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Autore: emmejay    04/07/2016    1 recensioni
"E non è vero che il tempo aggiusta le cose, che andando avanti si dimentica, perché la tua assenza brucia ancora come il primo giorno, come il primo attimo."
Genere: Malinconico, Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Oggi nell’armadio ho trovato un vecchio giubbotto, uno che non mettevo da anni, che avevo messo da parte perché “ma non va più di moda”  e “ ora si portano corti”. L’ho provato e guardandomi allo specchio mi sono ricordata perché mi piaceva tanto. Ho riscoperto la morbidezza di quel tessuto verde sulla pelle e vagando con le mani ho ritrovato quel buchino nella tasca destra dove immancabilmente perdevo una quantità inimmaginabile di filtri e centesimi. Ogni volta mi prendevi in giro, perché che ci voleva a metterli nell’altra tasca tutti quei piccoli soldini, che custodivo gelosamente come una bambina col suo primo salvadanaio. In quella tasca ci mettevo tutto, nonostante sapessi che era rotta, e ogni volta poi mi ritrovavo a non avere i soldi per comprare il tabacco e tu sorridendo mi tiravi una monetina fuori dall’orecchio, con quello stesso stupido trucco di magia che avevi usato la sera che ci siamo conosciuti. 

Ci avevo messo anche il tuo numero in quel giubbotto, scritto velocemente su un sottobicchiere del bar sporco di birra e buttato passando di fianco al primo cestino perché “se crede di rimorchiarmi con un trucco di prestigio è proprio un coglione”. Per ritrovarmi sei sceso ogni giorno in quello stesso bar, sedendoti al bancone e fissando la porta, con una pazienza e una determinazione che mai avrei pensato di ispirare in qualcuno. Alla fine quel numero me lo hai riscritto, ma stavolta guardandolo ho sorriso e me lo sono tenuto stretto fino a casa. 

Erano le piccole cose a renderci speciali, io con il mio disordine e la mia diffidenza e tu con la tua solarità e i tuoi trucchi di magia. E la tua macchina che per il nostro primo appuntamento odorava di lavanda, perché ti avevo detto che era il mio fiore preferito, e io che non mettevo più il rossetto perché dicevi che così non riuscivi a sentire il mio sapore, e quelle notti passate sotto una coperta, sul tuo minuscolo letto da universitario, in cui ci raccontavamo la vita, non la mia, non la tua, ma la nostra, la vita che sarebbe stata, che vita che poteva, la vita che doveva.  

Sono passati due anni da quando te ne sei andato, perché qui non avevi un futuro, perché noi non potevamo averne uno, da quando hai preso quell’aereo senza voltarti indietro per un ultimo bacio, e nei tuoi occhi ho letto la sconfitta. Sono passati due anni da quella chiamata fatta dall’altro capo del mondo, da quel “non ce la faccio”, sussurrato come un peccato, come una colpa inespiabile, da quel “ti amerò per sempre” che sapeva di rimpianto, che sapeva dei tuoi baci e delle tue carezze e di tutte quelle promesse fatte e infrante, dissolte in un futuro avverso e nemico.  

Sono passati due anni e la magia è svanita, così come l’odore della lavanda, mentre i rossetti in bagno sono aumentati a dismisura. È svanito quel letto in cui ci stavamo stretti e caldi, dove il tuo corpo sembrava il proseguimento del mio, sostituito da uno più grande e più freddo. Sono svanite le tue mani e i tuoi baci sulle clavicole e il segno della tua barba sul collo, e il tuo odore, il tuo sorriso e la tua speranza, e un po’ sono svanita anche io, che inutilmente ancora aspetto il tuo ritorno. 

E non è vero che il tempo aggiusta le cose, che andando avanti si dimentica, perché la tua assenza brucia ancora come il primo giorno, come il primo attimo. E ancora una volta mi ritrovo qui a pensarti e a chiedermi se magari, anche tu, dovunque ti trovi in questo momento, pensi ancora a me, se anche tu, lentamente, stai svanendo.

  
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