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Autore: Fannie Fiffi    14/07/2016    3 recensioni
[Bellarke; Modern!AU]
Clarke Griffin è una diciannovenne alla ricerca di se stessa, ma soprattutto alla ricerca di una verità ancora più grande di lei: quella riguardo la morte del padre.
Costretta a dover abbandonare le proprie ricerche per due anni, il suo mondo verrà nuovamente sconvolto quando conoscerà il suo nuovo vicino di casa, il giovane detective Bellamy Blake.
Genere: Romantico, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bellamy Blake, Clarke Griffin, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Ringrazio ognuno di voi per leggere, inserire fra le preferite/ricordate/seguite e per esserci. Vi ringrazio di cuore.
Il prossimo e ultimo capitolo verrà aggiornato al termine di questa settimana.



Ps: Ho cercato di essere il più accurata possibile dal punto di vista medico, ma le mie conoscenze sono frutto di ricerche su internet, per cui chiedo in anticipo venia per eventuali inaccuratezze. Per fortuna che studio Letteratura!!

 

Is It Any Wonder?


 
Thelonious Jaha fu trascinato in manette dal Mount Weather Hospital che ancora urlava di aver fatto la cosa giusta, di aver posto rimedio al contorto e assurdo piano di Jake ed Abby Griffin di trascorrere la vita insieme e di essere stato l’unico in grado di vedere com’era che le cose dovessero andare. Lui era la Luce che avrebbe portato la famiglia Griffin fuori dall’oscurità e l’avrebbero pagata cara per averlo fermato.

Nel bel mezzo della notte, il suo volto delirante era illuminato dai bagliori blu e rossi delle automobili del Dipartimento di Polizia e la sua voce coperta dalle sirene ancora accese mentre un agente gli piegava la testa per farlo entrare in macchina.

Al piano di sopra, Abigail cadde a terra, in ginocchio. Non sentì niente; non disse una parola né pianse una lacrima, ma il suo sguardo vacuo e perso da qualche parte sul muro bianco dell’ospedale che conosceva così bene bastò a impedire che il poliziotto che l’aveva informata dell’accaduto ponesse anche una sola domanda.

Cosa dire, d’altronde, a una madre che aveva appena saputo che suo marito aveva sparato alla figlia? Che aveva ucciso il primo uomo che avesse mai amato? Ma, soprattutto, che era tutta colpa sua?

« Voglio essere io. » Mugugnò dopo qualche minuto, ancora accasciata sul pavimento, gli occhi vuoti e vitrei fissati da qualche parte imprecisata della parete davanti a sé.

A quel punto un’infermiera si inginocchiò al suo fianco, posandole gentilmente una mano dietro la schiena e sfregando per fornirle qualsiasi tipo di conforto.

« Come, dottoressa? »

La più anziana tirò su con il naso e si passò il dorso della mano contro il volto. « Devo operare io mia figlia. »

Senza attendere risposta, si alzò in piedi di scatto e iniziò a camminare velocemente via dagli inservienti, infermieri e poliziotti che avevano appena visto il primario di Chirurgia crollare in mille pezzi davanti ai loro occhi.

« Dottoressa, torni qui! Non può farlo! » Urlarono alcuni di loro alle sue spalle, ma lei non se ne curò.

Il volto freddo e spietato in un’espressione di apatico torpore, Abby continuò a camminare senza sosta verso le sale operatorie, facendosi strada a forza di spallate e spintoni fra il personale inconsapevole di quello che fosse successo.

Non si fermò né quando i suoi dipendenti le gridarono dietro né quando uno di loro, coraggioso abbastanza da avvicinarsi, le afferrò il braccio tentando di fermarla.

« Toglimi le mani di dosso. » Intimò senza nemmeno guardarlo in faccia, strattonando finché non fu libera di continuare la sua avventata e disperata corsa verso sua figlia.

Più si disperdeva fra la folla, sfrecciando ai lati dei corridoi lattei, più si allontanava da chiunque sapesse della vergogna che stava provando in quel momento. Come aveva potuto permettere una simile atrocità? Come aveva fatto a essere così cieca?

Mai come allora, quando i suoi errori gravavano irrimediabilmente sulla vita di sua figlia, Abigail odiò se stessa. Si disprezzò nel profondo, e desiderò aprirsi il petto a mani nude per scavare fra la nebbia che stava provando e toccare l’ istinto irrazionale, selvaggio e animale che le gridava di raggiungerla, di salvarla, che le proiettava dinanzi agli occhi il volto più bello e dolce che avesse mai visto.

Le sue mani tremavano, ma non l’avrebbero fatto davanti al suo corpo nudo e spoglio, sporco e bagnato dal sangue che ancora non aveva visto, ma che ben conosceva. Era lo stesso che scorreva nelle sue vene. Lo stesso che tante volte le era sguazzato fra le dita attraverso guanti di lattice, ma che era sempre stato estraneo, sconosciuto.

Si fermò di scatto davanti al tabellone degli interventi, quasi superandolo, e riconobbe in meno di un attimo la sala in cui dirigersi.

Il suo petto era scosso da singhiozzi muti e i bordi del suo camice, l’attaccatura dei capelli completamente impregnati di sudore non appena arrivò alla sua destinazione, ma il primario si fece coraggio, trovò il modo di prendere un respiro profondo e si gettò con tutto il corpo contro l’entrata della porta.

Non vide niente e nessun altro se non il corpo di sua figlia coperto da un telo blu appena sotto le clavicole, al centro della sala operatoria, attraverso il vetro della sala lavaggio e vestizione del personale.

Il suo volto era ancora sporco di sangue laddove non lo copriva la mascherina per l’anestesia, i suoi capelli dorati erano raccolti indietro, arrossati e più scuri nel punto in cui si erano imbrattati del liquido denso, e le sue palpebre erano chiuse quasi delicatamente, con dolcezza, come se si fosse appena addormentata.

Come se non stesse lottando per riaprirli e tornare.

Lentamente, dopo qualche attimo, la donna riuscì a focalizzare altri dettagli: i medici attorno a lei, pronti e sicuri nei movimenti, intenti a toccarla, a curarla, a ripulirla dalla ferita con velocità e concentrazione.

« Preparate cinque milioni di unità di penicillina e le immunoglobuline antitetaniche. Verifico la profondità della cavità! » Li sentì urlare.

Medici che erano arrivati prima, che si stavano già occupando di Clarke meglio di quanto lei avrebbe mai potuto fare nelle condizioni in cui si ritrovava: incapace di parlare, di urlare, perfino di piangere. Persa, preda della desolazione, dello strazio che solo l’idea di sapere di essere stata capace di amare il mostro che le aveva rovinato la vita avrebbe potuto provocare. Come solo la consapevolezza di non aver proprio capito un bel niente poteva farla sentire.

Immobile in quella stanza, gli occhi sbarrati puntati sul corpo inerte di sua figlia e il cuore che le batteva al centro della gola, Abigail Griffin realizzò che tutta la sua vita era stata appena smascherata quale un’enorme, gigantesca e sterminata bugia.


 
 

 
*





Octavia arrivò al piano di Traumatologia con il respiro mozzato e il petto che faceva spasmodicamente su e giù, senza riuscire a formulare un pensiero coerente, ma solo preda dell’istinto irrefrenabile e brutale che la spingeva a cercare il viso di suo fratello.

L’ospedale l’aveva chiamata da appena dieci minuti, informandola del fatto che l’agente Blake fosse stato ferito durante una colluttazione e che dovesse essere trattenuto sotto osservazione, e lei era saltata in macchina ancor prima di attaccare.

Tentando di tenere sotto controllo il respiro, si avvicinò alla scrivania d’informazione e chiese a mezza voce quale fosse la sua stanza, e ruotò su se stessa con ogni energia per arrivare da lui.

Lo vide attraverso la vetrata; era sdraiato su uno di quei letti in cui tante volte prima era stata sdraiata la loro madre, e fu abbastanza per boccheggiare, per tremare un po’ più a fondo, perché si accorgeva solo ora di non essere ancora pronta a vedere di nuovo qualcuno che amava in una stanza simile. Forse, le suggerì la parte della sua mente che era rimasta cosciente per tutto il tempo, non lo sarebbe stata mai.

All’interno, un’infermiera le dava le spalle ed era seduta al bordo del materasso, intenta a ripulirlo dal sangue sul suo volto e poi, dopo qualche istante, a suturarlo nei punti in cui i tagli erano troppo profondi per rimarginarsi da soli. La minore dei Blake osservò il processo per tutto il tempo senza staccare gli occhi dal suo viso, stringendosi le braccia al petto e affondando una mano fra i capelli sciolti attorno le spalle.

Era incredibile, ma quella era la prima volta che lo vedeva dormire con tranquillità dopo intere settimane.

Quando, concluse le procedure necessarie, l’infermiera uscì dalla stanza, Octavia le si avvicinò.

« Posso entrare? » Domandò, senza preamboli o presentazioni, serrando la mascella e gettando un’occhiata verso suo fratello.

« Tu devi essere sua sorella. » Annuì la donna, evidentemente poco più grande di Bellamy. « Non faceva altro che chiedere di te… E di Clarke. »

« Clarke? » La mora aggrottò le sopracciglia, confusa. Al telefono nessuno le aveva spiegato cosa fosse esattamente successo, e non aveva avuto la minima idea che potesse coinvolgere anche lei.

« A quanto pare il suo patrigno la stava tenendo nascosta qui, in ospedale. È stato Bellamy a trovarli. »

« Aspett- Cosa? Il suo patrigno? Cioè, Thelonious? Il marito della signora Griffin? Oh mio Dio, lei dov’è? »

A quel punto l’infermiera abbassò lo sguardo, e il suo volto mutò in un’espressione afflitta e turbata. 

Per un istante, Octavia temette il peggio.

« Le ha sparato. Non so cosa sia successo dopo, io mi sono occupata di tuo fratello, ma non ho sentito niente di buono. Lei… lei è mia amica. »

« Ehi… » Si fece un po’ più vicina, posando la mano destra sulla spalla dell’infermiera e attendendo che lei le dicesse il suo nome.

« Gina. »

« Ehi, Gina, non preoccuparti. Clarke ha la pellaccia tosta. Andrà tutto bene, ne sono sicura. » Tentò invano di sorridere per convalidare la propria tesi, ma probabilmente le riuscì solo una smorfia poco graziosa.

« Dovresti stare con Bellamy. Sta bene, non ha niente di grave se non qualche contusione e brutti lividi, è solo veramente esausto. Avrà bisogno di te quando si sveglierà. »

La più giovane si limitò ad annuire con fierezza e determinazione, dirigendosi immediatamente all’interno della stanza e salutando l’altra con un cenno della mano.

Si bloccò per qualche istante a guardarlo da lontano, assopito e pieno di lividi sugli zigomi, sul sopracciglio destro e sotto le labbra, ma vivo e salvo in un letto caldo. Il suo fratellone.

Il suo fratellone e il dolore che si portava sempre dietro e gli estremi tentativi con cui cercava di farsi perdonare dagli altri anche per ciò che non era colpa sua.

Questa volta, Octavia lo sapeva bene, sarebbe stato ancor più difficile convincerlo a non ritenersi responsabile di quello che era successo o stava per succedere. Ma lei non gli avrebbe permesso di buttarsi giù, di odiarsi più di quanto già non facesse per qualcosa che prescindeva in ogni caso dal suo controllo, che lui non avrebbe potuto fermare senza farsi prima ammazzare.

Lei lo avrebbe amato abbastanza per tutti e due, per tutte le volte che lui non era né sarebbe stato in grado di accettarsi, e sarebbero restati insieme, qualunque cosa fosse successa.

Non permetterò che ti accada nulla di male, fratellone. Questa volta sarò io a proteggerti.

Pertanto, attenta a non colpirlo o a schiacciarlo, la minore dei Blake si sdraiò con delicatezza e cautela al suo fianco, poggiando piano il capo contro il cuscino e la guancia contro la sua spalla.

Si strinse al suo corpo addormentato e si appoggiò contro di lui, afferrandogli la mano e intrecciando le loro dita, e rimase a fissare la parete della stanza finché il sonno non la costrinse ad abbandonarsi alla stanchezza, senza che se ne rendesse nemmeno conto.
 
 
 

Poche ore dopo, l’alba aveva portato la luce di un nuovo giorno e alcuni tiepidi raggi di sole avevano iniziato a illuminare le grandi vetrate del Mount Weather Hospital.

La struttura era silenziosa, sembrava come in attesa, il tempo sospeso in un clima di titubante esitazione.

Octavia si svegliò con uno sbadiglio, sentendosi per un attimo disorientata e intontita; poi, lentamente, mise a fuoco il luogo in cui si trovava e l’opprimente candore che la circondava.

Con un movimento del collo, attenta a non spostarsi troppo bruscamente, si voltò verso suo fratello, la cui spalla era ancora incastrata sotto la sua guancia.

Era sveglio. Il suo sguardo era assorto e vitreo, rivolto da qualche parte fuori dalla finestra, e i lividi sulla sua faccia erano più scuri della notte precedente e bluastri attorno agli zigomi.

« Ehi. » Sussurrò a mezza voce, e Bellamy rimase distratto solo per qualche altro istante, abbassando lentamente gli occhi stanchi e indolenti verso di lei.

« Stai bene? »

« Voglio sapere dov’è Clarke. » Furono le sue prime parole, tuttavia prive della consueta fermezza e ostinazione. La sua espressione era mansueta in superficie, perfino docile, ma sua sorella sapeva che non celava altro che un bruciante e corrosivo senso di colpa.

Non c’era niente che Bellamy potesse nasconderle ed entrambi lo sapevano bene.

« Posso andare a cercarla, se vuoi. » Gli propose, perché se c’era qualcosa che Octavia desiderava, era renderlo felice. In quel caso, perlomeno, renderlo un po’ meno triste.

Senza attendere risposta si alzò, accarezzandogli la mano un’ultima volta, ma rimase al fianco del letto.

« Hai bisogno di qualcosa? Hai fame? Posso portarti- »

Il maggiore dei Blake scosse la testa, aggrottando le sopracciglia e sollevandosi di poco fra i cuscini.

« Odio questo posto. » Affermò fra i denti e distolse lo sguardo.

« Ti porterò a casa presto, okay? Per il momento voglio che tu ti riposi e chiami l’infermiera se ti serve qualsiasi cosa. »
 
 
 

 
*





Abby rimase davanti alla sala operatoria per altre quattro ore, finché il sole non iniziò a illuminarle il volto stoico ma impregnato da una poltiglia di lacrime, trucco e sudore.

Seduta sul pavimento, le spalle al muro e le braccia appoggiate sopra le ginocchia strette al petto, il primario di Chirurgia era per la prima volta dall’altro lato della stanza.

Non era dentro, concentrata con ogni energia sui movimenti delicati del bisturi e delle forbici chirurgiche; questa volta era lei ad aspettare, in spasmodica e ansiosa attesa di notizie, di vedere il volto di uno dei suoi colleghi, di sapere come sentirsi.

Perciò prese un respiro profondo, cercando di accettare la consapevolezza di non poter fare assolutamente niente, di essere totalmente e completamente impotente.
 




 
*



 

Octavia la vide all’improvviso, fra la folla di personale e pazienti che si aggiravano per i corridoi.

Era seduta per terra, il capo chinato e le mani fra i capelli, e seppe subito di non potersi aspettare buone notizie. Nonostante ciò, prese un respiro profondo e camminò con decisione e severità verso la sua direzione, pronta a sentire il peggio.

Quando le si avvicinò Abby nemmeno se ne accorse, e la minore dei Blake si inginocchiò al suo fianco cercando di non fare troppo rumore.

« Signora Griffin? »

La più anziana scattò sul posto, segno di sorpresa e nervosismo, e sollevò di scatto il capo. La sua espressione era indescrivibile, più afflitta e avvilita di quanto avrebbe mai potuto immaginare, e il suo volto sempre composto era ora stravolto dalle emozioni che ne oscuravano i lineamenti.

Qualcosa nel cuore della più piccola si acuì, fece male, e d’istinto portò una mano sulla sua schiena.

« Octavia? »

« Sono così dispiaciuta per quello che è successo, signora Griffin. Lei dov’è? »

« È ancora in sala operatoria. È stata colpita in un punto molto sensibile della gamba, a pochi millimetri da un fascio di nervi. Il proiettile ha parzialmente perforato l’arteria femorale. Ha… ha perso molto sangue. »

A quel punto la giovane scivolò a terra, al suo fianco, e si ritrovarono spalla a spalla, in silenzio.

« Starà bene. » Sussurrò dopo qualche istante.

« Starà bene. » Confermò Abigail, tirando su con il naso e lasciando vagare lo sguardo verso la parete adiacente.

Rimasero sedute in quella posizione per un periodo di tempo indefinito, senza dire una parola, semplicemente facendosi compagnia e tentando di scacciare la solitudine. Octavia non la conosceva bene, non poteva dire di esserne amica o di dividerne particolare confidenza, ma la donna al suo fianco aveva appena saputo che suo marito era un assassino e che sua figlia ne era rimasta gravemente vittima, e non volle andarsene e lasciarla.

Nessuno meritava di restare solo in una tale situazione.

All’improvviso, forse stanca dell’opprimente e soffocante silenzio, forse alla disperata ricerca di una distrazione, Abby si voltò verso di lei.

« Come sta Bellamy? Gli ho assegnato la mia migliore infermiera. »

« Gina? »

La più anziana annuì.

« Lui sta bene. Qualche livido e un po’ di punti. Tanta stanchezza. Voleva solo sapere di Clarke. »

« Le ha salvato la vita. L’ha protetta. Se non fosse stato per lui, forse sarebbe stato troppo tardi… »

« Tiene molto a sua figlia. L’ho visto. »

Abby annuì di nuovo, passandosi una mano sul volto. « Si sono trovati. Ricordo bene quella sensazione. »

« Già. » Il viso di Lincoln le passò davanti agli occhi e per un attimo si chiese dove fosse. Se stesse bene. Ma subito dopo cacciò via quel pensiero, perché non poteva complicare la situazione più di quanto già non lo fosse.

Lo avrebbe visto presto, e Clarke e Bellamy sarebbero stati di nuovo insieme, e tutto sarebbe andato bene.

« Mi dispiace… Per quello che mio… Per quello che la tua famiglia ha dovuto subire. » Confessò all’improvviso Abigail, abbassando il capo e lo sguardo.

Octavia, invece, puntò gli occhi sul suo viso, tenace e risoluta: « Niente di tutto questo è colpa sua. Non poteva saperlo. Nessuno l’avrebbe potuto sapere. Non si biasimi, signora Griffin. Deve essere forte, adesso. Deve lottare. »

« Tuo fratello ha fatto un ottimo lavoro con te. Gli somigli così tanto. »

« Anch’io credo che Clarke abbia avuto un buon modello. » Le sorrise la più piccola, scontrando di poco la spalla con la sua.

« Aspetterai qui con me? » Domandò allora, una luce di speranza e fragilità negli occhi. Abby non voleva restare sola. Era forse un pensiero egoista, o pretenzioso, ma non se ne curò. Non poteva.

« Ma certo. »
 
 
 
 

 
*





Gina entrò nella stanza con un vassoio pieno di cibo, affiancato da un bicchierino al cui interno sbattevano due piccole compresse.

Bellamy la osservò placidamente, come annoiato, e non disse niente.

« Ti senti un po’ meglio? »

« Starò un po’ meglio quando potrò andarmene da qui. » Rispose con freddezza, e in qualsiasi altro contesto se ne sarebbe pentito, avrebbe di certo fatto in modo di rimediare, ma non in quel caso.

« Almeno possiamo escludere la gentilezza dagli effetti collaterali del trauma. » Fu la sarcastica replica della ragazza, che sollevò le sopracciglia, posò il vassoio davanti a lui e gli diede le spalle, lasciando ricadere i corti ricci ambrati dietro di sé.

« Ehi, ti chiedo scusa. » Il maggiore dei Blake allungò un braccio, ma subito lo lasciò ricadere sul materasso. « Mi ricordo di te, ieri notte. Mi hai aiutato. »

A quel punto Gina si voltò e incrociò le braccia al petto, sebbene la sua espressione fosse già tornata serena e amichevole.

« A quanto pare è il mio lavoro. »

« È solo che odio gli ospedali. » Si strinse nelle spalle, scuotendo di poco la testa.

« Sono piuttosto sicura che tutti vorremmo trovarci alle Hawaii, in questo momento. »

La battuta sortì l’effetto desiderato, perché Bellamy accennò un sorriso a mezza bocca e chinò il capo in avanti.

« Già, credo di sì. Ascolta, potrei per caso avere il mio telefono? Dovrei chiamare il mio capo. »

« Intendi il Capitano Sidney? Sì, è già passata, ma tu stavi dormendo e non voleva svegliarti. L’ho rassicurata e le ho detto di tornare in mattinata. »

« Grazie, Gina. »

L’infermiera gli sorrise e annuì, indicando con un cenno del capo il vassoio.

« Di niente, Bellamy. Ora mangia qualcosa. »
 
 



 
*





Da qualche parte fra chiacchiere di poco conto, volte solo a distrarsi, e silenzi carichi di nervosismo, Octavia riuscì a far alzare Abby da terra.

Riuscì a farla passeggiare un po’ e perfino a portarla in bagno per sciacquarsi il volto e liberarsi dai residui di trucco della notte precedente. Inutile dire che tornarono alla sala d’attesa prima che qualsiasi cosa potesse succedere; questa volta, però, abbandonarono il pavimento in favore delle sicuramente più comode sedie imbottite.

« È sicura di non aver fame? »

« Sono a posto, Octavia. Ma tu puoi andare. Non sei costretta a restare qui ogni secondo. »

« Ma lo voglio. Non c’è probl- »

Tuttavia, prima che potesse continuare, la giovane fu interrotta dal rumore di porte che si aprivano e sbattevano. La signora Griffin scattò in piedi ancora prima di poter capire cosa stesse succedendo.

« Martin! » Esclamò ad alta voce, correndo verso il collega che portava ancora la mascherina davanti la bocca.

« Abby. » La salutò lui con voce delicata, nonostante tensione e stanchezza quasi vibrassero dalla sua postura. La minore dei Blake non fu in grado di capire se portasse buone o cattive notizie.

« Come sta? » Bisbigliò in un soffio la donna, stringendosi le mani sotto al mento e attendendo con sguardo esitante e supplice.

« Siamo riusciti a fermare l’emorragia. L’incisione e la cauterizzazione sono andate piuttosto bene, ma i problemi sono iniziati con l’estrazione. Abbiamo incontrato consistente difficoltà nel rimuovere il proiettile, dato il rischio di danneggiare permanentemente vasi e nervi. Il proiettile si è frammentato all’altezza del nervo femorale. »

« Le schegge? » Domandò Abby, improvvisamente professionale e concentrata.

« Hanno devitalizzato parte dei muscoli. Abbiamo provato a estrarre anche quelle, ma non volevamo ledere ulteriori tessuti. »

« Sono ancora dentro. »

« Sì. » Confermò il collega, sistemandosi la mascherina attorno al collo dopo averla abbassata per parlare con il Primario. « Abbiamo drenato il più possibile prima di richiudere, in modo da ripulire le fasce muscolari più interne. »

« Quanto sangue ha perso? »

« Considerando la parziale perforazione dell’arteria e lo shock ipovolemico iniziale, poco meno di duemila millilitri... »

Solo allora la signora Griffin sussultò e si portò le mani davanti la bocca, mentre Octavia, al suo fianco, era ancora confusa e disorientata dai tecnicismi utilizzati dai due medici.

« Avete già iniziato con le trasfusioni? »

L’altro annuì. « Dobbiamo lasciar intercorrere del tempo, però. Il suo sistema nervoso è stato costretto a una considerevole quantità di dolore, non vogliamo sovraccaricarlo. »

A quel punto Abigail prese un respiro profondo, come se ciò potesse infonderle quel tipo di coraggio che non avrebbe mai avuto riguardo a Clarke, e chiuse gli occhi. « Si sveglierà? »

« Non lo sappiamo ancora. Per il momento dobbiamo solo aspettare e tenerla sotto controllo. Il suo corpo ha bisogno di riposo. »

Assentì con il capo, e la minore dei Blake, silenziosa per tutto quel tempo, le avvolse un braccio attorno le spalle.

« Quando potrò vederla? »

« La stanno ripulendo. La vorresti in una stanza particolare? »

« Ehm, sì. » La donna ci pensò qualche attimo, poi si schiarì la voce. « La 403. È la più luminosa. »

Il medico, collega e amico annuì, le diede una lieve pacca d’incoraggiamento sul braccio e si allontanò.

La più anziana rimase con lo sguardo fisso davanti a sé ancora per alcuni istante, silenziosa e irraggiungibile nei suoi pensieri più profondi.
Poi si voltò, un mezzo sorriso accennato sulle labbra e le sopracciglia sollevate. « Dovresti andare da tuo fratello. Fargli sapere. »

« Mi disp- »

« Grazie, Octavia. Credo di farcela da sola da qui in poi. »

E si allontanò, ancora prima di ricevere risposta o farsi convincere a restare insieme. Le sue spalle erano curve, come se reggessero fisicamente un peso che, era evidente, non riusciva a sostenere del tutto. I suoi passi erano corti, meccanici, quasi inverosimili.

La sua figura era piegata da un incolmabile vuoto, una preoccupazione spietata, un carico insostenibile che era sull’orlo di schiacciarla completamente e distruggerne ogni pezzo, ogni piccola sfumatura.

La minore dei Blake ricacciò indietro le lacrime e si diresse da suo fratello.
 
 
 


 
*





Abigail Griffin rimase davanti a una porta chiusa per un lungo tempo, incapace di trovare il coraggio di entrare e consapevole di star commettendo un pessimo errore.

Se davvero il tempo con sua figlia era contato, se davvero avrebbe potuto lasciarla da un momento all’altro, il suo errore non era solo pericoloso, ma anche uno che non poteva permettersi di compiere.

Aveva desiderato tutta la notte vederla, poterle accarezzare i capelli, poterle sussurrare all’orecchio che ora era al sicuro, poteva svegliarsi, doveva farlo, perché lei la stava aspettando; perché sua madre era lì e l’avrebbe protetta e non le sarebbe successo niente di brutto. Sarebbero guarite. Entrambe.

L’aveva desiderato tanto e ora che c’era solo una porta a dividerle, Abby non voleva. Non voleva vederla immobile, ferita, pallida.

Sapeva bene cosa l’avrebbe aspettata. Era un chirurgo da vent’anni, aveva visto abbastanza casi come quello da poterne immaginare tutt’ora i volti peggiori. Non voleva che la sua bambina diventasse uno di quei volti.

Non voleva ricordarla così.

Voleva ricordarla prima, con i suoi capelli intrecciati e il suo sorriso imbarazzato, addormentata contro il braccio di suo padre o entusiasta sopra le sue spalle. Con i suoi occhi blu curiosi e a volte feroci, ma mai spietati.  Con i suoi disegni e le sue passioni e le sue dita sporche di pittura.

Se avesse potuto cancellare gli ultimi quattro anni delle loro vite, se avesse potuto rimediare agli imperdonabili errori che aveva commesso, avrebbe dato la propria vita senza esitazione. Le avrebbe concesso ogni energia e se ne sarebbe andata con un sorriso delicato, sereno.

Ma non poteva farlo. I suoi sbagli erano ancora tutti lì, e le macchine attaccate al corpo di sua figlia ne erano la prova.

E lei doveva vederlo. Doveva vedere cosa aveva provocato, doveva trovarselo davanti agli occhi e farsene una ragione, perché se Clarke non era riuscita a sfuggirgli non poteva nemmeno lei.

Perciò si fece coraggio – cercò, perlomeno, di trovarne un piccolo frammento fra i vari pezzi sparsi nel suo petto – e socchiuse l’uscio il tempo sufficiente di entrare nella stanza.
 
 


 
*





Bellamy non l’aveva detto, ma l’aveva vista. Mentre dormiva, la notte appena trascorsa, alterato dagli antidolorifici e delirante per la disperazione, l’aveva vista. Il suo volto che viaggiava verso una pacifica incoscienza, lo sguardo perduto, le guance e il collo e i capelli dorati imbrattati di sangue nei punti in cui si era toccata con le mani sporche. Le labbra socchiuse dalle quali uscivano respiri sempre più lenti, più distanti l’uno dall’altro. 

Aveva sentito le sue stesse urla implorare aiuto e visto tutto quel sangue appiccicato ai loro vestiti, viscoso sulla loro pelle.
L’aveva persa di nuovo.

Octavia entrò nella camera d’ospedale con la mascella contratta e ogni fibra nervosa all’erta, trascinandosi dietro un tornado di rumori e sensazioni.

Nemmeno si accorse che lui era in piedi e guardava fuori dalla finestra finché non vide il letto vuoto e sfatto.

« Non dovresti riposare? »

Il maggiore dei Blake depositò in un cassetto della sua mente le immagini che lo tormentavano e queste si dissolsero davanti ai suoi occhi come coriandoli.

« Sto bene. » Pronunciò la parola con enfasi, come se non fosse la prima volta che si trovasse a ripeterla. « Non è di certo la prima rissa per cui finisco in ospedale. »

« Già, beh, peccato che tu non sia più un diciannovenne sconsiderato e imprudente. Dovresti tenere quelle ferite sotto controllo. »

Lui la ignorò, voltandole di nuovo le spalle. « Lei? »

Sua sorella sospirò cercando di non farsi sentire, si passò una mano sul volto e si lasciò cadere sulla poltrona al fianco del letto ospedaliero. Poi si schiarì la gola: « È appena uscita dalla sala operatoria. Li ho sentiti parlare di danni muscolari. Ha perso molto sangue, dovranno cercare di non essere invasivi. »

« Quando svanirà l’effetto dell’anestesia? »

La bruna abbassò lo sguardo sulle sue mani incrociate, a quel punto, ed esitò. Non voleva che niente di quello succedesse. Non voleva doverlo rendere reale.

« Non sanno se… Se si sveglierà. Ha perso molto sangue. » Ripeté, e la sua voce tremò sull’ultima frase.

Bellamy non si mosse. Strinse le labbra e arricciò il naso. Continuò a restare voltato verso la finestra, le braccia abbandonate lungo i fianchi e le mani strette a pugno. Trascorsero pressappoco una ventina di secondi di completo silenzio e immobilità; dopo, fu sorprendentemente celere nei movimenti e con un gesto netto e secco della mano rovesciò il vassoio che Gina gli aveva lasciato poco prima.

Octavia sobbalzò, stupita e colta di sorpresa dalla sua reazione, ma continuò a guardarlo. Non si spaventò. Anzi, scattò senza indugio in piedi e lo osservò solo per un istante, con i suoi ricci davanti agli occhi e il petto sconvolto dal respiro convulso.

Solo allora, dopo aver visto il suo volto, capì veramente, e attraversò con impazienza e frenesia la breve distanza che li divideva.

Si sollevò sulle punte nello stesso attimo in cui suo fratello si chinò, e lo abbracciò forte mentre si accartocciava contro di lei come un bambino.






 
*





Non appena la vide, Abigail si immobilizzò.

Era al centro della stanza di medie dimensioni, il suo volto illuminato dal sole, pallido e pulito.

Sapeva che era stata lavata, che qualcuno le aveva districato i nodi nei capelli e li aveva riordinati dietro la nuca; il solo pensiero di mani estranee sul suo viso le fece salire la bile in gola, ma ricacciò indietro la sensazione.

Si erano presi cura di lei.

Clarke era lì, a pochi passi di distanza, e giaceva inerte, come in attesa di qualcosa. Se Abby avesse saputo cosa, glielo avrebbe donato all’istante.

Avrebbe conquistato il tempo, lo avrebbe piegato sotto il proprio controllo per richiuderlo su se stesso e riportare ogni cosa al punto in cui doveva sempre essere stata: loro insieme, con Jake, felici e serafici.

La famiglia su cui lei e il primo uomo che aveva amato avevano tanto fantasticato, sdraiati sulle brandine dei loro dormitori, i Pink Floyd alla radio scassata e i loro sogni sempre troppo inarrivabili.

La donna lasciò andare i suoi ricordi più felici richiudendoli in quell’angolo della sua memoria che non era riuscito a sostenere la scomparsa di suo marito – il suo vero marito, non quel mostro ripugnante che stentava anche solo a immaginare – e fece piccoli passi avanti, vigili e accorti, senza staccare gli occhi dal volto di sua figlia.

Non seppe se fu per la vicinanza, che acuiva disperatamente il senso di colpa, o per la tangibilità delle cose di cui si accorgeva solo adesso, ma Abigail si accasciò sulla sedia affiancata al materasso non appena sfiorò con i polpastrelli la mano tiepida di Clarke.

Solamente in quel momento, quando erano finalmente sole, loro due e basta, lontane da tutti gli altri, sembrò capire pienamente. Realizzare con ogni fibra di sé cosa fosse veramente accaduto. Cosa fosse in gioco.

Le lacrime si addensarono nei suoi occhi senza controllo, alcune sfuggendo pesanti sulle guance, altre rimanendo aggrappate alle ciglia.

Non bastò respirare profondamente o tirare su con il naso, perché ora che aveva iniziato sapeva che non si sarebbe fermata; sapeva che avrebbe pianto sul suo grembo per tutto il tempo, senza fermarsi, senza riuscire a controllarsi. Stava perdendo l’amore più grande e felice della sua vita.

Trascorsero alcuni attimi, la stanza silenziosa se non per i suoi sussurri e lamenti, e poi la dottoressa si tirò più su, appoggiandosi al materasso e portando una mano fra i capelli di Clarke, accarezzandoli delicatamente indietro.

Poi iniziò a cantare a bassa voce, mugugnando e farfugliando le parole fra le lacrime.

« You can run around… Even put me down… » Si interruppe, singhiozzando e asciugandosi le guance con il dorso della mano. « Still I’ll be there for you…  They can’t see you like I can… »

« I know I won’t ever let you go… It’s more than I… could ever stand… »

Era una vecchia canzone che sua madre le cantava da piccola, e che lei aveva ricordato e tenuto a mente finché non era arrivato il momento di cantarla a sua figlia, indifesa e minuscola fra le sue braccia.

Ricordava così bene gli occhi di Clarke e il suo volto da bambina illuminarsi all’ascolto di quelle antiche parole, una melodiosa ninna nanna dedicata solo a lei, dolce come il miele e soave come un canto notturno.

Ricordava anche il sorriso sulle labbra di Jake quando si fermava a guardarle – i due fari che illuminavano il suo percorso, diceva lui – con quello sguardo sognatore negli occhi che non aveva perso mai, nemmeno l’ultima volta che le aveva salutate con un delicato bacio sulla fronte e non era più tornato.

In quel momento, lontana da chiunque altro, da qualsiasi cosa le persone si aspettassero da lei o qualunque fossero le loro aspettative, Abby Griffin pianse più forte, si lasciò andare come non si era permessa di fare da anni, e implorò la sua bambina di tornare da lei con tutta la voce che le fosse rimasta.

 
 


 
*





Il secondo giorno non era ancora del tutto iniziato, ma Jasper e Monty stavano già aspettando fuori dalla stanza ospedaliera.

Ci erano volute alcune ore, ma il primario di Chirurgia aveva delegato alcuni suoi dipendenti il compito di chiamare cari e amici per informarli di quello che era successo.

Lei non aveva lasciato la stanza nemmeno per un istante, alternando una concitata dormiveglia sul grembo di Clarke e un’instancabile osservazione dei parametri vitali, dei processi di trasfusione e delle macchine che segnalavano meticolosamente le attività del suo corpo.

« Possiamo vederla, adesso? » Domandò per l’ennesima volta Jasper, che non si era fermato un attimo, ma aveva continuato a girare attorno a qualunque infermiera o dottore si avvicinasse alla stanza.

Monty, invece, era immobile, quasi paralizzato, le braccia abbandonate lungo i fianchi e lo sguardo smarrito puntato sulla porta.

Quando, finalmente, qualcuno si accorse di loro, entrambi si affrettarono a entrare, richiudendosi gelosamente l’uscio alle spalle.

La più anziana, tanto simile a Clarke nella loro diversità, era seduta al suo fianco e le stringeva la mano destra con entrambe le sue, ma si voltò immediatamente verso di loro.

« Ehi, Abby. » Parlò per primo il giovane Jordan, rivolgendo alla donna che lo aveva cresciuto come una seconda madre uno sguardo dolce e apprensivo. « Vi abbiamo portato dei fiori. »

« E dei muffin. » Aggiunse il moro al suo fianco, sollevando in aria la busta di cartone e abbozzando un lieve e sottile sorriso di rassicurazione.
La donna ricambiò il gesto con debolezza e poca convinzione, ma nessuno dei due ci fece caso. Anzi, i due giovani si avvicinarono e si posizionarono ognuno a un lato del materasso, Jasper poggiandole delicatamente una mano sulla spalla e Monty afferrando con estrema cura l’indice e il medio di Clarke, incosciente e addormentata davanti ai loro occhi.

« Sono sicuro che stia solo facendo la testarda. Anzi, si starà facendo un paio di risate a sentirci parlare a vuoto. » Affermò Jasper, il cui sarcasmo era da sempre stata la sua difesa maggiore.

« Deve essere affamata. » Bisbigliò il ragazzo asiatico, senza distogliere lo sguardo dal suo volto pallido e paradossalmente pacifico.

La signora Griffin non disse niente, ma fu perlomeno in grado di accennare un vago e abbozzato sorriso. Una sua parvenza, se non altro.

I tre restarono in silenzio per il resto del tempo, facendosi tacitamente compagnia e al contempo pregando dentro di loro di poter sentire di nuovo la sua voce, o vedere un’altra volta il colore cangiante e caloroso dei suoi occhi.
 





 
*


 

 

Il terzo giorno arrivarono tutti gli altri: Miller, Monroe, Harper, Octavia, perfino Raven.

Se ne stavano lì, una piccola folla davanti la stanza 403, in attesa di vedere a gruppi di due la loro amica, o la persona che le aveva spezzato il cuore ma che l’aveva sempre in qualche modo affascinata, nel caso della giovane Reyes.

Se ne stavano lì, scambiando abbracci con Monty e Jasper – che, inutile dirlo, non avevano lasciato l’ospedale – chiacchierando di argomenti superficiali per venire a capo dell’attesa e dell’angoscia, passandosi un thermos di caffè e una busta di brioche, oppure parlando a bassa voce a distanza, un po’ più lontane, come la minore dei Blake e il meccanico Reyes.

« Lui dov’è? » Chiese quest’ultima in un sussurro, l’espressione preoccupata e accigliata.

« La viene a trovare soltanto di notte, quando gli altri vanno a dormire e Abby fa una pausa per la doccia. Vuole restare da solo con lei. »

« Non la sta prendendo meglio di quanto avessi immaginato. Ma lei deve svegliarsi, va bene? Deve farlo. »

Nonostante dimostrasse apprensione per suo fratello, Octavia sapeva che Raven non si riferisse solo a lui. Lei voleva che Clarke si risvegliasse. Forse voleva solamente l’occasione di poterla perdonare. Forse era pronta a lasciar andare il passato che condividevano e parlarle veramente, chiederle scusa, offrirle una cena, conoscere davvero chi fosse.

Non doveva essere male, se tutte queste persone erano qui per lei.

« Non sono mai stata capace di pregare, ma deve tornare. Non può finire così. Deve fare ancora così tante cose…»

« Ehi », l’amica le spostò alcune ciocche di capelli dal volto, sorridendole a mo’ di incoraggiamento, « andrà tutto bene. »
 





 
*





 
Quella notte, il silenzio perenne padrone di quell’ala dell’ospedale e l’atmosfera resa ancor più cupa dalle luci neon bianche dei reparti, Bellamy ricevette una visita quantomeno inaspettata.

Aveva appena salutato Clarke con un bacio sulla fronte e Abby, appena rientrata, con un abbraccio silenzioso, e stava per bere un ultimo caffè e cercare di addormentarsi su una delle scomode e malagevoli sedie della sala d’attesa, quando una figura quasi si materializzò in fondo al corridoio.

Lo osservava con curiosità e una sorta di rispetto, l’espressione seria e concentrata, e indossava abiti anonimi, scuri e monocromo.

Era senz’ombra di dubbio l’ultima persona che si sarebbe aspettato di vedere in quel contesto.

La raggiunse a passi sicuri ma privi di fretta, senza distogliere lo sguardo dal suo, lasciando che il suo intuito e acume traessero anche le conclusioni che lui non era disposto ad affermare ad alta voce.

« Buonasera, Bellamy. » La sua voce era, come al solito, pacata ma affilata; il suo sguardo impenetrabile.

« Heda. » La salutò lui, tentando di mantenere una maschera di compostezza. Erano nemici, dopotutto, e dovevano almeno recitare le loro parti con convinzione.

Era la prima volta che vedeva il suo volto pulito, privo di qualsiasi traccia di trucco scuro, e gli sembrò improvvisamente giovane. Il tipo di giovinezza ingenua che lui forse non aveva sentito mai, ma che sul suo viso sembrava reale.

Lexa lo osservò di rimando per qualche istante, registrando i suoi capelli svigoriti, lasciati ricadere con disordine, il suo sguardo spento e le occhiaie che gli facevano da cornice, il leggero strato di barba che per certo non aveva avuto modo di curare e i lividi e le ferite che coloravano la sua faccia.

« Me ne sto andando. Sto lasciando Los Angeles. Lei è la mia compagna, Costia. » Indicò con un delicato gesto del braccio una ragazza a poca distanza da loro, intenta ad osservarli con occhi intrigati ma come spaventati, simili a quelli di un animale curioso e allo stesso tempo allarmato da ciò che non conosce.

Erano di un giallo dorato, quasi ipnotici, contornati da folti ricci ebano che ricadevano su una pelle caramellata.

Il maggiore dei Blake fece un cenno del capo verso la sua direzione pur mantenendo un’espressione neutrale e impassibile.

« Ho saputo cos’è successo a Clarke Griffin. Sapevo che ti avrei trovato qui. »

Poi fece un passo avanti, invadendo immediatamente il suo spazio personale, e si avvicinò ancora.

« Non lasciare che questo dolore ti consumi. Usalo. » Gli sussurrò all’orecchio, e per la prima volta da quando l’aveva incontrata Bellamy capì quanto si assomigliassero.

La giovane si allontanò immediatamente da lui, ricadde nella maschera di austerità che indossava sempre – cosa avrebbe fatto quando avrebbe capito che quella non era più una maschera, ma una parte di sé che aveva preso il sopravvento? – e, guardandolo, annuì.

« Io non sono i Grounders, Bellamy. Spero che un giorno tu lo capisca. » Bisbigliò, serrando la mascella e tenendo le spalle dritte.

Poi, così com’era venuta, si girò e se ne andò silenziosamente, prendendo per mano la ragazza che l’attendeva e stringendole forte le dita.

Lui continuò a fissarla finché non svoltò l’angolo del corridoio e sparì dalla sua vista. 



 
 
*






La mattina successiva, Clarke si svegliò insieme ai nuovi raggi del sole, durante le prime ore dell’alba.

Sentiva il tiepido calore sul volto, la leggera presenza di qualcosa poggiato sulle sue gambe, ma non riuscì immediatamente ad aprire gli occhi.
Forse una parte di sé non voleva farlo.

Poi, come una pellicola bruciata che si consuma un millimetro dopo l’altro, rivide proiettato sul fondo scuro delle palpebre tutto ciò che era successo: più che immagini erano sensazioni, percezioni lontane, azioni che avevano particolarmente stimolato i suoi sensi.

I capelli mossi e scompigliati dal vento scuro che si annodavano davanti alla sua faccia, il respiro mozzato in gola, l’odore acre di sudore e paura a scottarle le narici, il rumore dello sparo e il sibilo nell’aria, il sangue viscido e denso su cui scivolavano le sue mani.

Il sangue. Tanto, nero, impossibile da fermare. No, non nero, rosso vivo, ma oscurato dal buio, sangue che legava e divideva e se ne andava contro ogni volontà. Il dolore e la mente incapace di sostenerlo.

La fuga.

La giovane Griffin aprì gli occhi.

La prima cosa che vide furono i capelli di sua madre, addormentata sulle sue ginocchia: sporchi, legati disordinatamente, ma il suo ricordo più bello, una visione celestiale, radici a cui aggrapparsi.

In seguito si rese conto di trovarsi in una sala ospedaliera. Il Mount Weather, senza dubbio. Poi notò i fiori – tantissimi fiori pieni di colori, appoggiati sulle finestre e sui mobiletti e sulle mensole – e i palloncini con il suo nome scritto sopra e l’augurio di una pronta guarigione.

Respirò una, due, tre volte, prestando al gesto tanto scontato e banale un’attenzione del tutto nuova, piena di interesse e meraviglia. Si voltò verso i macchinari a cui sapeva di essere collegata e fissò lo sguardo sul battito stabile del suo cuore, incapace di contenere l’emozione di sentirlo rimbombare nelle orecchie, al centro della gola, nelle vene.

Era viva.

Le lacrime arrivarono ancor prima che si accorgesse di voler piangere e le bagnarono silenziosamente il volto, pesanti e veloci una dopo l’altra, ma lei fu grata anche di quello.

Nel momento in cui il suo petto sussultò per un singhiozzo, la testa di sua madre scattò e la sua espressione confusa e disorientata impiegò qualche secondo per concentrarsi.

Quando, per un riflesso naturale, spostò lo sguardo sul viso di sua figlia e la vide ricambiare, Abby trasalì, sbarrò gli occhi e lasciò andare un sussurro incomprensibile.

« Clarke? » La chiamò esitante, come incredula di ciò che si trovasse davanti agli occhi.

La giovane annuì fra le lacrime, stringendo le labbra e sollevando le sopracciglia, e sua madre le fu immediatamente vicina. Le prese il volto fra le mani, lo sguardo implorante e adorante bagnato da altre lacrime, e iniziò a baciarle i capelli, la fronte, le guance, stringendola a sé ogni attimo di più.

« Non voglio morire. » Sussurrò per la prima volta la giovane, aggrappandosi alle mani di Abigail e sciogliendosi in un’espressione di puro terrore.

Lo aveva capito su quel tetto, quando il sangue che perdeva era sempre di più, inarrestabile, e la ferita faceva così male da farle mancare i sensi, e tutto quello che non aveva mai avuto si faceva un peso impossibile da sostenere in quegli attimi di panico.

Lo capiva ora che implorava sua madre e adorava con religiosa devozione il battito del suo cuore e il respiro che le muoveva il petto.

« Ho così tanta paura! Non voglio morire, ti prego, non lasciarmi morire. » Continuava a supplicare, piangendo e agitandosi, muovendosi con disperazione e avvinghiandosi forte al collo di Abby.

« Stai bene. » Affermò concitatamente la più anziana, allontanandole velocemente i capelli dal volto e asciugandole le lacrime. « Sei viva, stai bene, va tutto bene. Ti proteggerò, non ti accadrà nulla di male. »

I loro corpi vicini avevano iniziato a cullarsi l’un l’altro, andando e avanti e indietro in un affranto tentativo di riprendere la calma, sebbene entrambe le donne fossero preda di un naturale e innato istinto di sopravvivenza.

« Non sei morta, non sei morta, non sei morta. » Continuò a ripeterle quella litania per un lungo tempo, riuscendo finalmente a smettere e farla smettere di piangere, e non lasciò il suo fianco nemmeno per un attimo.

Quando, alcune ore più tardi, Clarke si era calmata abbastanza da riprendere un ritmo respiratorio più consono alle sue condizioni di salute, la giovane si voltò verso sua madre, occupata a coordinare via telefono i compiti degli infermieri.

« Dov’è Wells? »

Abigail sapeva che questo momento sarebbe arrivato, ma non era mai riuscita a prepararsi abbastanza da affrontarlo. Era stata così impegnata a sperare che lei si risvegliasse, che potesse vederla e parlarle di nuovo, ché non si era curata di trovare le parole giuste per spiegarle cosa fosse successo.

Ma aveva promesso a se stessa che non le avrebbe mai più mentito, che sarebbe stata una buona madre, perciò prese un respiro profondo e incontrò il suo sguardo interrogativo e apprensivo.

« Se ne è andato. » Rivelò, sollevando le spalle, a disagio. « Non appena ha saputo di… di quello che era successo. Non so dove sia. Mi ha implorato di non andare a cercarlo, io dovevo restare con te, e immagino di aver nascosto questa cosa da qualche parte nella mia testa per non pensarci. »

Gli occhi della giovane Griffin si appannarono celermente e la sua voce tremò. « Dovrà sentirsi così… Oh mio Dio, dovrà sentirsi così solo. Questo… tutto questo… Lo ha distrutto. So che è così. Lo conosco. Lui è mio fratello. »

Sua madre le prese la mano. « Non appena starai meglio, lo andremo a cercare. Lo troveremo. E staremo insieme, te lo prometto. »
 
 
 


 
*





Bellamy la vide dalla vetrata della sua stanza.

Abby aveva smesso di rispondere al telefono e questo lo aveva fatto preoccupare. A dire il vero, lo aveva terribilmente terrorizzato. Gli aveva permesso di addentrarsi nell’oscurità di pensieri che mai avrebbe dovuto lasciare liberi di occupargli la mente; lo aveva spinto oltre un confine da cui non sapeva più come tornare.

Perciò aveva deciso di non poterle più lasciare spazio, di non poter più sopportare di star lontano da Clarke anche solo per vederla respirare.

Era salito in macchina senza dire nulla a sua sorella, aspettando che fosse sotto la doccia – aveva visto il modo in cui lo teneva d’occhio, tentando di non farsi notare ma fallendo – e si era diretto al Mount Weather con un senso di amaro nella bocca e al centro dello stomaco.

E ora se ne stava lì, immobile, a guardarla sorridere attraverso un vetro. A guardarla sbattere le palpebre e muovere una mano e respirare, perché era viva. Era tornata.

Quasi non se ne accorse, ma il desiderio di sentire la sua voce lo spinse ad aprire la porta con le ultime energie che gli fossero rimaste.

Clarke si accorse di lui immediatamente, voltando il capo in un movimento veloce, e strinse le lenzuola con la mano destra.

Nessuno dei due disse niente. Continuarono a guardarsi solo per alcuni secondi, prima che Abby prendesse coscienza di ciò che stava accadendo.

« Bellamy! » Lo salutò, il tono di voce finalmente più leggero, privo del peso che lo aveva afflitto nei quattro giorni precedenti. « Oh, Dio. Il mio telefono si è scaricato. Mi dispiace, mi avrai chiamato. »

Senza distogliere lo sguardo da quello di Clarke, il moro annuì, assente.

« Stavo giusto andando ad avvisare tutti. » Continuò la più anziana, cogliendo i segnali e avviandosi verso l’uscio.

Il maggiore dei Blake si fece di lato per farla passare e lei se ne andò in silenzio, non prima di aver rivolto un sorriso a sua figlia.

Entrambi sapevano che a quel punto qualcuno di loro avrebbe dovuto parlare, ma non lo fecero. Rimasero a guardarsi con quelle facce stanche e un po’ stupite, come bloccate a metà frase, come colti a fare qualcosa di illecito.

E poi fu veloce: Bellamy mormorò qualcosa fra sé e sé e quasi corse verso di lei, che nello stesso momento tese le braccia verso la sua direzione, e si scontrarono con un po’ troppa foga, senza però pentirsene.

Si abbracciarono forte, scambiandosi carezze sui capelli e baci ovunque capitasse, ma si separarono presto, intenti a guardarsi negli occhi.

Lui le prese il volto fra le grandi mani con cura e insieme determinazione e rimase a fissarla per qualche istante, prima che le lacrime si incastrassero fra le sue ciglia, tuttavia restando appigliate ad esse.

« Mi dispiace. » Sussurrò con la voce tremante e pregna di senso di colpa. « Mi dispiace così tanto, perdonami. Puoi perdonarmi? Mi dispiace. »

Clarke a quel punto gli lanciò uno sguardo interrogativo e dubbioso, perché una disperata sequela di scuse era l’ultima cosa che si aspettava da parte sua.

« Perché ti scusi? »

« Ero sicuro che tu fossi su quel tetto, ma sono venuto comunque da solo. Non ho informato la mia squadra. Non potevo sbagliarmi, non potevo permettermelo, quindi non potevo portarli con me. Dovevano continuare a cercarti nel caso io stessi commettendo un errore. » Tirò su con il naso, continuando a reggerle il volto, e posò per un attimo la fronte sulla sua, chiudendo gli occhi.

« Ma tu eri lì e io non sono riuscito a fermarlo in tempo ed ecco come ti ha ridotta. » Bisbigliò.

A quel punto fu il suo turno di prendergli il viso fra le mani, e Clarke lo allontanò quel poco che bastava per guardarlo con concentrazione.

« Ascoltami bene, okay? Niente di tutto questo è colpa tua. Al contrario, è merito tuo. Ti sono grata. Se non fossi arrivato, ora non staremmo parlando. Non ti starei toccando. Non potrei fare questo. »

Si avvicinò lentamente per baciarlo. Fu tenue, delicato e fugace, ma mai più premuroso.

« Dio, Clarke, ti am- »

« Bellamy. » Lo interruppe all’improvviso, accarezzandogli la guancia e stringendo le palpebre. « Ti prego, non dirlo. »

« Perché? »

« C’è qualcosa che non sai. » Confessò, ed entrambi aprirono gli occhi e si allontanarono. Poteva vedere la confusione e lo smarrimento nel suo sguardo, il modo in cui le lentiggini si ripiegarono su loro stesse nel momento in cui arricciò il naso.

Prese un respiro profondo, osservando con improvviso interesse sulle proprie mani giunte in grembo.

« Non resterò qui. »

Il maggiore dei Blake non ne sembrò particolarmente sconvolto. « Va bene. A che piano devono trasferirti? »

La giovane Griffin alzò finalmente lo sguardo verso il suo, scuotendo il capo e mordendosi il labbro inferiore per mantenere il suo tono di voce stabile. « Intendo qui, a Los Angeles. »

« Cosa? Non capisco. » Aggrottò le sopracciglia, cercando nel suo viso una spiegazione più dettagliata.

« Mia madre conosce un ottimo fisioterapista a New York. È un amico, il migliore nel suo campo. Ci trasferiremo lì. »

« Ma… Wells? Jasper e Monty? I tuoi amici? » Bellamy iniziò ad alzare la voce, compiendo due passi indietro e passandosi stancamente una mano fra i capelli. « Io? »

La bionda sospirò. Continuava a guardarlo con quell’espressione di rammarico e afflizione che lo mandava su tutte le furie. Era davvero necessario? Era davvero questo che voleva? Semplicemente… Andarsene?

« Ti prego, non andartene. »

« Prenditi cura di loro. »

Lui tentò un’altra volta, sebbene il volto di Clarke sembrasse più sicuro e convinto ad ogni secondo. Sebbene sapesse, ormai, che non era il tipo di persona che si tirava indietro dalle proprie decisioni. Che continuare a discuterne avrebbe significato solo farsi più male.

« Non c’è bisogno che tu faccia tutto questo da sola. » Sono qui, avrebbe voluto aggiungere, ma in qualche modo la voce gli mancò.

« Mia madre ha bisogno di me. » Replicò immediatamente. « E io ho bisogno di andarmene. Non posso più guardare le loro facce. Non sopporto l’idea di mettere nuovamente piede nella nostra casa. Restare qui mi ricorderebbe solo di ciò che è successo. Di ciò che ho perso. »

« Clarke… »

La giovane Griffin tirò su con il naso, pulendosi le lacrime dal volto con il dorso della mano, e fissò lo sguardo su un punto indefinito sopra la sua spalla. « Partiremo fra due settimane. Ti prego… »

Prese un respiro profondo, espirando poi dalle narici, e si inumidì le labbra con la lingua. Era così  furiosa per quello che si sentiva costretta a fare; furiosa con se stessa, con quel verme, con ciò che la vita aveva deciso per lei.

« Ti prego di non tornare qui nel frattempo. È meglio se ci salutiamo adesso. »

« Quindi… È finita? È finita così? » Allargò le braccia e le lasciò ricadere subito dopo. « Torniamo a casa e… Basta? »

« Volevo solo ringraziarti, Bellamy. Grazie per quello che mi hai insegnato. Per quello che mi hai restituito. Grazie per avermi salvato la vita, non lo dimenticherò mai. » Non seppe come ne fu in grado, ma Clarke riuscì a pronunciare quelle parole senza singhiozzare o senza che la voce le venisse meno.

Non poteva dirgli quanto fosse straziante, però, altrimenti non l’avrebbe mai lasciata andare.

Lui la guardò in silenzio, le sopracciglia aggrottate e i ricci che ricadevano davanti agli occhi e i pugni appoggiati sui fianchi.

Razionalmente sapeva di non poter nemmeno lontanamente immaginare ciò a cui fosse stata sottoposta, la sofferenza di aver perso suo padre e se stessa, il dolore che il suo corpo stava attraversando. La sua mente infranta stava solo cercando di sfuggire a tutto questo, di guarire, e di certo lui non gliene poteva fare una colpa.

Ma, a quel punto delle cose, c’era ben poco di razionale in quello che provava per lei, e non poteva accettare l’idea di perderla proprio ora che l’aveva avuta indietro. Non esistevano energie nel suo corpo o nel suo cuore in grado di permettergli di farsene una ragione.

Dunque, per un istante calciò il nulla con la gamba destra, fissando il proprio sguardo sul movimento, poi spostò immediatamente gli occhi nei suoi.

« Già. » Sputò fuori con sarcasmo, annuendo. « Di niente. »

E, senza attendere oltre, si precipitò fuori dalla stanza.





 
 
  
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