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Autore: Laylath    01/07/2016    4 recensioni
Dal prologo:
"... Non lasciarmi!”
Quelle ultime due parole le procurarono un forte ed improvviso battito del cuore, risvegliandola bruscamente. Il buio era ancora attorno a lei, promessa di sicurezza ed oblio, ma qualcosa non andava.
Non riusciva più ad abbandonarsi ad esso come voleva.
Improvvisamente la sua memoria esplose di ricordi, di visi conosciuti, di voci che la chiamavano con insistenza...
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Riza Hawkeye, Team Mustang
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Military memories'
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Capitolo 28
1915. Vita da ostaggio




 
Il nuovo anno era iniziato assieme alla sua nuova condizione di assistente del comandante supremo e di ostaggio degli homunculus. Pensare alla sua reale condizione avrebbe fatto venire i brividi a chiunque e lei stessa la sera, quando tornava a casa, sentiva lo stomaco attanagliato dalla tensione, come se non le sembrasse vero che anche quella giornata non era successo niente di pericoloso.
Eppure queste paure venivano messe in secondo piano quando la mattina successiva si ripresentava a lavoro: era come se ci fosse una Riza che riusciva a trovare gratificante la sua mansione di assistente di King Bradley. A guardarlo bene era un lavoro davvero complesso e pieno di cose da fare e da imparare, ma lei dopo qualche esitazione iniziale l’aveva fatto completamente suo, dimostrandosi più efficiente del previsto.
Paradossalmente anche il comandante supremo faceva la sua parte: per quanto in alcune occasioni si defilasse, in maniera nemmeno troppo dissimile a Mustang, per il resto lavorava alacremente e sembrava sinceramente interessato al futuro del paese. Attento all’amministrazione, alla burocrazia, all’esercito… non c’era ramo della vita di Amestris che non volesse controllare.
E mai una volta che la trattasse da ostaggio: era sempre e solo la sua assistente.
Era accattivante come personaggio, doveva ammetterlo: anche quando era serio non mancava di dimostrarsi magnetico. Se non avesse saputo gli altarini, sarebbe stato davvero difficile pensare la sua natura non era più umana e che avesse organizzato la guerra di Ishval a tavolino per chissà quale scopo.
 
“Tenente – la chiamò Bradley una mattina – annulla tutti i miei impegni: ho una faccenda molto delicata tra le mani che richiede tutta la mia attenzione”.
Riza stava per protestare, data la vastità di documenti che dovevano controllare. Ma se per Mustang non si sarebbe fatta problemi a esprimere le sue rimostranze, con il comandante supremo stette prudentemente in silenzio.
“Come desidera, eccellenza. Devo venire con lei?”
“No, non è necessario. Anzi se riuscissi a sbrogliare parte di quel carteggio a mio nome te ne sarei davvero grato – sorrise l’uomo, passandole accanto e mettendole una mano sulla spalla, un contatto forte e nelle intenzioni rassicurante, ma che non mancò di suscitarle uno strano brivido – con te sono sicuro di essere in ottime mani. Comunque dovrei tornare stasera sul tardi: se ci vediamo direttamente domani ti auguro già da adesso una buona serata”.
Come l’uomo fu andato via, Riza si chiese in cosa consistesse quella faccenda così delicata. Forse poteva riguardare la sua vera natura di homunculus o comunque qualcosa connesso con i piani di quelle creature.
Per una frazione di secondo fu tentata di indagare con discrezione, ma poi si disse che non poteva permettersi un rischio simile: non tanto per lei stessa quanto per tutti gli altri che restavano comunque nelle mani del nemico.
Ormai era passato più mese da quando la squadra era stata smembrata e le notizie che aveva degli altri erano poche e frammentarie. Non si potevano permettere comunicazioni troppo frequenti che avrebbero attirato l’attenzione dei loro carcerieri: dovevano più che mai affidarsi al buonsenso e ad un rapido ed efficiente passaparola. Uno si faceva sentire da un altro e così via in una catena di montaggio che alla fine riusciva a giungere a Central City e a loro.
Era così che lei ed il colonnello erano venuti a sapere del ferimento di Fury al fronte: fortunatamente non era stato niente di grave, ma dal breve rapporto che aveva fatto Breda sembrava che il ragazzo avesse subito un contraccolpo emotivo abbastanza pesante. Una cosa più che prevedibile data la realtà della trincea, ma anche inevitabile, così come inevitabile era stato il senso di colpa che aveva provato lei la sera stessa della notizia.
E lo stesso Breda era impegnato in un fronte caldo come quello ad Ovest: proprio come Fury non avevano perso tempo a trasferirlo nelle prime linee. Ma, per fortuna, il grosso soldato aveva ampia esperienza di quella tipologia di battaglia e se la stava cavando in maniera più che egregia.
E Falman a Briggs, in quella fortezza che sembrava ai confini del mondo. L’unica consolazione era che lì la situazione era relativamente calma e che dunque non c’erano battaglie che mettessero a rischio l’incolumità del maresciallo. Del resto Briggs era sotto il comando del Generale Armstrong e Riza sapeva quanto valesse quella donna: l’aveva conosciuta durante gli addestramenti congiunti e conosceva bene il suo carattere e la sua tempra, tanto che le riusciva inverosimile pensare che lei e quel bonaccione del maggiore fossero fratelli.
Guardando con aria malinconica la pila di documenti che avrebbe dovuto sbrigare da sola, rifletté sul fatto che quel giorno era previsto un contatto e questo bastò a rallegrarle la mattinata. Era era un segnale che erano ancora lì, caparbi e tenaci fino all’ultimo.
 
Era impossibile usare il telefono di casa data l’elevata probabilità che fosse tenuto sotto controllo.
Ma il team aveva un suo componente in ospedale e lì i telefoni pubblici non mancavano.
Havoc aveva iniziato la riabilitazione per rimettere in sesto la schiena e questo gli consentiva di poter usare la sedia a rotelle per un paio di ore al giorno: in questo modo si poteva concedere qualche momento d’aria in cortile, spezzando così la monotonia della sua camera ormai vuota, ma soprattutto gli permetteva di andare nella sala dove si trovavano i telefoni.
Riza non aveva mai smesso di fargli visita regolarmente.
Con il colonnello i rapporti erano più che mai proibiti, ma con il sottotenente ormai in congedo non c’erano delle restrizioni. Del resto Havoc era con tutta probabilità considerato come tagliato fuori dai giochi e dunque andare a visitarlo non veniva visto con sospetto.
Così, nella pausa pranzo, non mancò di trovarsi nel cortile dell’ospedale, accanto al suo amico che spingeva da solo la sua sedia a rotelle. Faceva freddo dato che erano a gennaio, ma lui indossava solo una giacca di lana sopra il camice da paziente, segno che ormai aveva del tutto recuperato la forma fisica, eccettuate le gambe.
“Com’è andata oggi col grande capo?” le chiese il biondo.
“L’ho visto ben poco dato che si è allontanato a metà mattina: ha detto che c’era una faccenda delicata che richiedeva tutta la sua attenzione”.
“Mphf – sbuffò Havoc – sembra quasi la strega che cerca di attirare i bambini nella casetta di dolciumi. Non è che stava solo cercando di farle fare un passo falso?”
“Ammetto che l’ho pensato – scrollò le spalle Riza – ma non ho ceduto alla tentazione, non me lo posso permettere. Però potrebbe riguardare il generale Raven: è andato a Briggs qualche giorno fa per non so quale motivo, ma penso che fosse una cosa abbastanza importante”.
“Quello che ha fregato il colonnello? Beh, direi che è da tenere d’occhio, così come tutto lo stato maggiore dell’esercito. Chissà se alla prossima chiamata Falman mi saprà dire qualcosa in più”.
“A proposito di chiamate, non hai niente da dirmi?”
“Ho sentito Breda proprio ieri e lui a sua volta ha sentito Falman e Fury: sono tutti sani e salvi”.
“Questo è un vero sollievo – annuì Riza – notizie più specifiche?”
“Il sergente è completamente guarito dalla ferita tanto che è stato rimandato nelle prime linee. Hanno avuto la decenza di non usarlo come semplice soldato, ma di dargli un ruolo più consono alle sue capacità: adesso si occupa di creare un apparato di comunicazione dietro le trincee. Certo, corre sempre dei bei rischi, ma almeno è tornato a fare qualcosa di cui è capace e questo dovrebbe essere un nuovo stimolo per lui – Havoc fermò la sedia a rotelle accanto ad una panchina, in modo che la donna potesse sedersi – si faccia forza, signora: direi che il ragazzino ha superato anche questo battesimo del fuoco”.
“Non era questa l’esperienza che volevamo per lui, ma è inutile rimuginarsi sopra. Che mi dici di Breda e Falman?”
“Il nostro maresciallo si gela nel freddo nord: ormai è di stanza a Briggs, ma da quanto so ogni tanto gli è concesso di tornare a North City. Probabilmente è un modo per non impazzire del tutto in quel posto così fuori dal mondo. Sono arrivati i fratelli Elric lì, lo sapeva?”
L’occhiata che le lanciarono quegli occhi azzurri era carica di sottintesi e la donna fece un rapido sorriso.
“Davvero? No, non ne avevo la minima idea – mentì, consapevole che Havoc avrebbe capito – chissà come ci saranno rimasti nel scoprire che al comando della fortezza c’è la sorella del maggiore”.
“Misteri – sogghignò il sottotenente – comunque le giornate di Falman sono scandite dallo staccare pezzi di ghiaccio e, se è fortunato, qualche lavoro nei magazzini. Poveri scemi, il freddo li ha così rincoglioniti da non sapere che soldato d’eccezione hanno tra di loro. Ma quelli del nord non hanno mai fatto caso a queste finezze, me ne ero accorto già negli addestramenti congiunti”.
Era strano sentire Havoc tessere le lodi di Falman in maniera così palese. Erano due tipologie di soldato così differente che spesso avevano bisogno del ponte di qualcuno come Breda per riuscire a comprendersi. Non che fosse mancata l’amicizia o la stima tra di loro, semplicemente avevano due modi di operare differenti.
“Ed invece Breda?” chiese per cambiare argomento.
“Quel bestione ha avuto il tempo di provare le specialità dell’Ovest e dice che non sono affatto male. Ci pensa, signora? Quello viene mandato a combattere, ma non manca mai di farsi uno spuntino”.
Forse avrebbe aggiunto anche altro, ma poi serrò le labbra: parlare del suo migliore amico non era mai semplice; era chiaro che Havoc vedesse quasi come una mancanza personale il fatto di non essere accanto a lui in simili momenti.
“Mi mancano i suoi spuntini: ammetto che il cibo della mensa non è il massimo” commentò Riza per cambiare argomento.
“Se vuole facciamo cambio con il pasto schifoso dell’ospedale. Sono stanco di brodini e pesce lesso che non sa di nulla: dovrebbero capire che non sono più malato e che un pasto più decente non rischia di farmi male, tutt’altro”.
“Siamo stati viziati troppo, è questa la verità. Piuttosto – esitò qualche secondo prima di fare quella domanda con noncuranza – il colonnello è venuto a trovarti?”
“Presumo verrà dopodomani: in genere viene ogni quattro giorni: certo che non vi beccate mai… sembra quasi che l’abbiate fatto apposta di sincronizzarvi così”.
“Ma quando mai”.
“L’ha più visto al Quartier Generale?”
“Operiamo in sezioni differenti e abbiamo le giornate molto impegnate: da quanto so ha smesso di fare il lavativo e si sta dando da fare, ma queste sono le classiche voci di corridoio”.
“Quindi tutto bene, vero?”
“Tutto bene…” sospirò Riza.
 
Quella sera finì di lavorare davvero tardi e sulla scrivania le rimasero solo dei documenti molto importanti da far vedere al Comandante Supremo. Non le era mai capitato di prendere un’iniziativa simile, ma l’urgenza era tale che decise di portarli direttamente nella sua dimora privata.
Non era mai stata in quella zona che era racchiusa entro le mura del Quartier Generale: sembrava quasi di uscire dal mondo militare, tramite un portico, ed entrare in una bella tenuta nobiliare. Furono solo le guardie del corpo così presenti a ricordarle che quella villa era sotto stretta sorveglianza.
Ad aprirle fu un sorridente maggiordomo, ma non fece in tempo a dire una parola che subito una donna apparve sulle scale.
“Salve, ma lei chi è?” domandò.
“Signora, perdoni l’ora – rispose con educazione – sono il tenente Riza Hawkeye, guardia personale di sua eccellenza, il comandante supremo. Sono venuta a recapitare questi documenti urgenti a sua eccellenza”.
“Accipicchia, povera ragazza – commentò la donna – lavorare fino a quest’ora dev’essere duro”.
La signora Bradley le ispirò immediata simpatia: era una donna ormai matura, dal viso sorridente e gentile, una di quelle persone pacate che tendono ad emanare serenità e calma. A Riza venne spontaneo domandarsi come dovesse essere il comandante supremo come marito, ma dal sorriso che fece la donna parve chiaro che il loro matrimonio fosse felice.
Che strana idea – pensò mentre parlavano – lei non è consapevole della vera natura del marito. Possibile che siano in grado di mescolarsi a noi fino a questo punto? A ben pensarci nemmeno Havoc ha sospettato qualcosa della donna che si faceva chiamare Solaris.
I suoi pensieri, tuttavia, così come le sue parole, vennero interrotti da un qualcosa di tremendamente viscido e forte che le arrivò alle spalle. Non fu un vero e proprio impatto fisico, eppure trovò istintivo girarsi e fu solo per autocontrollo che non tirò fuori la pistola.
“Selim, sei ancora sveglio?” chiese la signora Bradley, mentre il bambino sorrideva docilmente a Riza.
“Signorino Selim…”
“Sì – ammise lui con voce innocente – ho sentito qualcuno entrare e ho pensato fosse papà”.
 
Selim Bradley appariva come un bambino gentile e carino, il figlio ideale per quella coppia così particolare come i Bradley. A pensarci bene per una donna così buona come la signora, non poteva esserci benedizione migliore di quel bambino adottato: amorevole, riconoscente, educato.
Eppure quello stesso bambino, nemmeno cinque minuti dopo che Riza l’aveva conosciuto, l’aveva intrappolata con decine di piccoli tentacoli che erano scivolati attorno al suo corpo. Una sensazione viscida e tagliente, molto peggio di quello che aveva provato quando Gluttony l’aveva quasi soffocata con le sue enormi mani. Dove Gluttony era goffo, Pride, il primo homunculus, era invece potente come una frusta che ti colpisce e ti cattura, come le spire di un serpente che si avvolgono sempre più strette attorno alla tua persona soffocandoti.
“Io la terrò sempre d’occhio dall’oscurità”.
La sua vera voce era così strana: aveva un non so che di riecheggiante e sovrannaturale che, tuttavia, in qualche modo si ricollegava a quella squillante del piccolo Selim. Era come se la voce infantile fosse stata corrotta e stuprata per dar luogo a quella del primo homunculus.
Proprio quella voce riecheggiante che l’aveva minacciata tacque e di colpo tutti i tentacolini neri che avvolgevano il suo corpo si tirarono indietro. Contemporaneamente il portico si svuotò della presenza di Pride e fu una cosa così rapida che, per qualche secondo, parve davvero inverosimile che fino a poco prima fosse stato lì.
Girandosi a guardare in quel portico fiocamente illuminato dalla luce della luna e dei lampioni che stavano nel giardino, Riza non vide niente di sospetto: nessuna traccia dei tentacoli che l’avevano imprigionata, l’unica prova restava quel taglietto sulla guancia… dove quella minuscola manina l’aveva accarezzata con quella che poteva definire brama, prima di diventare una piccola lama e inciderle la pelle.
Come era riuscita a mantenere la calma e gestire il gioco psicologico con quella creatura era un mistero che nemmeno lei riusciva a spiegare.
Si costrinse a riprendere il suo cammino, ad allontanarsi il più possibile da quel posto per avere almeno l’illusione di andare al sicuro. Sapeva benissimo che le minacce di Pride non erano fatte così per caso, non erano il gioco di un bambino. La forza e l’onnipresenza che aveva recepito in quei tremendi minuti erano tali da farle capire che poteva essere raggiunta da un momento all’altro.
Sì, era un ostaggio bello e buono e se fino a poco prima le avevano in qualche modo alleggerito questo ruolo, ci aveva pensato Pride a ricordarglielo.
“Se ciò che è successo qui arrivasse alle orecchie di qualcuno lei sa cosa accadrebbe, vero? I suoi compagni, colonnello Mustang compreso, ne pagherebbero le conseguenze”.
Ecco il sottile filo rosso che legava tutti loro, la ragnatela dove erano caduti. Lei era intrappolata proprio al centro, senza possibilità di chiedere aiuto.
 
Uscita dalle mura del Quartier Generale cercò di respirare meglio ma non ci riusciva.
Ogni angolo, ogni strada, ogni ombra che incontrava le sembravano un tremendo pericolo, come se Pride potesse spuntare da un momento all’altro… perché lui era in grado di farlo. Ne aveva terrore, le sembrava di aver ingaggiato una gara con un avversario molto più forte di lei e talmente imprevedibile da poter cambiare idea in ogni momento.
Se aveva creduto di sentirsi sola fino a quella mattina, adesso capiva l’abisso di isolamento in cui era capitata, come se quei tentacoli fossero onnipresenti e creassero un vuoto attorno a lei, impedendole di comunicare con chiunque.
Ebbe paura per se stessa, per Havoc che era andata a trovare quella mattina: possibile che la strana libertà che aveva avuto facesse davvero solo parte di un gioco che avevano fatto con lei?
Con questo magone, unito al terrore per quanto aveva appena vissuto, raggiunse finalmente il suo appartamento ed aprì la porta.
Immediatamente le scese un colpo al cuore nel vedere due occhi rossi che la fissavano dal buio, ma poi Hayate si fece avanti nel fascio di luce proiettato dalla porta aperta e la scrutò con curiosità. Il sollievo fu tale che, chiusa la porta, si lasciò scivolare contro di essa, sentendo le gambe mancare.
“Non preoccuparti, va tutto bene… tutto bene…”
Lo disse al cane o a se stessa? Forse la seconda, anzi sicuramente la seconda.
Ma la sua voce le sembrava così flebile: si sentiva come quando era rimasta rannicchiata sotto il tavolo mentre suo padre sfogava la rabbia per l’andata via del suo unico allievo. Impotente e sola contro una tempesta che infuriava attorno a lei. Ma adesso non c’era una signorina Elliot dalla quale rifugiarsi, non c’era una cioccolata calda a darle conforto, né delle morbide coperte nelle quali risvegliarsi con le membra finalmente rilassate dopo tanto penare. Se la ragazzina poteva esser salvata, la soldatessa no e…
Driiin… Driiin
Quel suono così improvviso e sgradevole la fece sussultare: alzò lo sguardo verso il telefono che stava sopra il tavolo.
Chi poteva chiamarla a quell’ora e dopo quello che era successo? Dovette farsi coraggio per alzarsi in piedi ed andare ad alzare la cornetta.
Era Selim o chi per lui che la minacciava? Era qualcuno che le comunicava la morte di uno dei suoi compagni o del colonnello stesso? Sarebbe stata tutta colpa sua! Per aver scoperto quel dannato segreto.
“Sì?” rispose con voce più salda che poteva.
Grazie per aver chiamato! Parla il suo fioraio preferito!”
La voce era allegra e squillante, conosciuta sebbene fossero ormai settimane che non aveva occasione di sentirla. Veniva a salvarla ancora una volta, come solo lui era in grado di fare: d’improvviso i tentacoli invisibili che ancora immaginava attorno a lei scomparvero, spaventati da quel qualcosa di umano e tangibile che le provocava un’ondata di sollievo in tutto il corpo, persino nel taglietto sulla guancia che ancora bruciava.
“Guardi che non ho nessun fioraio preferito” disse con voce seria e persino seccata, ma in realtà avrebbe voluto piangere lacrime di gioia.
“Scusa… mi sono ubriacato così tanto che alla fine ho comprato una montagna di fiori. Ti sarei grato se potessi aiutarmi a disfarmene”.
Tra tutte le idiozie che poteva dire, questa era la più assurda. Ma almeno era lì, al telefono con lei, vivo e vegeto dato che era in grado di combinare cavolate come quella.
Forse Pride avrebbe mantenuto la sua parola, forse non avrebbe fatto niente fino a quando lei avrebbe tenuto il silenzio.
“Che c’è? – la voce al telefono si fece improvvisamente seria – è successo qualcosa?”
Di colpo capì che Mustang doveva aver intuito il disagio che si era celato dietro il suo mutismo. Dovette serrare le labbra per cacciare via la voglia di raccontargli quanto era successo e condividere il suo terrore. Ma non se lo poteva permette.
“No, niente” si costrinse a dire.
“E’ davvero così? Ne sei proprio sicura?”
“Niente, non è successo niente – annuì e poi, per disperazione, si riagganciò all’inizio della chiamata – no grazie, a ogni modo in casa non ho nessun vaso di fiori. Comunque grazie per avermelo chiesto, colonnello…”
Riagganciò il telefono con un sospiro, come se dopo averlo chiamato, invocato, avesse esaurito tutte le energie residue. Trovò solo la forza di inginocchiarsi sul pavimento ed abbracciare Hayate. Si sentiva sollevata, come se per quella notte l’incubo fosse stato allontanato.
“Chissà perché ha sempre un tempismo così perfetto…” mormorò con un lieve sorriso.
 
La signorina Elliot le aveva insegnato ad andare avanti, a superare le difficoltà: il giorno dopo la scenataccia di suo padre era tornata a casa ed era riuscita a riprendere in mano la situazione, un fatto più encomiabile per una ragazzina.
La soldatessa continuava a seguire quegli insegnamenti e così la mattina dopo andò a lavoro come se non fosse accaduto niente. La notte era riuscita a dormire profondamente, confortata dalla presenza di Hayate accanto a lei, ma soprattutto da quella voce amica ancora così tangibile nella sua testa.
Quando arrivò il comandante supremo, ringraziandola per i documenti portati a casa sua, rispose con la solita educazione, come se niente fosse. A dire il vero Bradley sembrava completamente all’oscuro della scoperta che aveva fatto su suo figlio, ma Riza ormai era completamente al di fuori di quello strano gioco che la vedeva non come ostaggio ma solo come assistente. Ormai non c’era cortesia o sorriso che l’avrebbe spiazzata.
E così la sua mattinata proseguì senza intoppi, con il solito lavoro incessante.
Fu quasi un sollievo avere la pausa pranzo, sebbene il cibo della mensa non fosse un granché, proprio come aveva detto più volte Breda.
“E’ libero qui?” chiese una voce all’improvviso.
Alzando lo sguardo vide Mustang con il vassoio in mano.
Per un secondo si chiese cosa gli fosse saltato in mente per esporsi in una simile maniera. Erano riusciti a non incontrarsi mai in quel periodo, perché adesso cambiava così le regole del gioco?
Sei una stupida, è ovvio che dopo la chiamata di ieri si sia preoccupato per te.
Ecco il principe azzurro delle favole che veniva a salvarla, a sincerarsi che stesse bene. Nelle vesti di fioraio oppure di colonnello oberato di lavoro, come dimostravano i fascicoli che si portava dietro, lui trovava sempre il modo.
“Colonnello – salutò, abbassando immediatamente lo sguardo sul piatto e facendosi più seria che poteva, come se lei non fosse la prima felice di quest’incontro – prego”.
“Ehi, siamo di buon umore – commentò sarcasticamente lui, sedendosi – successo qualcosa di spiacevole?”
Riza fu sicura che si riferisse al taglietto che ancora spiccava sulla sua guancia, come un sottile filo rosso.
Il ricordo di quei tentacolini viscidi tornò prepotente alla sua memoria e dovette reprimere un brivido.
Ma nel contempo qualcosa si risvegliò in lei, quello stesso insegnamento della signorina Elliot di andare avanti. E a recepirlo fu la guardia del corpo del colonnello Mustang, il tenente della squadra.
Quella che conosceva alla perfezione il linguaggio in codice che avevano creato con tanta pazienza e lavoro di squadra.
“No, niente – disse con calma – come va il lavoro?”
“Come vedi – rispose lui – i miei migliori aiutanti sono andati e spesso devo lavorare anche la pausa pranzo. A te invece come va?”
Parlarono ancora qualche minuto del più e del meno, dei rispettivi lavoro, come se quella fosse una semplice chiacchierata tra due soldati che non si vedono da qualche tempo. Ma poi, quando Mustang fece un riferimento al generale Armstrong, appena giunto a Central, Riza colse la palla al balzo.
“A proposito del nord…” iniziò, battendo la tazza sul tavolo in una determinata maniera.
Lo sguardo degli occhi scuri fu chiarissimo: aveva capito.
Adesso vi facciamo vedere come lavora una squadra – pensò con soddisfazione mentre iniziava a pensare ai nomi da dire.
 
“Sembra che tu sia al corrente di Selim, eh?” chiese Bradley il giorno dopo, mentre lei gli preparava il solito the.
“Sì” rispose con calma.
“E sei anche al corrente della mia vera identità, non è così?”
A quella seconda domanda Riza si sorprese. Possibile che credesse che ancora ne era all’oscuro? Oppure era solo un’altra falla nel sistema degli homunculus?
“Sì – ammise ancora – adesso che so tutto mi ucciderà?”
Riuscì a restare fredda davanti a quell’evenienza, pronta ad accettare una morte istantanea impossibile da evitare. Tuttavia qualcosa le diceva che non sarebbe andata così.
E comunque non sono solo io a saperlo, eccellenza. Non ci avete tarpato le ali come pensavate.
Gli sputò in faccia tutta la verità, com’era solita fare: con garbo ed educazione. E lui fu altrettanto gentile ad esporre le sue ragioni, quello che gli era stato donato da qualcuno di molto più potente.
“… tuttavia mia moglie l’ho scelta io”.
A quell’ultima dichiarazione Riza sgranò leggermente gli occhi.
Pensò a quella donna così dolce ed umana che viveva in compagnia di due mostri senza esserne consapevole, che a loro dava tutto l’amore di questo mondo. Si sentì arrabbiata per lei, per la menzogna in cui l’avevano avvolta… quella nota di strano orgoglio che aveva sentito nella voce di Bradley doveva essere solo una nuova bugia.
“Devo ancora aspettare molto per il mio the?”
“Ah, eccolo…” si riscosse, portandogli la tazza.
Lui lo sorseggiò, assaporandone pienamente il sapore, un gesto così incredibilmente umano come solo lui poteva fare. Né Gluttony né Pride avevano una simile capacità.
“Mh, ottimo…” commentò soddisfatto.
Dannazione a te King Bradley, ma chi diavolo sei?

 






__________________________-
Primo del mese e nuovo capitolo che, per fortuna, è venuto fuori senza troppe difficoltà.
La mia partenza per le vacanze è prevista per il 21, ma credo di potercela fare a finire la storia, considerando che mancano al massimo cinque capitoli 

 
  
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