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Autore: whitemushroom    15/07/2016    3 recensioni
Un interludio è qualcosa che si trova nel mezzo. Qualcosa di indefinito, specie quando di un'opera si ricordano solo l'inizio e la fine. Ma in questo spazio bianco, avvolto nella nebbia, si muovono i mille tasselli di una storia che cerca solo di portare avanti il mosaico finale. Hilda si trova nel proprio interludio, rapita da un mago che non riesce a comprendere ma che sembra avere per lei molti più progetti per il futuro di quanti la granduchessa ne abbia ella stessa. I sentimenti che prova verso suo marito oscillano, ma forse saranno proprio quelli a tenderle la mano e trarla in salvo quando l'intermezzo rischia di trasformarsi in una tragedia ...
Genere: Fantasy, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Hildagarde Fabool / Lady Hilda, Kuja
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Non un Jenoma - e altri racconti.'
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Capitolo IV - (S)piacevoli conversazioni al sapore di menta e arance

Un pipistrello lasciò il suo rifugio, infastidito dalla luce.
La gente spesso pensa ad una Strega come ad una creatura in grado di lanciare fiamme dalle mani, ma nella maggior parte dei casi basta ricordarsi di portare un acciarino nella sacca da passeggio e sperare di trovare una candela nel percorso. Quella sera ero stata particolarmente fortunata, ed un intero candelabro a quattro braccia si era parato davanti a me non appena misi piede nella villa dei Moonrise; il sole era tramontato nel tempo che avevo impiegato a districarmi la gonna dai rovi del giardino abbandonato e non c’era angolo di quell’abitazione che non fosse sprofondato nel buio.
Sotto i miei piedi ciò che rimaneva di un vecchio tappeto scricchiolò per poi sgretolarsi.
Le espressioni terrorizzate di Herbst, Gress e Lily mi apparvero davanti agli occhi e non riuscii a trattenere un sorriso.
Forse era colpa di mio padre, forse no. Forse perché abbiamo sempre trovato divertente guardare il signor Junnit alzarsi prima dell’alba e lasciare delle bacche di revis davanti alla porta di casa per convincere gli spiriti del campo a non far ammalare la sua vacca. O forse perché aspettavamo che andasse nell’orto per entrare nella sua proprietà e riempirci la pancia di quelle bacche cento volte più dolci del miele.
Mi fermai un istante in quel salone deserto, aprii la mia sacca, feci cadere nel palmo un paio di frutti di revis e le portai alla bocca. La luce di quelle candele dalla cera consumata e dallo stoppino consumato non era imponente, ma quanto bastava per osservare le librerie distrutte, le cornici dei quadri annerite e ciò che rimaneva di oltre venti enormi sedie imbottite, di quelle ricoperte di velluto come si favoleggiavano nel palazzo di Alexandria. I resti di una specchiera riflettevano la debole luce disegnando piccole scintille di vetro proprio ai miei piedi, ma mi chinai per sfiorarne una ed ormai i frammenti erano lisci, non più taglienti, leggermente opachi per la polvere e per il fuoco … lo stesso fuoco che aveva annerito le pareti e distrutto quelle che dovevano essere enormi tende e che in quel momento erano solo minuscoli brandelli di tessuto annerito privi anche della forza di sventolare.
Fuoco. Distruzione.
Mi avvicinai alla rampa di scale più vicina, quella che conduceva ai piani superiori. Le macchie lungo il corrimano di marmo, ormai totalmente annerito, non erano certo opera di un drago furioso o del signore dei mari. Men che mai di una Strega.
Il sapore delle bacche di revis mi scese in gola mentre osservai l’opera della furia degli uomini.
In quel posto vi era stato un massacro.
Di certo all’epoca non avevo a disposizione l’enorme biblioteca di Lindblum o qualche testo di storia più affidabile delle canzoni della vecchia Cheryl, ma non avevo bisogno di conoscere il nome della casata rivale dei Moonrise per riconoscere il sangue rappreso, i segni delle spade nel legno delle librerie, il fuoco appiccato lungo le tende. Una storia meno bizzarra di qualunque leggenda, più disgustosa e reale dell’offesa di Leviatano per la mancata offerta; per riflesso feci un passo indietro, mancando un gradino, quasi respinta dalle macchie ormai annerite che disegnavano una scia lungo le scale, dirette al piano superiore. Non mi ero mai considerata una donna suscettibile –al contrario- ma fui costretta a voltare la testa in un’altra direzione alla ricerca di un punto di quella magione che non fosse testimone della strage: in quel momento avrei preferito realmente incontrare un drago vero che non salire le scale.
Se quel Cid era da qualche parte lì dentro era ancora più stupido di quanto temessi. Al massimo poteva riconoscergli un certo fegato, ma nulla di più. Lily avrebbe fatto meglio a girare a largo da lui.
Doveva essere trascorsa almeno un’ora da quando avevo messo piede nella villa. Avevo esplorato quasi tutto il piano terra, le cucine e l’androne: l’ala nord era inaccessibile persino avendo a disposizione un badile, il controsoffitto era crollato ostruendo l’ingresso e le spesse tre dita di polvere sul cumulo di detriti non faceva certo pensare che qualche imbecille fosse passato di lì negli ultimi dieci anni. Provai persino a sbirciare oltre con le candele, ma oltre alla luce fioca ed alla polvere che galleggiava nell’aria stantia non c’era assolutamente nulla in quel luogo devastato.
Solo detriti, sangue pesto ed umidità. Tanta umidità.
L’idea che la mia scarletite fosse da qualche parte in quel posto mi costrinse a smetterla di soffermarmi su ogni mobile vecchio sotto il naso ed a cercare altrove: gli effetti collaterali della mia preziosissima pietra in un luogo simile non sarebbero stati piacevoli. Affatto.
“Mancano i livelli inferiori” mormorai a me stessa per sentire un po’ il suono della mia voce. Grazie al cielo non c’erano eco misteriose o cose tipiche di una villa infestata, ma stranamente le mie parole non ebbero il potere di tranquillizzarmi come avrebbero dovuto. Forse ero stata più spavalda del previsto … fortuna che Herbst non si trovava lì. Avrei trovato seccante doverlo ammettere davanti ai suoi stupidi denti storti.
Le scale non erano state risparmiate dalla battaglia. Scesi i gradini uno alla volta, con gli occhi ben fissi in avanti. Se il piano terreno era stato salvato da qualche finestra distrutta, i livelli inferiori mi accolsero con un’aria irrespirabile, satura di acqua, muffa e centinaia di anni in attesa che qualcuno vi mettesse piede. Appoggiai la mano alla parete per cercare un po’ di equilibrio, ma la ritrassi al contatto dell’intonaco bagnato che mi crollò tra le dita.
Scesi per trenta, forse cinquanta gradini.
La porta davanti a me ormai era legno marcito, ma anche migliaia di anni non sarebbero riusciti a nascondere lo squarcio perfettamente al centro, lo scomodo testimone di qualche ascia abbattuta su di essa durante l’attacco, uno spazio abbastanza grande da permettermici di passare attraverso senza che le tenui fiammelle del candelabro toccassero le schegge annerite. L’odore di cibo avariato ed escremento di topi mi presero alle narici, ma in quell’istante qualcosa mi afferrò il polso e mi trascinò di lato.
La mia prima reazione fu quella di tirare un calcio. Colpii a caso, senza riflettere, e presi in pieno qualcosa di duro. Ma nemmeno troppo. Con la mano libera abbattei il candelabro in avanti come un’arma, colpendo la figura che era sbucata dalle ombre, ma quella mi trascinò in avanti senza lasciare la presa.
“Mi avevano detto che eri un tipo focoso … ma potresti evitare di colpirmi, per favore?”
Per tutta risposta puntai il candelabro in avanti: tre candele erano rotolate a terra e si erano spente, ma una era più che sufficiente per fissare negli occhi il grandissimo imbecille e fargli capire che gliela avrei piantata ben volentieri in mezzo agli occhi o in mezzo ad altre parti del corpo più alla portata delle mie ginocchia. “Lascia la mia mano o la prossima cosa che farò sarà mandarti a gracidare sul fondo di uno stagno, pezzo d’idiota!”
“E io che speravo che fossi venuta per salvare un affascinante giovanotto della capitale dalle insidie di una villa stregata …”
Avvicinai ancora di più la fiamma al naso del cretino, ma quello per tutta risposta mi rivolse un sorriso idiota da principe azzurro del più scadente libro di fiabe esistente. Il primo pensiero fu quello di affondare la candela nei suoi ridicoli baffi giganti, quelli che per poco non mi avevano fatto esplodere dalle risate quando si era recato nella mia bottega; desistetti solo perché in effetti sarebbe stato interessante anche spingergliela su per una narice o in uno dei suoi costosissimi vestiti di seta color porpora, e l’indecisione aumentava man mano che quell’esploratore improvvisato continuava a stringermi il polso per avvicinarmi a lui. “Con questi baffi ridicoli che ti ritrovi l’unica cosa affascinante sarà vederti correre su per quelle scale cercando dell’acqua quando li avrò abbrustoliti a dovere” gli risposi. Di solito il tono minaccioso era perfetto per levarmi Gress dai piedi, ma evidentemente il riccone cittadino non aveva ben capito con chi aveva a che fare. Peggio per i suoi stupidi mustacchi. “Sono venuta qui per la scarletite che mi hai rubato, ladro. Ridammi la mia pietra e potrai rimanere a giocare a nascondino in questa villa per tutto il tempo che vorrai. Anche per sempre, se vuoi una mia genuina e spassionata opinione!”
“I tuoi amici avevano proprio ragione. Quando vuoi qualcosa non ti fermi davanti a nulla, nemmeno davanti a qualche storia di draghi o Leviatani”.
I miei amici … cosa?
L’atroce sospetto divenne una disgustosa certezza quando, al mio ennesimo tentativo di rifilargli un calcio tra le gambe, le sue labbra si piegarono in un sorriso. “Mi hanno suggerito loro l’idea di prenderti qualcosa dal negozio, evidentemente sapevano fin troppo bene quale fosse il modo per attirare la tua attenzione”.
Il pensiero di vedere Herbst, Gress e Lily trasformati in rospi e schiacciati sotto le ruote del mio carretto venne superato solo dalla piacevole idea di scambiare qualche infuso mattutino con una pozione in grado di simulare perfettamente gli effetti di una violenta dissenteria, simile a quella che due mesi prima si era portata via Jeanne. Avrei trasformato in topo solo il ricco imbecille davanti a me, ma più che offrirgli una morte rapida sull’acciottolato della piazza lo avrei usato con piacere in qualche esperimento. E, ad essere sincera, i baffi di un roditore erano di gran lunga più attraenti di quelli di quel borioso nobile da quattro soldi. I suoi stivali lucidi erano abbastanza costosi da permettermi di comprare un fornello nuovo. “Allora ci sono quattro idioti giganti, non uno solo” dissi, cercando di condire con dell’ironia parte della mia furia. “Quattro idioti che chiaramente non hanno idea di cosa hanno trascinato qui sotto. Di tanti oggetti della mia bottega dovevi proprio rubare la scarletite?”
“Era l’unica cosa bella quanto i tuoi occhi, cara”.
“Chiamami di nuovo cara e mi assicurerò che tornerai al tuo favoloso palazzo con un baffo rosso ed uno arancione. Con effetto permanente”. E forse anche i capelli color canarino, se si fosse dimostrato così appiccicoso una seconda volta. “La scarletite non deve MAI stare in un luogo umido. MAI. Hai chiaro il concetto? Adesso ridammela immediatamente, ladro”.
“Perché?”
Avrei voluto roteare gli occhi al cielo, ma la luce dell’unica candela non sarebbe riuscita comunque a mostrare la mia stizza. L’idea di essere stata convinta a scendere lì sotto con l’inganno stava rapidamente facendo salire quel pomeriggio nella lista dei peggiori brutti momenti della mia vita. Di sicuro aveva ampiamente superato la giornata in cui avevo consumato delle uova avariate e non avevo a portata l’erba farg per tamponare i danni. Sospirai, ormai quasi più stanca di uscire da quelle cantine che non desiderosa di dire la mia opinione a quel farfallone di città che sembrava fatto apposta per farmi impazzire con il suo odioso tentativo di attirare l’attenzione.
“Perché esplode. BOOM. Tanto BOOM. Un enorme BOOM”.
Cielo, ero sull’orlo di una crisi di nervi. “Come esprimete questo concetto a Lindblum, voi nobili? Usate la parola deflagrazione o capite anche i termini più … normali?”
“Uhm, ho afferrato il concetto, grazie”.
Ancora minacciandolo con la candela praticamente dentro una narice lo vidi armeggiare attorno ad un borsello ricamato che teneva alla cintura, e non mollai la presa sulla mia arma improvvisata nemmeno quando le sue dita tozze estrassero la mia agognata pietra dalle pieghe della sacca. Il colore porpora della scarletite era attraversato da venature color sangue, e lo stesso cretino si accorse che stavano pulsando in maniera ritmica. Non erano ancora a livelli critici, ma lo sarebbero diventate a breve se non ci fossimo sbrigati ad uscire di lì ed a mettere immediatamente la pietra nel contenitore igrorepellente del negozio da cui l’imbecille con i baffi lo aveva sottratto. Senza dubbio la temperatura delle scarletite stava aumentando e lanciai all’idiota uno sguardo di soddisfazione vedendo i suoi baffi sempre più incuriositi dall’oggetto che aveva in mano, forse resosi conto solo in quel momento di aver fatto la più grande stupidaggine della propria vita –vita che, se non fossi andata a riprenderlo, sarebbe stata irrimediabilmente più corta del previsto. Ero così presa dal mio piccolo autocompiacimento per avergli dato una lezione che non mi accorsi della situazione in cui mi ero cacciata: lui aveva appoggiato la pietra rossa nella mia mano, ma con quel gesto entrambe le sue si erano portate all’altezza del mio palmo libero, quello che non stringeva il candelabro. Trovai il suo tocco alquanto irritabile ma feci per sottrargli la scarletite dalle sue esimie dita di città e tirai un sospiro di sollievo quando sentii la rassicurante superficie prismatica della pietra. Sospiro che fu molto più breve del previsto poiché –da perfetta idiota- avevo dimenticato per quale motivo il gran farfallone mi avesse fatta scendere lì sotto, e nel momento in cui ripresi aria mi accorsi che quello aveva invaso in un solo attimo il mio spazio personale ed aveva le labbra incollate alle mie.
Il sapore di menta ed arance era piuttosto gradevole, ammisi. Ma solo quello. Avendo entrambe le mani occupate optai per l’unica soluzione a mia portata, ovvero rivolsi un calcio alla sua caviglia destra. Non gliela distrussi come avrei voluto, ma fu abbastanza da convincere quei mustacchi pungenti ad allontanarsi immediatamente dal mio collo e quelle labbra a levarsi dai piedi perché mi stavano facendo soffocare con la loro lingua impicciona. “Tu …”
Ripresi a respirare, carica di rabbia. La saliva aveva improvvisamente deciso di andarsene dalla mia bocca, così la mia voce risultò molto più secca e meno minacciosa di quanto avrei voluto. “Riprovaci un’altra volta e …”
“Mi ritroverò a gracidare da qualche parte, lo so, lo so. Sei un tantino ripetitiva, se ti devo trovare un difetto!”
Benedetto Leviatano, mi sarebbe davvero piaciuto avere la mano enorme di Herbst per piantargli un pugno sui denti e fargli rivedere il suo concetto di “ripetitiva”. Purtroppo con la scarletite in una mano, l’unico candelabro della villa nell’altra ed il bersaglio oltre la portata del mio tacco fui costretta a trasformare la mia disapprovazione in un grugnito. La seppur minima gradevolezza del sapore di menta e arance era stata soppiantata da un flusso di bile che cresceva all’aumentare dello sguardo soddisfatto di lui. “Suvvia, ne varrebbe comunque la pena. Sarei il primo umano a venire trasformato in rospo dal bacio di una principessa. Sai quanto mi invidierebbero tutti gli abitanti dello stagno? O quanto mi invidieranno tutti i maschi di Müttenborg”.
“Pensi seriamente di essere il primo?” risposi piccata. Anche se seriamente mi pentii subito dopo di avergli dato corda.
“A prenderti un bacio? No. A rubarlo? Assolutamente sì!”
Ed in quel momento qualsiasi persona dalla media intelligenza –il che, in quel momento, escludeva tutti i miei compagni- gli avrebbe fatto notare che rubare un bacio senza alcun permesso, condendo il tutto con inganni e frottole e insaporendolo con una villa traboccante di muffa sin nella più remota fessura aveva lo stesso valore di un escremento di chocobo crostificato, ma purtroppo in quel luogo non vi era nessuna persona dalla suddetta media intelligenza. Soltanto un ricco nobile cretino ed una Strega doppiamente cretina da essere stata giocata dal più ridicolo e odioso tentativo di seduzione mai inventato probabilmente dai tempi della genesi delle lune. E una scarletite in procinto di reagire all’umidità e trasformare entrambi i protagonisti di quella grottesca serata in mangime per corvi.
Decisa a non conversare mai più decisi che la migliore cosa da fare era tenere ben salda l’unica candela a mia disposizione, risalire le scale andando verso l’uscita e chiudere al più presto quella situazione imbarazzante mugugnando qualche piccola vendetta che sarebbe magicamente apparsa non appena fossi tornata nel mio negozio ed avessi preso le polveri e gli alambicchi giusti. E, al diavolo l’amicizia, avrei trovato il modo di farla pagare anche a quei tre idioti lì fuori. Salii gli scalini due alla volta, deducendo dal rumore alle mie spalle che l’altro mi stava seguendo.
“Sia ben chiara una cosa, Cid dei miei stivali: levati dalla mente certe idee. Un deficiente come te non è il mio tipo!”

Non è il viso di Cid che mi appare davanti agli occhi, tantomeno i suoi mustacchi. È un volto più giovane, più pallido, quello che emerge dalla nebbia.
Il ricordo degli eventi di villa Moonrise scivola via. La polvere, l’umidità, il sangue rappreso iniziano a ritirarsi come una secchiata d’acqua lanciata contro la mia pelle e costretta ad asciugarsi; se ne vanno come sono giunti, all’improvviso. Nelle mie narici adesso non c’è più la muffa della vecchia villa stregata né l’odore della vecchia candela, bensì l’aria secca, riarsa con cui Oeilvert mi aveva accolta sin dal primo istante.
Il volto che mi osserva non ha alcuna espressione. Le sue sopracciglia chiare sono distese, come se stesse sognando nonostante gli occhi siano aperti. L’abito lungo è ingrigito, i ricami color rosa e argento praticamente indistinguibili dalla stoffa sottostante per la polvere e la penombra del luogo, così come la mano protesa in avanti, verso di me, che ha perso qualunque forma di lucentezza ed il cui anello d’oro potrebbe sembrare al massimo una verga di ferro senza alcun valore.
Ma ciò che mi colpisce mentre ancora cerco di cancellare i ricordi del passato sono i suoi occhi: di un azzurro freddo, triste, un colore reso quasi secco dall’arsura di questo posto. Mi fissano ma non mi guardano, le pupille incrociate come quelle di una bambola costruita da un artigiano alle prime armi, di un vuoto inespressivo in grado di far star male coloro che li osservano. E la sensazione di disagio è ancora maggiore quando mi accorgo, con anche un tremito d’orrore, che quegli occhi azzurri sono gli stessi che ogni mattina mi fissano attraverso lo specchio.
Il primo istinto è quello di gridare. Lo sopprimo, però, quasi come se il silenzio di questo posto mi fosse entrato nei polmoni.
La mia copia ha ancora la mano tesa.
Il pensiero di Cid ancora aleggia nella mia testa, ma le sue forme si fanno sempre più sfocate man mano che la copia indietreggia. Il ricordo violento ha a che fare con lei, ovviamente, ma per quanto io cerchi di allontanare lo sguardo da quella figura cadente mi rendo conto che non posso fare altro che guardarla, guardare quello specchio ingrigito che si allontana da me come se fossi stata io ad averle fatto qualcosa. “Stai lontana” provo a dirle, ma non è certo la falsa autorità nella mia voce a spingerla a retrocedere. Solo quando solleva la gonna per non inciampare che vedo alle sue spalle l’enorme statua che mi aveva accolto al mio ingresso ad Oeilvert.
Non si trova nella stessa posizione di prima, poco ma sicuro visto che questo luogo non è affatto l’entrata, la le lastre giganti incise nella loro lingua misteriosa lasciano poco spazio all’immaginazione. Esse si aprono lentamente, aprendo un passaggio per la mia copia che adesso sta chiaramente fuggendo da me. Le intimo di fermarsi, ma quella si avvicina alle lastre che adesso sono spalancate proprio come le ante di un vecchio armadio e vi entra dentro. Non è certo il primo mostro semovente che vedo –poco tempo nel palazzo di Kuja e chiunque si abituerebbe a prodigi simili- ma quella statua mi inquieta. Profondamente.
Il pupazzo con le mie sembianze entra nelle due ante di pietra, pietra che riluce di una strana luce azzurra che si cristallizza con il pulviscolo che aleggia nella stanza. Ricorda un velo o forse uno specchio d’acqua, ma la donna con le mie sembianze la attraversa priva di esitazione, senza voltarsi: la sua forma si immerge in quella luce strana e l’istante dopo è svanita dalla mia vista e le lastre di pietra della statua ricominciano a chiudersi finché non si uniscono con uno scatto che fa tremare con la sua eco tutta la stanza. La scultura grottesca rimane lì, a diversi metri da me, quasi a schernirmi con le sue forme sgraziate e le tavole incise che promettono di dare forma ad un nuovo segreto; nonostante il mio spavento la statua non sembra muoversi, e mi accorgo di ricominciare a respirare solo quando il calore graffiante della perduta Oeilvert si insinua nella mia gola.
La mia curiosità sta ovviamente gridando qualcosa del tipo “Hilda, vai a vedere subito quella stanza e spremiti le meningi per capire come abbia fatto a creare una tua copia dal nulla” … ma un’altra parte della mia mente, quella che di solito si attiva durante i monologhi deliranti di Kuja, brontola qualcosa che potrei tradurre liberamente come un “Hilda, volta i tacchi e allontanati immediatamente da lì!”
La seconda voce vince senza troppo sforzo.
Non mi trovo senza dubbio nello stesso posto in cui credo di aver perso i sensi per colpa di quella statua maledetta, ma lascio da parte il mio già scarso senso dell’orientamento ed imbocco la prima porta in vista senza curarmi troppo di dove mi trovo. Me la chiudo alle spalle, e prima di andar via lancio un’ultima occhiata alla scultura che mi ha letteralmente scombussolato la testa: anche adesso è lì, immobile, come se non si fosse mai spostata dall’angolo in cui riposa. Continua a sembrare un pezzo di pietra grottesco e nulla più, e nel chiudere in silenzio la porta mi mordo le labbra pensando che qualunque cosa in questa città dimenticata dal mondo potrebbe nascondere una trappola simile.
“Coraggio, Hilda”.
Non è come la discesa a villa Moonrise.
Nella villa infestata dei miei ricordi non vi è questo senso di vuoto. Per un istante il ricordo del sangue rappreso per le scale mi sembra persino confortante, quasi un segno che almeno centinaia di anni prima di me qualcuno aveva calpestato quei saloni e bevuto in quella cantina. Questo posto –che, secondo Kuja e la sua non esattamente affidabile conoscenza di storia, dovrebbe avere cinquemila anni- è vuoto. Non silenzioso, non spaventoso, nemmeno abbandonato.
Vuoto.
Manca la vita in questo palazzo. E, qualunque cosa sia quella pietra Gulug che il mio carceriere sta cercando, non deve essere nulla di buono.
Delle torce infisse negli anelli di ferro che si susseguono a distanza regolare si accendono al mio passaggio sebbene la luce del sole che ancora filtra tra le vetrate mi conceda di vedere; il fuoco rivela gradini, sempre gradini, rampe ed ancora gradini in salita ed in discesa da non permettermi di distinguere l’inizio o la fine di questa strana scala. La finestra è troppo in alto per riconoscere la mia posizione, ed a meno che io non ritorni indietro e non mi impossessi della statua dubito che riuscirei a raggiungerla per sbirciare all’esterno.
Nel dubbio prendo una torcia.
La scala scende a lungo per terminare infine in uno stretto corridoio che dà accesso a quella che sembra una successione di alcove scavate nella roccia naturale; ricordo che la cittadella è contornata da una formazione rocciosa, sebbene non sarei mai riuscita ad accorgermi di aver abbandonato il corpo principale di Oeilvert per raggiungere delle stanze laterali scavate nelle montagne. Il percorso continua ad essere segnato da torce accese di cui ora sento la necessità, piccoli punti di luce tremolante che vengono presto inghiottiti dal buio. Tengo i sensi all’erta sperando che bastino perché c’è qualcosa in questo sotterraneo, qualcosa che forse mi aspetta a partire dal momento in cui ho preso la decisione di entrare. Non so come faccio a saperlo o a sentirlo. D’istinto di mordo la guancia, cercando ad ogni passo di ricordare tutto ciò che Kuja avesse detto di questo luogo e di coloro che lo avevano costruito, ma purtroppo non riesco a focalizzare la mente su altro che non sia l’orribile sensazione che questo posto stia attendendo da tempo l’arrivo di qualcuno, e considerato il fatto che questo “qualcuno” potremmo esserlo io o quel mago pazzo direi che non ho alcuna intenzione di scoprire altro su questa città cristallizzata nella polvere della clessidra del tempo.
La prima cosa che compare è un’enorme sfera grigia. È il primo oggetto familiare che vedo da quando mi sono incamminata, una forma perfettamente rotonda posta su un piedistallo e che riesce ad arrivarmi alla vita. Vi sono delle catene che la uniscono al piedistallo.
Qualcosa la attraversa, una luce che non dovrebbe esservi considerata l’assenza di finestre o di altre torce che non siano la mia: dovrebbe bastare per spingermi a non avvicinarmi oltre, ma il mio piede obbedisce al cervello con qualche fatale istante di ritardo.
L’aria diventa lattiginosa non appena entro erroneamente nello spazio intorno all’oggetto e trema nonostante l’assenza di vento. Una figura vi prende forma in maniera non troppo dissimile a cosa accade quando cerco di osservare qualcuno nella mia sfera di cristallo e in maniera automatica il mio respiro si tranquillizza alla presenza di questa trappola così squisitamente addolcita da un elemento a me familiare. Nell’aria biancastra si delineano dei contorni rossi.
Non vanto una memoria eccellente, ma mentre i secondi trascorrono senza che una trappola appuntita si sollevi per aprirmi in due o che qualche strana copia si affacci all’improvviso trovo il tempo per pensare, per raccogliere tutti i fili che mi sono ritrovata in mano da quando ho deciso di sfruttare questo viaggio per liberarmi definitivamente di Kuja. Ho già visto la figura che il bianco sta rivelando.
Il triangolo rovesciato ha i contorni perlacei così come le decorazioni, ma il rosso ed il grigio che lo riempiono danno forma a quell’immagine resa ancora più inquietante da un secondo triangolo, al centro, che mi fissa come se fosse un occhio. Lo stemma –perché questo mi sembra- fluttua in aria per almeno una ventina di secondi concedendomi il tempo di riflettere.
Quel simbolo si trovava sul portone di Oeilvert sin dal nostro arrivo. “Bene, piacevole presentazione” borbotto tra me e me quando una buona parte del mio cervello mi chiede di pormi domande a cui non saprei mai e poi mai come rispondere. Il triangolo cremisi rimane ancora qualche secondo davanti a me, poi una seconda folata di nebbia simile alla prima lo inghiotte.
Qualcosa inizia ad affiorare, un’immagine che prende forma man mano che i miei occhi si fermano, si fissa forse più nella mia testa che nelle mie iridi.
Perché sì, adesso ricorda una sfera di cristallo.
E nessuna Strega che si rispetti rifiuterebbe di sbirciarvi dentro. Persino in una fortezza nel deserto senza una mezza idea di come uscirne.
Il blu attraversa l’intera stanza. Un blu forte, duro, misto ad un azzurro come non ne ho visti mai neppure nelle migliori estati di Lindblum. Un colore prezioso che copre il cielo e la terra, quasi come se il vero protagonista della scena sia questa tinta forte, pulsante, quasi in grado di penetrare nei pensieri per quanto sia ipnotica. Sono le rocce ad essere così blu.
E le piante. O gli alberi.
Un luogo che non ho mai visto e che sembra uscito dalla tavolozza di un pittore di Toleno occupa ogni angolo di quell’aria lattescente, davanti e dietro me, sopra la testa e sotto le scarpe. Trattengo il fiato perché quel paesaggio prende forma intorno al mio stesso corpo, caldo e gelido allo stesso tempo; cerco di tendere la mia scarsa magia per comprendere quale incantesimo mi stia invischiando, ma essa nemmeno si degna di rispondermi quasi come mi volesse dire di non muovermi, di non pensare, di ammirare quel posto come mai potrebbe accadere guardando una sfera di cristallo. Degli albero si formano alla mia destra, i tronchi torti come serpi avviluppate tra loro: cerco d’istinto di riconoscerli, ma la mia testa si ferma quando tra i rami vi sono delle corde delicate e luminose, quasi come se l’enorme pianta fosse un liuto o un’arpa. Altri alberi continuano a comparire dalla nebbia, sempre più alti e bellissimi. Vi sono delle luci tutt’intorno che si muovono come piccole stelle costrette a girare intorno a quei trochi ritorti.
Sono bellissime.
Sotto i miei piedi le vecchie lastre di pietra di Oeilvert sembrano scolpite una seconda volta. Il paesaggio disegna per me un sentiero in salita, sebbene dolce ed ancora alla portata di una donna della mia non esattamente veneranda età. Con la punta della scarpa cerco di esplorare una fenditura in quei gradini sospesi tra il naturale e l’artificiale, quasi a saggiare se ciò che mi sta apparendo sia reale o meno, ma essa atterra soltanto nell’aria e nella luce che emanano le singole pietre intagliate che compongono quel posto di cui non ho mai sentito parlare in nessun libro –e di libri ne ho letti un bel po’.
Tutto in questo posto è cristallo e luce, selvaggio e costruito allo stesso tempo.
A parte loro.
Compaiono sugli alberi e tra le rocce, come se qualunque meccanismo stia muovendo questa gigantesca sfera di cristallo avesse voluto tenerli per ultimi. Decine di occhi azzurri mi scrutano tutti uguali, immobili, incastonati in altrettante decine di teste piccole e rotonde: cerco rapidamente di contarli, ma il loro numero aumenta senza darmi il tempo di rendermi conto di quante figure vi siano. Accenno un tiepido “Salve” a queste immagini che senza dubbio non possono né vedermi né sentirmi, poi mi sforzo di cercare, oltre ai vestiti, qualcosa che riesca a rendere distinguibili questi bambini. Perché sono bambini, non vi è alcun dubbio, piccoli, biondi e con lo stesso sguardo, quasi come se anche la stessa espressione triste sia stata copiata l’uno all’altro. A parte il fatto che ciascuno di loro abbia una coda gialla –che ricorda vagamente quella di una scimmia- la cosa che mi lascia davvero sorpresa sono quelle forme, quei visi, quei piedi tutti uguali, un “uguale” strano, persino fastidioso, che non ha nulla a che vedere con decine di fazzoletti identici o di volumi dalla medesima copertina impilati uno sull’altro. Questi bambini che non smettono di apparire tutt’intorno al sentiero, forse per invitarmi a seguirli, hanno in loro qualcosa di agghiacciante ma allo stesso tempo così magnetico da spingermi ad accettare il loro silenzioso invito a seguire la strada lastricata e ad andare dove senza dubbio questo meccanismo ha intenzione di condurmi; maledicendo la mia curiosità –dovrei smettere di leggere racconti dove ragazze vengono rapite da aviopirati da sogno o seguono per pura curiosità degli animali parlanti che le conducono in mondi inesplorati e pieni di magia- faccio un passo in avanti, ma soltanto uno.
Un urlo attraversa la stanza e non appena mi concentro sulla sua origine l’intero scenario svanisce come era venuto, un velo d’aria bianca e mi ritrovo di nuovo nella stanza polverosa e incandescente di Oeilvert. L’aria calda mi investe di nuovo, ma stavolta scuoto la testa e afferro la torcia mentre la mano sinistra corre irrimediabilmente verso i borselli di erbe; non ho idea di cosa possano davvero servire, ma la mia mente ha iniziato a far suonare tutte le campane d’allerta necessarie.
Qualunque cosa stia facendo gridare Kuja possiede all’istante tutti i requisiti per essere indicata come “pericolosa”.
  
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