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Autore: LuigiPugilista    12/07/2016    1 recensioni
Pokémon Go ha cambiato il mondo. Ma in peggio.
Cataclismi e cannibalismo sono normali nel mondo post-Pokémon Go.
Genere: Fantasy, Malinconico, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Red
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Videogioco
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"Dottor Morimoto, intende farlo davvero? Sa benissimo che i rischi sono ben oltre il livello di guardia, l'area é sottoposta a quarantena mondiale da parte dell'OMS, non possiamo andare, non possiamo farlo."
 
Il professor Nakamura era madido di sudore. Il suo viso, bianco come quello di un cadavere, era imperlato da minuscole gocciole che non smettevano di sgorgare dalla sua faccia.  Aveva appena saputo quella che sarebbe stata la sua missione, il viaggio più pericoloso mai fatto dall'uomo dai tempi dell'esplorazione dei corpi astrali. 
Non che io fossi meno in ansia, sia chiaro, ma sapevo a cosa andavo incontro e sapevo le probabili conseguenze di tutto ciò: non c'erano altre alternative. 
"Professore" dissi con un tono volutamente piatto e che non lasciava trapelare alcun tipo di emozione "Lei sa, come me, che non ci sono altre alternative. Sa anche che la responsabilità é, quantomeno in parte, anche nostra. Saluti la sua famiglia e i suoi amici: l'aereo partirá per la zona contaminata domani".
Lo fissai. Stava tremando.
 
Il cielo era limpido sulla pista di atterraggio. Nemmeno una nuvola macchiava quell'enorme tavola azzurra che era il cielo. Che fosse un buon auspicio? Chi può dirlo. Sapevo soltanto che ogni forma di aiuto, anche spirituale, perché no?, ci sarebbe stata utile. Capivo come si sentivano i grandi esploratori dell'antichità, che partivano da un mondo a loro caro alla scoperta di nuove esistenze e nuove idee. 
Anche noi partivamo alla ricerca di nuove idee, in un certo senso. 
Avevamo ricevuto un segnale proveniente dal'altra parte del pianeta circa due mesi prima della nostra partenza. Il messaggio era di speranza: una nuova luce, forse, aveva cominciato a brillare sul nostro pianeta ormai in delirio. 
In tre anni tutti i progressi che aveva portato la globalizzazione erano spariti, facendoci regredire di almeno tre secoli. Le poche tecnologie rimaste intatte erano state affidate a noi scienziati, col compito di trovare una cura, un antidoto, una soluzione. 
La prima a capire che qualcosa non stava più funzionando a dovere era stata la Cina. Quei dannati cinesi ne sanno una più del diavolo: avevano visto un calo dell'export nel primo semestre del 2018 e, visto che nessuno schema o previsione economica aveva messo in luce questa eventualità, avevano subito capito che qualcosa non stava funzionando in Occidente. Si erano quindi totalmente chiusi nel loro enorme paese e avevano puntato tutto sul commercio interno. 
Ad oggi, nel 2020, ancora nessuno sa cosa sia successo all'Impero di Mezzo. 
A noi, in ogni caso, é andata sicuramente peggio. Il tutto era iniziato con piccoli incidenti automobilistici, pedoni investiti e incauti ciclisti scontratisi con qualche auto, niente di allarmante. 
Il mondo prese coscienza del pericolo che stava correndo quando  una serie di incidenti aerei causó la morte di decine di migliaia di persone in pochi giorni e nelle autostrade di tutto il mondo il traffico era bloccato da catastrofici tamponamenti a catena. A quel punto, col commercio praticamente bloccato, scattó il panico: i Governi mondiali cercarono di attuare ogni tipo di provvedimento per contenere la follia collettiva, ma i capi di Stato capirono che era ormai troppo tardi quando un incidente nucleare distrusse tutto il nord della Germania. 
Da allora ciò che rimaneva dell'umanità era concentrato in Giappone, dove l'Imperatore aveva preso la saggia ma dura decisione di vietare ogni forma di tecnologia che non servisse per scopi scientifici, in Russia e in Sud America. L'OMS aveva dichiarata zona di quarantena tutto il nord dell'Atlantico, da San Francisco fino a Varsavia. 
Ma il segnale.
Già, il segnale. 
Proveniva da una zona che avevamo individuato in Londra. 
Diceva che c'era una speranza, c'era una possibilità di rimettere le cose a posto. 
L'aereo era pronto. Io un po' meno, il professor Nakamura per niente. 
Il colore del suo viso non era affatto cambiato, anzi, probabilmente era diventato ancora più funereo. 
"Professore, sappia che tutto ciò che stiamo facendo non é per vanagloria: é per il futuro nostro e dei nostri figli" 
Nakamura mi fissó: i suoi occhi castani si erano illuminati di una strana luce che avevo interpretato come speranza, ma forse era solo follia. 
"Andiamo e non facciamola tanto lunga, dottor Morimoto. Prima partiamo prima torniamo". 
L'aereo decolló e noi ingoiammo i sonniferi forniti dai militari. All'arrivo a Londra saremmo dovuti essere ben freschi e riposati. 
Cademmo in un sonno profondo. 
__________  

Aprii gli occhi. 
Una luce rosata illuminava un cielo dalle tinte pastello. 
"Scusi comandante, dove siamo?" chiesi al barbuto pilota che ci stava accompagnando. 
"Signore, dovremmo star sorvolando approssimativamente il canale della Manica. Siamo quasi arrivati a destinazione". 
Sotto di noi, in effetti, si stagliava una distesa di blu cobalto e, all'orizzonte, si vedeva quella che doveva essere la terra d'Albione. 
 
Dopo qualche turbolenza atterrammo nelle vicinanze del ponte di Westminster. Non fu una scelta dettata dalla pazzia nè dalla comodità: il virus si espandeva come le onde generate da un sasso gettato in acqua, nasceva nelle grandi metropoli e arrivava man mano nelle periferie. 
Quale zona più sicura, dunque, del centro di Londra? 
 
Presi il professore per mano e lo abbracciai. 
"Fatti forza. Ormai siamo qui, non torneremo indietro senza niente. Tanto vale che il nostro sacrificio sia servito a qualcosa." 
Lui annuì, col capo chino a fissarsi le scarpe. 
 
"Dottore, aspetti". 
Il comandante mi bloccò per una spalla mentre stavo per aprire il portellone. 
"Non verrò con voi perchè dovrò stare qui per rifornire l'aereo ed essere pronto a far rullare i motori non appena vi vedrò avvicinare, ma andare in giro, in questo mondo, senza alcuna protezione è folle. Prenda questa." Mi porse una pistola che non seppi riconoscere. Era nera, pesante, lucidissima. 
"Ha due proiettili. Non serviranno a molto se vorrete difendervi, ma serviranno nel caso..." 
Deglutì due volte e capii dove stava andando a parare. D'altronde la conclusione era logica: il governo non avrebbe permesso che due menti brillanti come noi facessero la fine del più inutile scarto della società. La soluzione era, ieri come allora, il suicidio d'onore. Certo, oggi la spada veniva sostituita da una più elegante pistola, ma il principio rimaneva lo stesso. Togliersi la vita per non farsela togliere o rubare.
"Buona fortuna, signori" ci congedò il militare.

Scendemmo dall'aereo e notammo l'assoluta mancanza di vita umana negli immediati dintorni. Nessun rumore interrompeva il cinguettio degli uccelli, nessun clacson entrava in competizione col garrito dei gabbiani.
Secondo il segnale il laboratorio del dottor Red si trovava in un bunker nascosto sotto Kennington Park, un giardino pubblico poco distante dal Tamigi, sul quale la mia vista si stava posando.
Fissai i gabbiani e riflettei su quanto questa condizione di caos non li avesse minimamente turbati.
Il mondo era a rotoli, tutto crollava ma la loro vita, il loro mondo, era esattamente uguale a prima.
Prendemmo una cartina da un negozio turistico desolatamente vuoto e ci incamminammo, attenti a non fare rumori o a compiere movimenti inconsulti.
Nakamura non pronunciò una parola per tutto il tragitto fino alla stazione di Vauxhall. Il suo sguardo non incrociava nient'altro che non fosse il terreno su cui camminava, il suo viso appariva ancora lugubre e tetro.
Non facevo fatica a capire il suo stato d'animo: si lasciava in Giappone due figli di nove e undici anni e una moglie sposata nei concitati momenti della crisi, temendo di non averne più possibilità.
Eravamo all'altezza del vicino stadio di cricket quando li vedemmo: un giovane, poco più che ventenne, zoppicava tenendo fisso il suo sguardo sulla mano chiusa a pugno all'altezza delle ginocchia. I suoi vestiti erano così consumati da essere strappati in più punti, il suo stomaco era gonfio come quello dei bambini africani, i suoi occhi erano rossi come le fiamme dell'inferno.
Continuammo a camminare lentamente, fino a lasciarcelo alle spalle, mentre proseguiva imperterrito a barcollare avanti ed indietro, con un ritmo che sembrava un ballo aborigeno.
Dovevamo stare attenti poichè secondo le ultime analisi gli infetti presentavano un'aggressività animalesca e bestiale, dovuta all'assoluta mancanza di contatto con la realtà e, anche, alla mancanza di cibo. Il cannibalismo era diventato la nuova normalità.

Arrivammo al parco e, fortunatamente, l'entrata sotterranea al bunker sembrava intatta.
A neanche un metro di distanza la porta blindata si aprì e la telecamera che prima non avevo notato si mosse.

__________________________

La luce all'interno del laboratorio interrato era verde acido, dato che i neon erano spenti e l'unica fonte di illuminazione erano gli schermi delle decine di computer e schermi per la sorveglianza.
"Benvenuti a Londra, miei gentili ospiti! Prego, seguitemi, vi ho già preparato un tè con i biscotti.
Certo, non sono le cinque del pomeriggio, ma cosa importa..."
Il dottore si avvicinò e ci strinse calorosamente la mano prima di accompagnarci nella cucina.
Era un uomo sulla mezza età, di carnagione chiara, con dei lunghi capelli castani che facevano da contorno ad una barba perfettamente rasata e a degli occhi blu come il ghiaccio polare.
La cucina altro non era che uno stanzino bianco (qui il neon era acceso) con qualche credenza e un piccolo piano cottura, sul quale era poggiata la teiera.
Io e Nakamura, stremati più psicologicamente che fisicamente ci buttammo su un divano, mentre il dottor Red metteva su un piattino dei biscotti al burro che poi ci offrì.
"Dottor Morimoto, professor Nakamura, vi stavo aspettando. Non nascondo che ho temuto per la vostra incolumità.
Di certo non si può dire che Londra sia ancora la patria dell'educazione britannica" sorrise poco prima di bere un sorso di tè da una tazza di porcellana finemente decorata.
"Sono lieto di essere arrivato a fare la sua conoscenza, dottore. E anzi" dissi mentre posai la tazza sul tavolo di legno color nocciola "credo sia meglio non perdere tempo con troppe formalità. L'ha detto lei che l'educazione britannica a Londra non è più di casa, no?"
Nakamura ringraziò per il tè e andò in bagno.
"Come darle torto!", esclamò Red ridendo di gusto, "Venga con me al piano di sotto, anche io non vedo l'ora di mostrare a qualcuno la fine di questa piaga che ci affligge."
Scese le scale ci ritrovammo in una sala buia, tetra e maleodorante.
"Vede", disse l'inglese nascosto dal buio della stanza, "sappiamo bene quanti danni ha creato Pokémon Go al nostro mondo. Ha distrutto il tessuto sociale, ha distrutto il tessuto produttivo, ha distrutto le nazioni."
Un colpo di tosse interruppe il discorso.
"Ma la soluzione non può essere tornare indietro di secoli eliminando la tecnologia dalle nostre vite. Non può essere rinunciare al nostro progresso e a tutto ciò che ci rendono più distanti dalla bestialità."
Una lampadina si accese.
Era lontana, proiettava una lunga ombra che dal centro della stanza mi raggiungeva.
Qualcosa si mosse sul pavimento.
Si accesero tutte le luci.
"Capisce che la soluzione logica al problema è stata solo una. Come si dice? Se non puoi batterli unisciti a loro?
E allora uniamoci."
La mia bocca si aprì senza che ne avessi controllo.
Gli occhi mi si sbarrarono e non riuscii a fare nient'altro che non fosse respirare a fatica.
Intorno a me una distesa di tubi contenevano uno strano liquido verdognolo.
In quel liquido galleggiavano... dei Pokémon?
Non credevo ai miei occhi.
"Non ho fatto altro che realizzare il sogno di tutti, di tutta l'umanità. Basta con l'aggressività, con la violenza, col cannibalismo!
Ho passato mesi in clausura per incrociare e modificare il DNA animale per creare questi mostriciattoli, coloro che ci accompagneranno in una nuova era di prosperità e felicità".
"Guardi questo" sibilò Red, indicando un tubo che conteneva quello che sembrava un uccello "è un Pidgeotto. L'ho ottenuto incrociando il DNA di un falco con quello di un piccione".
Misi la mano in tasca e impugnai la pistola.
Lui si mise a ridere sguaiatamente.
"Pensi davvero di sapere cosa stai facendo? Guarda sotto di te, sul pavimento."
Una pozza d'acqua aveva raggiunto l'altezza delle mie caviglie: come avevo fatto a non accorgermene prima?
Un movimento improvviso e il "Pidgeotto" prese la pistola che stavo impugnando per poi lanciarla chissà dove.
"Guarda meglio, mio buon amico, guardati intorno.
Questa è l'alba di un mondo nuovo.
L'alba di un mondo che abbiamo sognato fin da bambini.
E tu non ne farai parte."
Passeggiò verso un altro tubo e lo indicò con un gesto del capo.
"Qui c'era un Pikachu. C'ho messo del tempo eh, ma alla fine sono riuscito a incrociare l'organo elettrogeno delle torpedini, quei simpatici pesciolini che possono emettere delle scariche elettriche di 200 Volt, nel corpo di una nutria. Ma ci sono riuscito.
Ce l'ho fatta. E adesso..."
Un enorme ratto giallo si posizionò al centro della stanza.
Provai a urlare, ma nessun suono uscì dalla mia bocca.
"PIKACHU TUONOSHOCK!"
Un abbagliante lampo di luce eterea rischiarò l'angusto locale.
Un arco voltaico percorse la stanza, attraversando il pavimento guidato dall'argentea pozza d'acqua.
  
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