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Autore: verystrange_pennylane    18/06/2016    4 recensioni
Paul adorava sentire come, persino in una città come Londra, tutto si zittisse in un pomeriggio d’estate, e non si sentissero quasi i rumori delle macchine, sostituiti dal forte canto delle cicale. Sembrava coprire magicamente ogni suono e ogni brutto pensiero.
Quando la sigaretta gli bruciò il polpastrello, Paul si accorse che il disco girava a vuoto, e per chissà quanto tempo era rimasto fermo imbambolato davanti alla figura di John Lennon che dormiva sul suo divano.
*
Fanfiction scritta per il compleanno di Paul. Per altri 74 anni di musica ♥
Genere: Romantico, Sentimentale, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Lennon, Paul McCartney
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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God Only Knows




“Let me go home, let me go home, I wanna go home, let me go home. Why don't you let me go home?”

“Quanto vorrei che qualcuno lo lasciasse andare e ci liberasse da questo strazio!” esclamò Stella, prima di ricevere una gomitata nel fianco da parte di Mary, lo sguardo ancora perso nella campagna scozzese.
Erano chiusi in quella maledetta scatoletta di tonno, così tutti i McCartney chiamavano quella macchina, da quasi tre ore.
Tre, lunghissime, eterne, infinite ore.
D’altronde, i loro genitori aveva avuto la brillante idea di trascinare tutti quanti in una scampagnata nelle isole di Mul per festeggiare il quarantesimo compleanno del loro padre. E cosa importava se c’erano trenta gradi ed era la giornata più calda di tutto l’anno, o se sia Stella che Mary ormai fossero troppo grandi per questo genere di gite di famiglia, no! Paul e Linda avevano infilato tutti in macchina, buttato un borsone sul tettuccio ed avevano deciso che era ora di partire per una bella vacanzina.
Certo, per il bene dei loro genitori avrebbero anche potuto accettarlo. Soprattutto Mary e Stella avrebbero anche fatto quel piacere, prima che il loro padre ricominciasse con la solita lagna del ‘le mie bambine crescono in fretta!’, ‘le mie principesse presto si troveranno il loro principe azzurro e non vorranno più bene al loro paparino’ e ‘finirete con l’odiarmi, ogni volta che sentirete una mia canzone alla radio penserete che fosse meglio essere figlie dello zio George!’.
Valeva la pena stringere i denti un solo giorno per tutta l’estate se questo avesse potuto significare risparmiarsi questo genere di discorsi.
Ma, e questo si stava rivelando il vero problema, a quanto pareva Paul aveva deciso di portare via per il viaggio solo una musicassetta.
Una sola.
Dio, avevano la casa piena di dischi e cassette, ma no, lui ne aveva scelta una tra tutte, e aveva infilato in macchina solo quella!
E quale doveva essere, tra tutte le possibili? Pet Sound dei Beach Boys.
Quattordici canzoni, quarantacinque minuti, ripetuti in continuazione. Lato A, lato B, e via, pronti a ricominciare, lato A, lato B, di nuovo. E l’isola di Mul era ancora troppo lontana.
Dopo tre ore chiunque avrebbe cominciato a pensare che quella lagna fosse solo una punizione in falsetto mandata da un dio molto crudele e nostalgico. Chiunque tranne Paul, ovviamente, che continuava a cantare le canzoni e ad imitare tutti i maledettissimi strumenti musicali, dal primo all’ultimo.
L’unica altra persona in macchina che sembrava apprezzare quelle vocine stridule era James, forse perché gli ricordavano un po’ le canzoncine dei suoi programmi preferiti alla tv, o forse perché a poco più di sei anni era ancora nella fase in cui ‘se mamma e papà sono felici, io sono felice.’
Stella e Mary non erano dello stesso avviso, decisamente no.
Finita ‘Sloop Johnny B.’ per la terza, dannata volta, Paul allungò la mano verso il pulsante della riproduzione veloce, e le vocine acute dei Beach Boys diventarono ancora più alte e accelerate.
“Oh, papà!” si lamentò Mary, i capelli disordinati dal vento a coprirle il viso, “Vogliamo ascoltarla per una volta tanto!
“Esatto, è la mia preferita!” gridò Stella.
“Pure la mia!” si unì James, più per sentirsi coinvolto che per altro. Essere il piccolino di casa con due sorelle femmine adolescenti era un lavoro duro!
“Zitto tu, ruffiano!” ribatterono in coro le due ragazze. Certo, sarebbe stato tutto facile e divertente se solo questa semplice frase non avesse iniziato quella che sembrava, sotto il caldo torrido e dentro quella trappola a quattro ruote, la terza guerra mondiale.
“Strega coi brufoli!”
“Brutto nano spelacchiato!”
Solo la voce di Linda e il suo “Ragazzi, basta!” riuscì a zittire tutti e tre i suoi figli in un colpo, lasciando che la canzone successiva riempisse l’abitacolo.
Sia Mary che Stella misero meccanicamente il broncio, incrociando le braccia al petto e rivolgendosi una rapida occhiata di intesa.
“Che problemi ha nostro padre con ‘God only knows’?”



“I may not always love you, but long as there are stars above you, you never need to doubt it, I'll make you so sure about it.
God only knows what I'd be without you.”

Paul canticchiò la canzone, lasciando che le parole prendessero forma e significato nella sua testa e nella sua bocca, tra un tiro di sigaretta e l’altro.
L’aria era calda, dannatamente calda in quel pomeriggio di Giugno a Londra. Cosa dicevano i giornali? ‘L’estate più afosa degli ultimi blablabla anni!’ Dio, ma non era quello che ripetevano sempre? Noiosi bastardi.
L’unica che sembrava godere di quel clima era Martha, ora fuori casa a giocare felice. Paul poteva sentire le sue zampone pelose correre da una parte all’altra del giardino, abbaiando pigramente a chissà quale animaletto si fosse introdotto nella casa di Cavendish Avenue. Uno dei dipendenti aveva azionato le girandole per annaffiare l’erba, una novità che arrivava diritta dall’America!, e inutile dire che Martha avesse ben apprezzato quell’invenzione, passando la maggior parte del suo tempo a dormirci sotto o a corrergli attorno, lasciando che il suo folto pelo si inzuppasse d’acqua.
A Paul non dispiaceva tutto quel caldo, in realtà. Adorava sentire come, persino in una città come Londra, tutto si zittisse in un pomeriggio d’estate, e non si sentissero quasi i rumori delle macchine, sostituiti dal forte canto delle cicale. Sembrava coprire magicamente ogni suono e ogni brutto pensiero.
Quando la sigaretta gli bruciò il polpastrello, Paul si accorse che il disco girava a vuoto, e per chissà quanto tempo era rimasto fermo imbambolato davanti alla figura di John Lennon che dormiva sul suo divano.
Si erano trovati la sera prima con la scusa del ‘devi sentire assolutamente questa canzone che ho scritto, Paulie! Sarà il nostro capolavoro’. E dire che non era più il 1957, il ‘Sgt. Peppers’ era uscito da un paio di settimane e si sarebbero potuti tranquillamente godere qualche altro giorno di pace. Ma no, John era capitato a casa sua, e sebbene Paul avesse capito quale fosse il vero motivo dietro quella visita, aveva deciso di credere alla scusa del suo migliore amico.
Dopo qualche bottiglia di Gin, avevano preso un paio delle loro pasticche preferite e avevano finito con strafarsi e col crollare sul divano, completamente addormentati uno tra le braccia dell’altro.
Una volta svegliatosi, la testa di Paul era nel morbido incavo del collo di John, le braccia appoggiate ai suoi fianchi, la caviglia ancorata al polpaccio del suo amico.
Era da un po’ che non succedeva più, pensò, mordendosi il labbro in preda alla nostalgia.
Quando le cicale coprivano tutti i rumori di Liverpool e le estati del nord non erano poi così afose e umide per merito dell’aria del porto, si trovavano spesso a dormire vicini, uno incastrato in modo perfetto all’altro, stremati dopo aver cantato, suonato e scritto tutta la notte. E non importava che fosse la stanzetta calda e soleggiata di Forthlin o quella più fresca e umida di Woolton, il risultato era lo stesso.
Poi il tempo era passato, le cose avevano iniziato lentamente a cambiare e le cicale avevano smesso di cantare. O almeno, Paul aveva smesso di ascoltarle, preso com’era dalle mille tournée e dalle grida delle fan che riuscivano a coprire qualsiasi cosa, persino i loro pensieri. E pian pianino, anno dopo anno, Paul e John avevano smesso di trovarsi nello stesso letto a parlare a bassa voce fino ad addormentarsi uno accanto all’altro, involontariamente avvinghiati in un ammasso di caldo e sudore.
Certo, Paul avrebbe anche potuto ammettere che non ci fosse nulla di male se due ragazzi di più di venticinque anni avevano finalmente perso la stupida abitudine di dormire abbracciati, ma ciò non significava  che non gli mancasse terribilmente.
“God only knows what I’d been without you.” Continuò a canticchiare a bassa voce, mentre si alzava per prepararsi un’altra sigaretta, stavolta infilandoci dentro un’abbondante quantità d’erba.
“God only knows.”gli fece eco una voce alle sue spalle, e Paul dallo spavento quasi fece cadere a terra la cartina e il tabacco. Ma poi quel canto, basso, roco e sensuale gli accarezzò il collo e le orecchie, e il ritornello fu ripetuto di nuovo, stavolta con maggior decisione vicino a quelle che ora erano le basette di Paul, e il ragazzo decise che al diavolo, non aveva davvero voglia di lamentarsi e rimproverare John per averlo spaventato. Spostando lo sguardo sul cavallo dei suoi pantaloni, pensò che se quelli erano i risultati, poteva terrorizzarlo ogni volta che voleva.
Non che l’avrebbe ammesso ad alta voce, certo che no. Paul non perdeva il controllo così facilmente, non più almeno. E sapeva bene come condurre un gioco, specie se aveva un’idea ben chiara di come farlo finire.
Infatti, finì di arrotolare la sigaretta e si girò, fronteggiando John.
Il ragazzo aveva gli occhi dannatamente rossi e stanchi, le occhiaie erano scure e gonfie, i capelli un completo disastro, eppure Paul si trovò a mordersi il labbro e pensare a quanto fosse bello.
L’aveva sempre trovato così bello, sin dalla prima volta che l’aveva visto. E dire che ormai quanti anni erano passati? Quasi dieci?
Cristo!
Anche in quel caso era un pomeriggio d’estate, e le cicale cantavano a squarciagola, fiere e felici.
Almeno, finché il suono della chitarra di John non avesse sconfitto quel suono, coprendo ogni cosa.
Riempiendo il cuore e la vita di Paul, in un’assolata giornata di luglio.
Certo, quello era stato il momento in cui tutto era iniziato. Ma c’era voluto del tempo prima che entrambi capissero cosa fosse quel tutto.
In realtà, se dovevano essere sinceri, non è che gli avessero mai dato un nome vero e proprio.
C’erano stati baci, litigi, fughe, scuse, altri baci, altri litigi e infine abbracci, morsi, seghe, scopate nei bagni puzzolenti di Amburgo e poi Parigi. Ah, Parigi.
Ma ancora niente nome, niente di serio, niente di niente tra loro due. Sempre troppo impegnati, troppo immersi nel personaggio che si erano creati su misura per sopravvivere al mondo là fuori.
Ciononostante, nome o non nome, etichetta o non etichetta, qualcosa tra di loro c’era. Come il canto delle cicale, era qualcosa che non si poteva afferrare, ma c’era. La più naturale e primordiale delle musiche.
“Oggi siamo in vena di Beach Boys?” gli chiese John, sorridendogli in modo ruffiano, prima di soffiargli da sotto il naso la sigaretta appena preparata e accesa.
“E’ un album fottutamente geniale.”
“Mai quanto il nostro.”
Ovvio.”
Quello scambio di pigre battutine tra un tiro e l’altro della sigaretta, col fumo che riempiva lo spazio tra di loro, si concluse con un silenzio pesante, interrotto soltanto dall’ennesimo abbaio lontano di Martha.
John si avvicinò al profilo di Paul, lasciando che le loro labbra quasi si solleticassero, eppure Paul, trattenendo a stento un sorriso divertito e malizioso, si staccò da quel contatto ravvicinato, aumentando la distanza.
“Vado a rimettere su il disco.”
Afferrando una delle sue bottiglie di vino preferite, un rosso dolce, fruttato e corposo, Paul puntò il giradischi all’inizio del lato B, giusto in tempo per sentir partire ‘Let’s go Away for A While’.
Quando mise piede di nuovo in salotto, con due bicchieri in mano, ormai ‘Sloop Johnny B.’ era cominciata, e la canticchiò distrattamente, prima di alzare lo sguardo e farsi rapire da quella visione.
Paul non sapeva se fosse merito delle pasticche della sera prima, dell’erba o di cos’altro, ma l’atmosfera in quella stanza sembrava magica, uno di quei momenti che ti fa fermare col fiato mozzato e la sensazione che quello a cui stai assistendo sia lo spettacolo più bello della tua vita, e non ci sarà fotografia mai abbastanza fedele per registrarlo.
La polvere sembrava danzare nell’aria al ritmo della musica e del canto delle cicale, e i raggi di sole che entravano dalle ampie vetrate facevano brillare i colori caldi del salotto, rendendo tutto una vibrante festa. Al centro della stanza, perfettamente immobile con lo sguardo perso fuori dalla finestra, c’era la figura di John Lennon. Non stava facendo nulla, era solo fermo, eppure sembrava una variopinta statua, e Paul si trovò a pensare che Dio, quello era il posto di John nel mondo. Vicino a lui.
Anzi no, erano ancora troppo lontani. Paul aveva un dannato bisogno di toccare, di sentire il ragazzo sotto di lui, mai come in quel momento. E come a leggergli nella mente, John coprì velocemente i metri che li separavano, facendo frusciare i larghi pantaloni di tela.
“Come ai vecchi tempi?” gli chiese una volta di fronte, porgendogli la mano.
Paul gli sorrise, lasciando che la sua testa vagasse un po’ tra quel momento così perfetto e il ricordo bellissimo e allo stesso tempo doloroso di due ragazzi che ballavano Elvis nel salotto vecchio e polveroso di Forthlin Road.
Forse non tutto era perduto. Nonostante la droga, i soldi, le donne e la fama, sotto sotto quei due ragazzini un po’ stupidi e stronzi c’erano ancora.
“Come ai vecchi tempi.” E lasciò che le loro dita si intrecciassero, prima di essere trascinato in una sorta di impacciata piroetta.
I may not always love you, but long as there are stars above you, you never need to doubt it, I'll make you so sure about it.” Cominciò John, la voce ancora roca dal sonno, e graffiò in modo dannatamente sensuale quella semplice frase.
“God only knows what I’d been without you.” Completò Paul, lasciando che i loro petti si scontrassero, unendosi in una sorta di caldo e sudato abbraccio.
“If you should ever leave me, though life would still go on believe me. The world could show nothing to me, so what good would living do me?" le parole scivolarono fuori la bocca umida e rossa di John come nuvole di fumo, e accarezzarono le guance di Paul, che poteva sentire un sorriso formarsi spontaneo. Un sorriso così largo e genuino da rendergli quasi difficile proseguire a cantare. Non era sicuro che sarebbero uscite parole, ma solo risate e fiori e amore. Dio, quanto amore.
“God only knows what I’d been without you.”
“God only knows.” Gli rispose John, un sorriso sghembo sul viso, stranamente senza quegli occhialetti tondi che tanto gli piacevano, gli occhi strizzati in quell’espressione che stringeva il cuore di Paul in una morsa di nostalgia. Aprì la bocca per proseguire a cantare, ma non ne uscì nulla.
“God only knows.” Riuscì a dire dopo quella che era sembrata un’eternità, la canzone era già sul finire, il volume sempre più basso.
Si guardarono a lungo, incapaci di pensare a qualcosa che non fosse loro due, la sensazione di essere uno meravigliosamente vicino all’altro, finalmente soli.
Due incasinati stronzi che si amavano e non erano nemmeno in grado di capirlo o, peggio ancora!, di dirlo ad alta voce.
Non che ci fosse mai stato davvero bisogno di parlare, tra di loro. 
Sin dall’inizio era stata una questione di chimica più che di filosofia, di incendi devastanti più che di deboli scintille, e anche in quel caso non fu affatto diverso. Infatti, John finalmente afferrò il labbro inferiore di Paul, succhiandolo delicatamente, prima di lasciare che la sua lingua scivolasse nella bocca dell’altro.
Non c’era più nessuna cicala, nessuna canzone dei Beach Boys, nessun abbaiare di Martha, nessuna macchina. Solo la meravigliosa musica dei loro respiri mescolati assieme, tra un bacio e l’altro.
Con esasperante lentezza, Paul durante quella sorta di ballo aveva fatto scivolare le mani nelle tasche dei pantaloni di John, e pigramente le spostò sul colletto della sua maglietta sudata e sgualcita, cominciando a sollevarla. La sua bocca era ancora gonfia a causa dei baffi di John, ma non poteva importargliene di meno in un momento come quello, e proseguì a leccare e mordere qualsiasi punto riuscisse a raggiungere.
Una volta che la maglietta cadde a terra, Paul si concesse un minuto di tregua, in cui si perse ad ammirare i raggi del sole scaldare e illuminare le piccole, deliziose lentiggini sulle spalle di John. Era un po’ come guardare le stelle in pieno pomeriggio, e si sentì ancora più felice e fortunato. Chiuse gli occhi, espresse uno sciocco desiderio e sorridendo a se stesso cominciò a baciare una ad una quelle lentiggini.
Ad interrompere il suo meticoloso lavoro intervennero le mani callose e sicure di John, che lo trascinarono sul divano più vicino. Lì atterrarono uno sopra l’altro con poca grazia, buttando a terra qualche cuscino nello scontro.
La camicia di Paul li raggiunse dopo pochi istanti sul tappeto polveroso, gettata con noncuranza accanto alla maglia di John.
Una volta che furono petto contro petto, le loro mani troppo impegnate ad esplorare ovunque, i baci cominciarono a farsi più violenti, più profondi. Erano al punto di non ritorno in cui la testa di Paul girava ad una velocità spaventosa e i loro respiri si stavano appesantendo ancora di più per l’erba, il caldo e l’eccitazione. John sembrò prendere il controllo della situazione, e afferrando entrambe le mani di Paul, accarezzandone il dorso delicatamente coi pollici callosi, lo guidò sopra di lui, di modo che si potesse sedere a cavalcioni come un bambino. Era raro che le cose andassero così, che non ci fossero lotte o scontri per chi doveva star sotto, ma la canzone era ancora nell’aria e l’atmosfera era così calda che essere violenti o arrabbiati o persino orgogliosi sembrava un crimine.
Quando la mano di John si spostò sul viso sudato di Paul, si soffermò sui suoi tratti morbidi e lo accarezzò lentamente, muovendosi dal naso alle labbra arrossate del ragazzo, dischiudendole con delicatezza. Non appena si formò un sorriso spontaneo sul viso di entrambi, John proseguì il suo lavoro meticoloso, scendendo lungo il collo del ragazzo, dove arricciò alcune delle ciocche mosse all’attaccatura dei capelli, per poi spostarsi sulle clavicole e sulle spalle.
Con una mano stretta in quella dell’altro, John fece alzare il braccio di Paul, distendendolo e cominciò a leccarlo con lentezza, arrivando al polso e riempiendo di baci umidi le loro dita intrecciate.
“Oh.” Fu l’unico commento di Paul, prima di cominciare a mordicchiare il collo e le clavicole di John.
“Già.” Gli fece eco l’altro, e affondò la testa nel petto del compagno, ma non sciolse la stretta delle loro mani.
Il disco si interruppe con un rumore stonato, cominciando a girare a vuoto, e un clacson lontano fu l’unico vago segnale di civiltà che arrivò a loro in tutta la giornata. Forse fu proprio quello che sembrò far ricordare a Paul della canzone e della colonna sonora, e il ragazzo fece alzare il viso di John, lasciando che i loro occhi si incontrassero.
“Oh, God only knows…”
L’unica risposta che ne ottenne stavolta non fu un melenso duetto, ma una sorta di divertita pernacchia.
“Dio non vuole decisamente sapere cosa ti farò adesso, mio caro.”
Con entrambe le mani ora libere, John percorse tutto il petto del ragazzo di fronte a lui, cominciando a giocare con l’elastico dei pantaloni, prima di scivolare al loro interno, afferrando saldamente il rigonfiamento eccitato di Paul.
“Allora non vuole nemmeno sapere cosa ti farò io.” E, copiandolo, Paul permise alla sua mano di entrare nei pantaloni morbidi e leggeri di John, iniziando ad accarezzare il suo membro.
Cominciarono, allo stesso ritmo, a stimolarsi a vicenda, le braccia e i petti nudi che si scontravano rendendo il tutto ancora più erotico. Paul si inarcò leggermente, eliminando la distanza tra loro due e coprendo ogni singolo centimetro di vuoto. Non ci volle molto perché venissero entrambi, uno affondando la testa nel collo dell’altro.
Il riflesso del sole nella bottiglia ancora mezza piena di vino rosso riscaldava i colori della loro pelle, così pallida nonostante fosse estate, e stettero immobili in quel sudato e allo stesso tempo bisognoso abbraccio. Era un po’ come vivere in un meraviglioso dipinto.
Quando le labbra di John vennero catturate in un lungo e molle bacio, Paul si sentì sorridere appagato nonostante la sua lingua stesse accarezzando quella dell’altro ragazzo, e non poté durare a lungo prima di scoppiare a ridere.
John si staccò e lo guardò con aria interrogativa, ma Paul sembrava non riuscire a smettere di boccheggiare per riuscire a spiegare cosa ci fosse di così divertente.
“Siamo proprio i soliti due stronzi segaioli, John. Non è cambiato un cazzo.”
“Parla per te, ragazzino. Io pensavo avessimo appena cominciato. Ricordati che dobbiamo festeggiare, in fondo è o non è il tuo compleanno?”
Davanti a quella domanda, Paul sembrò riuscire a tornare serio, sgranò gli occhi e gli baciò velocemente il mento, mordicchiando la curva che portava al collo.
“Ti sei ricordato allora, maledetto Lennon.” Si poteva quasi percepire il ghigno divertito che illuminava il viso di John, e nonostante non stesse guardando, Paul poteva vedere le sue narici che si dilatavano in quel modo così buffo, prima che cominciasse a parlare.
“Certo, potrò essermi fatto crescere i baffi, ma ciò non significa che io mi dimentichi il compleanno del mio amico.”
“Amico?” esclamò Paul, interrompendo il suo meticoloso lavoro per appoggiarsi una mano sul petto, guardandolo con aria comica e sbattendo teatralmente le ciglia.
“Partner? Compagno di vita?”
“Meglio, Johnny caro. Decisamente meglio.”
Lasciandosi guidare dal ritmo rilassato del battito del cuore di Paul, gli accarezzò il petto e, facendo un lungo sospiro, John chiuse gli occhi e permise alle parole di sgattaiolare fuori dalla sua bocca, prima che quel bastardo del suo cervello le fermasse.
“E poi se posso dire, tu ci definirai ancora due stronzi segaioli, eppure senza i vestiti di pelle e quel mare di gel sui capelli è tutta un’altra storia, Macca.”
“Hai ragione, è diverso.”
“Certo che è diverso. Ma noi siamo gli stessi.”
E quella frase, così onesta, vagamente melensa e così poco da John, fu l’unica cosa di cui Paul aveva bisogno per sconfiggere del tutto ogni sua maledetta nostalgia e per godersi in pieno quel pomeriggio così perfetto.
In fondo, John aveva ragione. Era pur sempre il suo compleanno.
E la bocca del ragazzo che si avvicinava al cavallo dei suoi pantaloni gli sembrava un gran bel modo di festeggiare. O almeno, un gran bell’inizio.

“If you should ever leave me, though life would still go on believe me, the world could show nothing to me. So what good would living do me?”
Quando Paul si svegliò, la luce del sole si era fatta più rossa e debole, l’afa era tollerabile e Martha era di fronte a lui, che dormiva soddisfatta sul tappeto del salotto.
Accanto al suo cane, un po’ usati come cuscino, un po’ come coperta, c’erano i suoi vestiti e un paio di altri che sapeva perfettamente appartenere a John.
Nonostante questo, e nonostante ricordasse abbastanza bene cosa fosse successo durante tutta quella giornata, ci mise qualche secondo a capire con esattezza il motivo per cui si fosse svegliato dal suo pisolino.
Il ritornello della canzone che aveva riempito quelle ore con John gli solleticò le orecchie per la seconda volta nel giro di un pomeriggio,  e Paul si trovò a sorridere beato e a spingere la propria testa contro le mani del ragazzo che gli stava accarezzando i capelli.
“God only knows. Ancora quella canzone?”
“Sì, ormai l’ho fatta mia.”
“Direi che ormai l’abbiamo fatta nostra. Sarà difficile non pensare a quello che mi hai fatto ogni volta che incontrerò Brian Wilson.”
La risata genuina di John riempì il salotto, e Martha si svegliò a sua volta dal pisolino e li guardò perplessa, prima di tornare a dormire come se nulla fosse, appoggiando la testa sulla camicia appallottolata del suo padrone.
“E quando sarai vecchio e avrai tanti bambini, e alla radio passeranno quel maledetto disco tu dirai: ’Ragazzi, questa è stata la canzone con cui ho fatto del sesso selvaggio con lo zio John il giorno del mio venticinquesimo compleanno!’”
“Forse mi conviene cambiare stazione o saltare la canzone, passando a quella dopo.”
“Mi sa che hai ragione.”
Si guardarono negli occhi un altro po’, prima che le mani di Paul si spostassero sui fianchi di John, stringendolo forte a sé e trascinandolo in un altro lunghissimo bacio.
“O forse ci conviene farla diventare ancora più nostra usandola per ogni anno. Una giornata solo per noi, con i Beach Boys come sottofondo. Che ti pare, principessa?”
Paul non riuscì a trattenere un genuino sorriso, che lo fece arrossire dalla punta del naso alle orecchie, e cercò di nasconderlo affondando il viso nel collo di John, ovviamente senza successo.
“Mi sembra un’ottima idea.”
“E allora, buon compleanno, Paul. A questo, a tutti i compleanni passati assieme, e a quelli che ci aspettano.”
“E dio solo sa quanti sono!”








Angolo dell’autrice:
E tanti auguri, splendore! Sì, parlo proprio con te, vecchietto di 74 anni che stai ancora in giro per il mondo a fare tournée e ci riempi la vita di musica e amore.
Cosa sarebbe la mia, anzi la nostra, vita senza quest’uomo? Io gli devo così tanto che nonostante i problemi di fuso orario, internet e computer (che ieri è morto e deve ancora risorgere) ho dovuto trovare l’occasione di pubblicare qualcosa anche quest’anno.
E sì, lo so, non è nulla di speciale, anzi. Dire che questa ff non mi piace è un dolce eufemismo, la trovo terribile e non mi sembra nemmeno di averla scritta io.
In questo periodo non ho molta voglia di scrivere e questo mi spezza il cuore. Ecco perché mi è uscita questa schifezza. Portate pazienza. E se non lo volete farlo, potete insultarmi in privato <3
Ok, ora la pianto di straparlare e ringrazio Kia che ha betato questa storia e mi ha sopportata. Grazie ragazza! E grazie a chiunque abbia letto questa… cosa, e le precedenti che ho scritto. Grazie dell’affetto, e in particolare grazie ad Athelye che mi scrive sempre e mi fa tanta compagnia!
Che dire, se non: alla prossima! Quando? Non so se quest’anno per l’anniversario riesco, dato che coincide col mio ritorno in Italia, ma ehy, ce la metto tutta.
A presto,
Anya
   
 
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