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Autore: Kary91    18/06/2016    2 recensioni
[One-Shot | Pre-Saga | Alec/Jace(/Max) | Bromance | Slice of Life]
Jace scosse la testa.
“Non sono d’accordo.”
Alec inarcò un sopracciglio.
“Non credi di essere un pallone gonfiato?”
“Non credo di volere che Max diventi come me” specificò Jace. “La senti questa, Alec?”
Jace tracciò con il dito la runa parabatai sul suo avambraccio. facendolo rabbrividire: nei punti in cui portava le rune disegnate da lui, era particolarmente sensibile al suo tocco.
“Quando ti ho chiesto di diventare il tuo parabatai non l’ho fatto solo perché pensavo di aver bisogno di te” spiegò. “Ti ho scelto perché speravo che diventando il tuo compagno d’armi avrei ereditato qualcosa da te.
Se Max è così legato a me, se mi ammira così tanto, allora ammira anche te: perché è anche grazie a te che sono diventato quello che sono.
Genere: Fluff, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Alec Lightwood, Jace Lightwood, Max Lightwood
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'A thousand times over;'
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Questa storia è stata scritta per il drabble event di Maggio del gruppo We are out for prompts, con il prompt “Alec/Max/Jace – Non ti pesa che il tuo fratellino voglia essere più come Jace che come te. Dopotutto, non puoi proprio biasimarlo.” di Chara.

 

The better half;

 

Le note di un pianoforte echeggiavano per il corridoio, mescolate al chiacchiericcio concitato di due persone.

Alec raggiunse la stanza della musica e ci sbirciò dentro incuriosito, appoggiandosi allo stipite con la spalla.

Max e Jace erano seduti sullo sgabello del pianoforte –  il minore dei due in ginocchio, in un vano tentativo di sembrare più alto. Da quell’angolazione, Alec poté notare che erano entrambi scalzi. Non se ne stupì: quella di Jace era per lo più un’ abitudine, mentre Max doveva aver deciso di liberarsi di scarpe e calzini per somigliare il più possibile al fratello adottivo.

Max aveva le dita piegate sui tasti, un’espressione concentrata dipinta in viso. Jace lo osservava divertito mormorandogli, di tanto in tanto, qualche suggerimento.

Nel riconoscere la sfumatura di orgoglio che aleggiava nel suo sguardo, Alec non poté fare a meno di sorridere.

Ripensò alla prima volta che aveva incontrato Jace – all’occhiata diffidente che il ragazzino gli aveva rivolto. Nonostante l’atteggiamento cauto e presuntuoso dei primi tempi, Jace aveva preso in simpatia Max sin dal primo momento in cui l’aveva visto. Sin da quando, piccolo e incerto com’era, il bimbetto gli si era arrampicato sulle ginocchia per rimirare incuriosito l’anello di famiglia dei Wayland.

Max, d’altro canto, aveva sempre venerato il fratello adottivo. Anche in quel momento, mentre le sue dita minute si allargavano sui tasti per azzardare una scala di Do, i suoi occhi grigi rilucevano di orgoglio.

Il bambino sorrise, quando Jace gli scompigliò i capelli per complimentarsi con lui.

“Ben fatto, fratellino” esclamò il maggiore dei due, appoggiando a sua volta le mani sulla tastiera. “E adesso vediamo come te la cavi con qualche accordo.”

“Yuppi!”

Max premette combinazioni di tasti a caso, producendo un’accozzaglia di suoni fastidiosi. Jace finse di stargli dietro, improvvisando un motivetto allegro mentre rideva.

“Ehi, tu, spione!” esclamò poi, senza voltarsi. “Ti unisci a noi?”

Alec non fu sorpreso da quel commento: erano entrambi in grado di percepire la presenza dell’altro senza doversi cercare.

“Non ci so fare con la musica” replicò, raggiungendo i due fratelli al pianoforte.

Jace diede una scrollata di spalle.

“È perché non ci hai mai provato” osservò, alzandosi e facendo segno ad Alec di mettersi al suo posto.

“Jace, invece, è bravissimo!” lo informò allegro Max, riprendendo a suonare la scala di Do.

 

Alec si limitò a scuotere la testa.

“Non è roba per me” ribadì, un po’ imbarazzato: qualche volta – di nascosto – ci aveva provato, ma non aveva mai chiesto a Jace di insegnargli a suonare.

Era convinto di non essere portato e in fondo aveva sempre preferito ascoltare.

Gli piaceva guardare Jace mentre suonava: lo rilassava, quasi in quei momenti la runa parabatai si attivasse per permettergli di condividere le sue sensazioni.

Max si sistemò gli occhiali sul naso.

“Come sono andato?” chiese, fissando speranzoso Jace. “Un po’ meglio di prima?”

Il fratello adottivo gli strizzò l’occhio.

“Decisamente meglio” confermò, dandogli una pacca sulla spalla. “La scala di Do, ormai, non ha più segreti per te, ma per oggi basta così: è meglio non strafare alla prima lezione.”

Max balzò giù dallo sgabello e si sgranchì le dita, un sorriso orgoglioso a illuminargli il volto. Il suo sguardo si spostò verso Alec, che gli arruffò i capelli con affetto.

“Ottimo lavoro, Mozart” si complimentò, divertito dal suo entusiasmo.

Max recuperò il manga che aveva abbandonato sul piano e si fiondò verso la porta.

“Vado a dire a mamma e a papà che Jace mi ha insegnato a suonare!” annunciò.

L’allegria contagiosa del ragazzino continuò a pervadere la stanza ancora per qualche istante, sopperendo al silenzio improvviso.

“Sei praticamente il suo idolo” osservò Alec, appoggiandosi al pianoforte. “Senza il praticamente.”

Jace tornò a sedersi, un mezzo sorriso a piegargli le labbra.

“Ma adora anche te” precisò, chinandosi in avanti per sistemare lo spartito. “Questo lo sai, vero?”

Alec aggrottò le sopracciglia.

“Certo che lo so” replicò, studiando la maniera meticolosa con cui Jace riordinava i vari fogli. “È mio fratello. Ma è a te che vorrebbe assomigliare.”

Lo disse con semplicità e non gli costò fatica ammetterlo. Chiunque in famiglia conosceva l’attaccamento speciale che Max nutriva nei confronti di Jace e in effetti, i primi tempi, Alec ne era stato un po’ geloso. Avrebbe voluto essere lui quello che il fratellino si sforzava di emulare a tutti i costi, ma poi gli era passata. Ai suoi occhi aveva senso il fatto che Max volesse essere più come Jace che non come lui. Dopotutto, non poteva biasimarlo.

Jace lasciò perdere gli spartiti e si voltò verso di lui.

“E va bene così, Jace: sul serio” ribadì Alec, abbozzando un sorrisetto. “Anche io, spesso, vorrei essere un po’ più come te.”

“Alec…”

 

Jace fu sul punto di dire qualcosa, ma il parabatai lo precedette.

 “Ammiro la tua sicurezza” rivelò, stringendosi spalle. “Il tuo coraggio: tu sei sempre te stesso. Non t’importa di metterti in cattiva luce con gli altri, fai quello che ti senti di fare. Ogni tanto sei fin troppo avventato…” azzardò, abbozzando un sorrisetto. “… E un pallone gonfiato, per giunta. Ma non mi dispiacerebbe se da grande Max finisse per assomigliare a te.”

Jace scosse la testa.

“Non sono d’accordo” commentò, fissandolo perplesso.

Alec inarcò un sopracciglio.

“Non credi di essere un pallone gonfiato?”

“Non credo di volere che Max diventi come me” specificò Jace. Le sue dita sfiorarono il braccio di Alec, facendolo rabbrividire: per qualche strana ragione, nei punti in cui portava le rune disegnate da lui, era particolarmente sensibile al suo tocco. Un po’ come se i marchi tracciati sulla sua pelle fossero in grado di riconoscere la mano che li aveva disegnati.

“La senti questa, Alec?”

Jace tracciò con il dito la runa parabatai sul suo avambraccio.

“È la runa più importante che ho” ribatté Alec, squadrandolo confuso. “Come potrei non sentirla?”

“Quando ti ho chiesto di diventare il tuo parabatai non l’ho fatto solo perché pensavo di aver bisogno di te” spiegò Jace. “Ti ho scelto perché speravo che diventando il tuo compagno d’armi avrei ereditato qualcosa da te. Tu non sei solo coraggioso” proseguì, posando una mano sulla spalla dell’amico. “Sei anche altruista… e leale. Non riesco a ricordare nemmeno una battaglia in cui abbia combattuto senza avere la certezza che al minimo cedimento da parte mia, o di Izzy, tu ti saresti buttato in mezzo per prendere il colpo al posto nostro.”

Alec incrociò le braccia sul petto e distolse lo sguardo, visibilmente a disagio.

“Siete i miei fratelli” si limitò a rispondere, stringendosi nelle spalle. “Anche tu faresti la stessa cosa per noi.”

“Cerchi sempre di ributtare indietro i complimenti…” ribatté Jace, scuotendo la testa. “… Anche da bambino eri così. Te lo ricordi, Alec?”

Un sorrisetto malinconico gli arricciò le labbra.

“Quando sono arrivato qui non ero un granché come amico: e nemmeno come fratello, in effetti. Sapevo di essere forte e non volevo l’appoggio di nessuno; la mia arroganza ha rischiato più volte di fregarmi in combattimento.”

Anche Alec sorrise: quando ripensava al Jace bambino non riusciva a fare a meno di avvertire una punta di tenerezza. Ricordava ancora bene l’insicurezza che traspariva dietro i suoi atteggiamenti presuntuosi, la solitudine che gli si poteva leggere addosso con la stessa nitidezza delle rune. Aveva capito di volerlo proteggere con la stessa semplicità con cui una persona si accorge di avere fame o sonno.

“Quando mio padre morì, presi la decisione di non affezionarmi più a nessuno” riprese Jace, posando entrambe le mani sulle sue spalle. “Ma poi sei arrivato tu. E più imparavo a conoscerti, ad accettarti nella mia vita, più mi rendevo conto che appoggiarsi a qualcuno di tanto in tanto non ti rende debole, ma l’esatto contrario.”

Alec aprì la bocca per dire qualcosa ma questa volta fu Jace a impedirgli di proseguire.

“Se Max è così legato a me, se mi ammira così tanto, allora ammira anche te: perché è anche grazie a te che sono diventato quello che sono. Tu sei l’altra metà di me, Alec.”

Alec non poté a meno di tornare con la mente alla sera della cerimonia parabatai. Ricordò le parole che il padre aveva rivolto ad entrambi, poco prima che la funzione avesse inizio.

“Essere parabatai significa donare a qualcuno la metà esatta di sé…” aveva detto loro, una mano poggiata sulla spalla di entrambi. “… E accettare la metà che il tuo compagno ti offre in tutti i suoi aspetti, positivi o negativi che siano.”

“La metà migliore” concluse Jace, lasciando ricadere le braccia lungo i fianchi.

Sembrava che quel discorso gli fosse costato parecchie energie e in parte, si sorprese a pensare Alec, doveva essere così. In fondo, Jace non era il genere di persona amava esternava il suo affetto con lunghi discorsi – e lui nemmeno.

Alec frugò a lungo nella propria testa, alla ricerca della cosa giusta da dire: non sapeva come ringraziarlo, come esprimere la sua gratitudine. Come fargli capire che ricambiava tutto ciò che aveva detto su di lui.

“Jace…” azzardò infine, visibilmente in imbarazzo.

Un sorrisetto divertito tornò a vivacizzare il volto di Jace.

“Non preoccuparti” lo rassicurò, dandogli un colpetto scherzoso con le nocche. “Non c’è bisogno che tu dica nulla.”

“No, Jace” ripeté Alec, passandosi una mano dietro la nuca.

“Cosa?”

Alec si sedette di fronte al pianoforte; il suo sguardo esaminò incerto i tasti d’avorio, prima di spostarsi in direzione dell’amico.

“In realtà non mi dispiacerebbe imparare a suonare” rivelò, esitante.“Ti va di insegnarmi qualcosa?”

Lo sguardo di Jace si fece tutto a un tratto più luminoso. Per un istante, Alec riconobbe nei suoi occhi la stessa ammirazione mista a orgoglio che aveva notato poco prima in quelli di Max.

“Pensavo che non me l’avresti mai chiesto” concluse Jace con un sorriso vispo, sedendosi di fianco a lui.

 

Note Finali;

Torno alla carica con questi due poiché – come penso che ormai si sia capito dopo Roommates e The Forging of a Bond – sono la mia (Br)OTP per eccellenza.

Questa one-shot la immagino ambientata più o meno un anno prima di City of Bones.

L’ho scritta prima di aver letto gli ultimi tre libri di TMI, quindi potrebbe essermi sfuggita qualche incongruenza, ma ho cercato di basarmi il più possibile su qualche passaggio notato qua e là (il fatto che Alec i primi tempi fosse stato un po’ geloso del rapporto fra Max e Jace, per esempio, viene menzionato in una delle Cronache dell’Accademia).

Grazie a chiunque sia passato a leggere! Spero tanto di trovare qualche altro sostenitore di questa Parabromance!


 

 

   
 
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