Nel crudele
e selettivo mondo della musica classica, il nome di Kai riscuote plausi
e
critiche positive ovunque lo si pronunci. In Cina lo paragonano
all’estroso e
potente Lang Lang, in Italia all’elegante Ludovico Einaudi.
Negli Stati Uniti
si sprecano le similitudini con Liberace, per l’eguale
disinvoltura nel mescolare
sacro e profano, pop dal sapore barocco alle delicate note di Chopin,
con un
pizzico di jazz contemporaneo. Indiscutibile talento a parte, non
guasta che
Kai sia davvero un bell’esemplare di sesso maschile,
appetibile per età e
lineamenti.
L’adagio
popolare insegna che la fama è fugace; non è
questo il caso. Il ragazzo miete
consensi e apprezzamenti da estimatori di qualsiasi ceto sociale e
orientamento
sessuale, musicofili e non. I suoi dischi si piazzano ai primi posti
delle
classifiche internazionali, e all’annuncio di un suo prossimo
concerto si registra
ogni volta il tutto esaurito. Kai è una star moderna, con
l’allure sottilmente
malinconica di un artista d’altri tempi.
Ma si sa: da
grandi poteri derivano grandi responsabilità. Sotto la
patina scintillante
della notorietà e dei soldi a palate si celano tutti gli
inconvenienti del
caso, in primis il problema dei fan molesti. Kai, il cui vero nome
è Kim Jongin,
potrebbe parlare per ore degli agguati subiti nel corso della propria
relativamente breve ma sfolgorante carriera. Tra ragazzine e signore
mature riuscite
ad intrufolarsi nella sua camera d’albergo per fargli
proposte di un certo
tipo, uomini infoiati che più di una volta hanno cercato di
saltargli addosso
direttamente sul palco e persone mentalmente instabili fissatesi con
lui al
limite dell’idolatria isterica, gliene sono capitate di cotte
e di crude.
Lui,
però,
detesta lamentarsi. Lo trova ipocrita: ha il lavoro dei suoi sogni,
è famoso e
amato, guadagna bene. Inoltre c’è una persona che,
con la sua dedizione, lo
ripaga dell’infanzia sacrificata per esercitarsi al
pianoforte, delle invasioni
di privacy, degli orari folli, degli ultimi anni trascorsi in trasferta
perenne
e con una valigia in mano. Il suo nome è Sehun. Si
autodefinisce un suo fan
sfegatato e Jongin può darne conferma. Non ricorda un
concerto a cui Sehun non
abbia presenziato, per poi aspettarlo all’uscita del teatro
di turno per
chiedergli un autografo. Richiesta che il pianista ha sempre
soddisfatto,
scrivendo il proprio nome -nonché una dedica affettuosa- su
custodie di cd in
edizione deluxe, pagine di quaderni, foto scaricate dal suo sito
ufficiale,
fazzoletti, tovaglioli di carta; una volta persino su un foglio di
carta
igienica a sette veli.
Sennonché
arriva una sera, dopo un’esibizione applauditissima alla
Scala di Milano, in
cui tutto cambia. Jongin è in camerino, intento a levarsi
dalla faccia il
cerone di cui la sua truccatrice personale lo ha cosparso, quando sente
dei
colpi alla porta.
“Guarda
chi
è, per favore” si rivolge a Yifan, una delle
guardie del corpo.
L’uomo
esegue. “Buonasera, signor Oh” saluta amichevole e
pacatamente divertito.
Conosce Sehun, gli sta simpatico. “Mi stupisco di vederla
comparire così presto”.
“Sa
com’è: aspettare
in strada, con questo caldo, non è il massimo”
replica l’altro con un sorriso. “Mi
chiedevo, se non è troppo disturbo-” accenna al
bloc notes che tiene in mano.
“Entra
pure,
accomodati” Jongin si volta a guardarlo, finalmente
struccato. Non lo
ammetterebbe nemmeno sotto processo perché poco
professionale, ma il volto di
Sehun gli ispira un certo languore nei lombi.
Yifan,
mangiata la foglia, si dilegua oltre la porta.
“Grazie,
e
scusa ancora” Sehun rimane in piedi, facendosi aria con il
programma. Indossa
una camicia sagomata e dei jeans attillati, forse eccessivi per il
caldo di
luglio. E’ anche vero, però, che alla Scala
l’aria condizionata non manca mai.
“Figurati”
Jongin si alza, in segno di cortesia. “Vuoi che ti
firmi…?” cerca una penna nel
taschino della giacca.
“No”
Sehun lascia
scivolare a terra il ventaglio improvvisato.
“No?”
Jongin
potrebbe giurare che la temperatura nella stanza sia aumentata di
colpo. “E
allora dove?”
“Stavolta
ho
pensato a qualcosa di diverso” mormora l’altro con
voce roca e sensuale (solo
nelle intenzioni). Prima che il musicista possa fermarlo, si strappa la
camicia
di dosso. I bottoni saltano e lui rimane con il tessuto squarciato a
metà,
penzolante e sfilacciato; tartaruga e capezzoli rosa scuro sono in
bella vista.
“Cosa”
scandisce Jongin, come un automa. E’ talmente sconvolto da
non riuscire neanche
a perdere la calma.
“Vorrei
un
tuo autografo sui miei addominali” Sehun gli si avvicina,
ancheggiando felino. “Se
non hai da scrivere va bene lo stesso, puoi usare la lingua”.
“Cosa”.
Sehun lo
accerchia in modo tale da bloccarlo contro il muro. “Oppure
potresti, non lo so…”
con una mano inizia a slacciarsi la zip dei pantaloni, mentre
l’altra si posa
sulla guancia in fiamme dell’altro. “Che ne dici di
firmarmi Sehun junior? E’
lungo e largo abbastanza, non preoccuparti” gli strizza
l’occhio.
Jongin non
capisce. Chi è questo maniaco sessuale che ha rimpiazzato il
suo fan numero
uno, tanto gentile e disinteressato, cortese e asessuato? Che fine ha
fatto
Sehun?
“COSA”
grida,
la favella andata ormai a puttane.
Yifan,
sentendolo
urlare, si precipita nel camerino. “Jongin, stai be- oh.
Oh” nota i due, in
posizione compromettente ed altamente equivoca. “Capisco.
Scusatemi tanto, non
era mia intenzione interrompervi. Darò istruzioni
affinché nessuno vi disturbi”
si esibisce in un compitissimo inchino e richiude la porta dietro di
sé.
Sehun si
lascia andare ad una malvagissima risata da signore del male. Jongin,
invece,
sviene.
Jesus,
quante puttanate scrivo. Perdoname madre por mi vida loca.
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