazzo, in direzione della luna, vi era una minuscola panchina in marmo, ricamata anch’essa con rose in bassorilievo. Un pensiero iniziò ad insinuarsi nella mia testa, che non volesse forse usare la camera da letto? Tutto lì mi sembrava parlasse di desiderio, di perversione, di eros… Quelle rose, con il loro profumo… Erano le stesse che ornavano tutta la mia stanza personale, quella che condividevo con i clienti. Cominciai a fremere senza una ragione particolare, tutto quel mistero attorcigliava le mie membra e mi rendeva nervoso. Tuttavia, lui non parve accorgersene. Si sedette sulla panchina e poi mi prese in braccio, accarezzandomi svogliatamente i capelli e giocherellando con le ciocche più lunghe. Rimasi in attesa di un qualunque suo movimento, ma lui non fece nulla, continuò solo a bearsi della morbidezza dei miei capelli.
“Perché il tuo abito è bianco, Kyungsoo?”
Era vero. Portavo una lunga giacca bianco panna che ricadeva mollemente su pantaloni altrettanto bianchi al ginocchio. Stivali alti e candidi ultimavano il completo, il quale pezzo forte era forse la molle camicia che fasciava la mia vita magra. Solo la mia maschera, rossa, piccola ed arrogante, rivelava la mia natura da schiavo.
“Perché, signore, serve a celare la mia anima sudicia. La mia maschera però…”
“Kyungsoo, togli quella maschera.”
Alzai di scatto il volto, guardandolo negli occhi. Le mie mani tremolavano come la fiamma di una candela che si sta per spegnere mentre lentamente salivano sul mio volto e stringevano i bordi del mio nascondiglio. Quella non era solamente una semplice maschera, era il mio segno, l’emblema di chi, come me, vendeva il proprio corpo. Non si poteva levare, era vietato nello stesso modo in cui era proibito uscire dal palazzo e guardare le stelle, o il sole, o la luna.
E se una cosa era vietata, non si poteva fare.
Lasciai cadere le mani in grembo ed chinai il capo, mortificato. Diedi un veloce sguardo al suo viso e quando notai le sue labbra serrate in una probabile espressione di disappunto non mi restò altro da fare che scendere dalle sue gambe, mettermi in ginocchio di fronte a lui e iniziare a baciargli gli stivali. Sapevano di polvere, di terra, combattei contro l’istinto di smettere e rimettere la gretta cena con cui mi sfamavo tutte le sere. Probabilmente avevo suscitato in lui ira e rimorso di avermi scelto, avrebbe potuto prediligere uno schiavo più bello, più dotato, magari anche più alto di me, ce n’erano molti nella sala da ballo. Mi prese il viso con una mano e mi tirò su il mento, abbassandosi poi per scrutarmi negli occhi. Esaminò il mio volto con estrema meticolosità, con la stessa cura che si dedica ad un oggetto prezioso da esporre. Girò la mia testa di lato, lasciando scoperta una guancia. Vidi di scorcio che stava caricando un pugno con la mano libera, ed allora chiusi gli occhi, attendendo il colpo. Avvertii un lieve spostamento d’aria, un sospiro, poi la sua mano giunse sulla mia pelle. Mi accorsi di tremare. Non fece male, forse perché in verità non mi ferì mai. Lambiva teneramente le mie gote pallide, il mio collo, i miei capelli bruni. Il respiro mi si mozzò in gola, avvertivo lo strano desiderio irrefrenabile di piangere, così, senza motivo. Rimasi lì in ginocchio, lui si abbassò e si mise alla mia altezza.
E poi mi avvolse con le sue forti braccia, mi strinse al suo petto in un piacevole e nostalgico abbraccio. Piano piano si alzò poi da terra e mi prese in braccio, io allacciai le mie braccia al suo collo e mi accoccolai a lui, in un moto di dolce… Come si chiamava? Affetto, forse…
Si sedette di nuovo sulla panchina di marmo, sempre stringendomi la vita. Appoggiai la testa sulla sua spalla e chiusi gli occhi, concedendomi di rilassarmi un po’ e di abbandonarmi al calore del suo corpo. Lui incominciò ad accarezzarmi un braccio, tenendomi sempre più stretto.
Dopo interminabili istanti, egli sollevò il mio viso e lo mise davanti al suo. Scorse le mie guance con le sue dita vellutate e si soffermò poi sull’estremità laterale della mia maschera.
“Posso?”
Fu l’unica volta in cui la su voce traballò appena, e fu probabilmente per quella lieve oscillazione che le mie labbra si schiusero in un delicato ‘Sì’.
“Chiudi gli occhi, Kyungsoo.”
Obbedii all’ordine, e lasciai che le sue mani slacciassero la mia maschera. La sentii cadere a terra, lontano. Provavo un senso di libertà illogica, un vuoto allo stomaco, la sensazione di avere un mondo che mi accoglie, la sorpresa di essere di nuovo padrone e non preda della mia vita. Tentai di aprire nuovamente gli occhi, ma le sue dita intervennero a fermare la corsa verso l’alto delle mie palpebre.
Appena un sussurro.
“Aspetta…”
E stetti fermo, congelato, concentrato sulla pressione di quelle dita sulla mia pelle. Piano piano essa si affievolì, quando poi egli rimosse la mano dal mio viso ed io potei finalmente vedere di nuovo, scoprii di fronte a me il volto di un giovane di circa la mia stessa età, dagli occhi profondissimi e dolci come l’acqua con lo zucchero che mia madre mi preparava sempre da piccolo. I capelli sbarazzini ricadevano sulla sua fronte larga ed incorniciavano un viso semplicemente… magnifico. Non trovai altri modi per definirlo. La sua pelle teneramente ambrata concludeva splendidamente il dipinto di quell’essere incantevole e superbo. Era umano, o era solo un sogno?
E poi… Poi lo vidi sorridere per la prima volta in tutta la notte. Credo di essere morto un poco vedendo il sole che sprigionava. Lo sentii ridere leggermente, non sapevo per cosa, ma era una risata autentica, genuina.
Ed allora mi unii anche io. Sorrisi lievemente, me lo permisi dopo anni ed anni di falsi ghigni insani. Egli tracciò il contorno delle mie labbra con un dito, sorrise, e mi avviluppò tra le sue braccia. Si avvicinò al mio orecchio e ne sfiorò il padiglione con le labbra: “Sei così innocente, Kyungsoo…”
“Innocente?”
Percepii la tua testa muoversi in cenno di assenso: “Per me lo sei, Kyungsoo. Sotto la tua maschera, tu sei innocente.”
“Signore-”
“Jongin. È il mio nome, dammi del ‘tu’.”
Ma non avevo più nulla da dire. Timidamente avvolsi le mie braccia attorno al suo collo e mi rannicchiai sulle sue gambe, posando il capo di nuovo sulla sua spalla.
“Kyungsoo?” La sua mano mi accarezzava il volto.
“Jongin?”
Mi ricondusse di fronte a sé e sorrise: “Per favore, togli la maschera.”
E stavolta ebbi il coraggio di levarla veramente, la mia maschera, quella che indossavo ogni giorno e pesava più di tutte, il sudiciume delle azioni che avevo compiuto, lo sporco infame, tutto quel rosso che volevo lavare via. Perché in fondo all’anima sapevo di possedere ancora un po’ del bianco della puerilità. Perché volevo sciacquare via tutto, grattare i crosti e gettarli lontano… lontano…
Ed allora piansi, piansi come mai avevo fatto da tredici anni prima a quella parte. Piansi lacrime amare, disperate, lacrime nostalgiche che rimpiangevano il tempo perduto, l’innocenza scomparsa. Piansi semplicemente per me, perché ero un miserabile, un reietto, e nonostante ciò Jongin non smise mai di accarezzare la mia schiena, il mio collo, di sorridere rassicurante.
Quando finalmente mi calmai, Jongin iniziò: “Ti porto via di qui, Kyungsoo, domattina. Partirai con me.”
“Come-”
Mi zittì con una carezza: “Ssh… È già tutto a posto, ho provveduto io. Non domandarti come ho fatto. È un modo poco ortodosso, ma credo che tu sappia come avvengono le trattative per la mercanzia di persone.”
Annuii, abbassando lievemente il capo, forse per abitudine, forse per tristezza sapendo che lui aveva dovuto pagare per avermi. Come da consuetudine Jongin me lo fece rialzare: “Non sarai mai più subordinato ad alcun uomo o donna che sia, sarai libero. Appena dopo che ti avrò portato via di qui, se così vorrai, potrai andartene, e sarà come se non ci fossimo mai incontrati. Potrai vivere la tua vita senza sentirti in debito con nessuno.”
“Jongin, io voglio restare con te…”
Mi guardò, e mi sembrò quasi di annegare nel suo sguardo.
Mi fece alzare in piedi, poi si rizzò anche lui. Prese le mie mani e mise la sinistra sulla sua spalla, mentre stringeva la destra nella sua mancina e poggiava delicatamente l’altra sul mio fianco. Iniziò ad improvvisare una danza al chiaro di luna, lontano dal chiasso della sala da ballo, da quello che ormai mi pareva un semplice stridore di corde di meri strumenti in legno marcio, dagli occhi indiscreti e giudicatori di tutti quei gran pezzi di uomini e donne che non avevano altro da esibire se non medagliette d’oro placcato e pesanti gonne a balze troppo appariscenti. Danzavamo a ritmo della lenta melodia di un noto riscoperto sentimento, a cui però non sapevo dare un nome preciso. Non era riconoscenza per me e non era pietà per lui, forse per entrambi era…
Ballammo per ore sotto il cielo stellato, e solo alla fine, quando entrambi fummo esausti e ricademmo uno nelle braccia dell’altro, diede una conferma ed una risposta alla mia ultima affermazione: “Allora vivrai con me come mio coniuge.”
Le mie labbra si dischiusero per lo stupore, spalancai gli occhi, infilai la testa nell’incavo del suo collo come atto di approvazione: “Accetto.”
Jongin mi fece allora allontanare leggermente, prese le mie mani: “Kyungsoo, guarda le stelle.”
Voltai, dopo tredici lunghi anni, lo sguardo verso di esse, e rimasi sbalordito da quanto fossero splendenti quella notte. Non le ricordavo tanto lucenti. Non le ricordavo e basta, in fondo. Affondai piano nella loro luce e osservai Jongin. Scorsi nei suoi occhi il riflesso di quelle stesse stelle, e seppi che lui era veramente la mia libertà. Sorrisi, mi venne in mente mia madre che soleva sempre chiamare lo stesso sorriso ‘il tuo cuoricino pieno d’amore’ a causa della sua forma, e lui fece lo stesso.
“Mi piaci senza maschera, Kyungsoo.”
Poi mi baciò; un bacio casto, non aveva niente a che vedere con quelli esagerati ed impacciati dei miei clienti. Anche quando approfondì il contatto, non sentivo di essere un semplice oggetto, in verità non sentivo nulla. Valanghe di emozioni tramortivano i miei sensi, mentre le rose rosse che ci circondavano appassivano e lasciavano volare via i petali guasti insieme alle nostre maschere in un turbine proibito ed immorale, lasciando spazio a nuovi boccioli bianchi come l’innocenza riconquistata.
 
Ed una rosa candida nacque sulle spoglie di una rosa scarlatta.
   
 
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