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Autore: FigliadiDurin    19/07/2016    0 recensioni
XVI secolo, la galea Incubo dei mari navigava nei pressi delle coste inglesi pronta per il rientro in patria. La giovane rematrice Eloisa guardava la realtà con ansia e timore: da ormai settimane il suo sonno era disturbato da spaventosi incubi e l’unica cosa che ricordava al risveglio erano i magnetici occhi gialli.
Storia partecipante al contest "Apocalisse: Vivere o Morire" indetto da ManuFury sul forum di Efp
Genere: Horror, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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Gelo
Vennero nuovamente sballottati violentemente ma quella volta non fu il mare tumultuoso bensì la galea stessa. L’azione degli squali stava distruggendo la chiglia facendo, così, venire meno l’equilibrio. Anche la stiva, carica di merci, stava subendo lo stesso attacco.
«Ha ragione la donna, c’è qualcuno che sta scavando la nave» disse Alvaro pentendosi, all’istante, di aver pronunciato quelle parole. Non era mai successo che qualcuno avesse dato ragione ad Eloisa e le successive prese in giro dei compagni erano una prospettiva ben peggiore del morire inghiottito da uno squalo o chissà cosa. Al commento, infatti, seguì una risata che coinvolse però solo pochi rematori e che fu stroncata da un cenno del capitano.
Eloisa ingurgitò presto il rosso rimanente nella bottiglia; anche se le girava la testa si scoprì dipendente dal liquido. Tenne la bottiglia stretta all’altezza del grembo mentre distingueva le diverse sfumature dei suoi occhi azzurri nel riflesso sul vetro e parlava distrattamente all’equipaggio.
«È vero, lo sapete anche voi. Dei semplici squali non possono compromettere così una galea. C’è qualcos’altro molto peggiore. Capitano, io sono sicura che lei comprenda. Mi dia ascolto, per favore» pronunciò quell’ultima frase rivolgendosi al proprio superiore ricevendo in risposta un’occhiata stizzita.
«Caricate le armi e poi sparate a qualsiasi cosa si muova laggiù.»
Eloisa ebbe di nuovo paura: una volta che furono premuti i grilletti si generò un’altra volta il caos. I rematori elettrizzati, poco preparati a svolgere quel compito, spararono in qualsiasi direzione mettendo a repentaglio la loro stessa sicurezza. Si sentiva, però, soltanto il rumore dei proiettili che attraversavano l’acqua e si perdevano nelle profondità del mare.
Robert urlò entusiasta quando una sua pallottola affondò nella carne dello squalo ma immediatamente dopo, a smorzare quell’entusiasmo, fu il grido emesso da quella cosa. Impercettibile, appena udibile, ma raggelante.
Il giovane rematore lasciò cadere il fucile paralizzato da quella voce. Si girò verso i compagni con le lacrime agli occhi accorgendosi che il caos era finito, che tutti erano immobili nella loro postazione come se il tempo si fosse fermato.
Il freddo tornò ad attanagliare Eloisa; la ragazza rabbrividì e impallidì fino ad avere la pelle bianca come coloro che hanno smesso di vivere. Si sentì lacrime calde agli occhi ed ebbe più paura di prima: si sforzò di ricordare ma nessun brutto ricordo affiorò nella sua mente. Durante gli incubi quelli dagli occhi gialli non avevano mai parlato o urlato e quell’unica volta, quando furono colpiti, la loro reazione era stata violenta. Poi il nulla, non rammentò che cosa fosse successo dopo.

«Non sono squali» il capitano sentì quasi il bisogno di constatare quell’evidenza, «ma non so cosa realmente siano né come combatterli.»
La donna sapeva che stava mentendo, ma non capiva perché. Il superiore era ormai fuori gioco, dava perfino l’impressione che stesse combattendo una battaglia diversa dalla sua.
«Posate le armi, i proiettili infastidiscono soltanto queste creature» ordinò Eloisa ma i compagni aspettarono l’assenso di Alfieri per eseguirlo.
La nave perse la stabilità; quelli dagli occhi gialli erano riusciti ad entrare nella stiva ed era pensabile che presto sarebbero arrivati nelle cabine. Il mare, da sempre loro alleato, sarebbe entrato distruggendo ogni cosa al suo passaggio, mettendo fine alle loro vite.
«Che facciamo?» proruppe Jack in un pianto a dirotto mentre tremava vistosamente.
«Stia calmo» gli suggerì Eloisa, «che qualcuno prepari le scialuppe di salvataggio, dobbiamo scendere dalla nave. Non siamo al sicuro qui.»
«Non ditemi di stare calmo. Quelli se riescono a salire ci uccidono e se non riusciamo a fermarli ci ammazzano comunque.»
«Si sieda e stia calmo» disse sbrigativamente il capitano che continuava a guardarsi intorno come se fosse alla ricerca di qualcosa.
«No» affermò convinto il giovane rematore battendo i pugni con forza sul legno scheggiato del remo più vicino, ma il suo sfogo fu interrotto da un secondo lacerante urlo, umano quella volta.
«Giacomo…» Alfieri corse subito nella sua cabina per salvare il nipote, per difenderlo dalla morte e gettarsi, in prima persona, nel pericolo.
«Capitano non l’ho faccia» urlò a sua volta Eloisa ma il superiore non le diede ascolto, spintonando gli uomini che cercavano di bloccarlo.
«Lasciatelo morire tanto moriremo tutti. Non abbiamo nessuna via di scampo» disse Jack alzando la voce per quanto ne avesse ancora le forze. Eloisa lo squadrò con gli occhi per riportarlo di nuovo alla calma e si preparò al prossimo urlo di Alfieri, ma questo non avvenne e preoccupò maggiormente l’equipaggio.
«Dobbiamo scendere, bisogna difendere il capitano in qualche modo.» La proposta di Robert non fu accolta così bene come aveva sperato. Nessuno prese l’iniziativa, nessuno si precipitò a sacrificarsi per il superiore. Anche se la morte era vicina nessuno voleva davvero morire.
Non voleva aiutare il suo superiore, non aveva abbastanza forze per farlo; la mattina dopo ogni incubo immaginava di vincere la battaglia in una maniera molto diversa che non implicava mai sangue o morti. Nonostante sapesse che non avrebbe mai potuto sconfiggere quelli dagli occhi gialli così semplicemente, non aveva ancora progettato un piano migliore. Sperava, benché credesse poco nelle potenzialità del capitano, che lui le avrebbe mostrato il giusto modo per vincere quella battaglia.

«Scendiamo dalla nave, quelle bestie stanno arrivando» provò a dire nuovamente Alvaro, ignorato dalla silenziosa comparsa di Alfieri. Tutti si girarono a guardarlo sorpresi e nello stesso tempo spaventati. Il superiore aveva il fiatone, ma il passo era lento e goffo; le mani erano sporche di sangue così come i vestiti consunti dal tempo. Il volto era così apatico che non lasciava trasparire nessuna emozione e gli occhi erano ancora più stanchi di prima, segnati da qualcosa che Eloisa non riuscì a decifrare.
«È morto» disse quasi con noncuranza, ormai rassegnato di quel tragico destino.
«Ci dispiace, capitano» dissero i rematori in coro come puro atto formale, togliendosi il cappello in segno di rispetto.
«Ah, state zitti» inveì il capitano sputando un grumolo di sangue sulla galea malandata; poi si rivolse ad Eloisa così come tutti si aspettavano che facesse.
«Signorina, ci parli di queste creature dagli occhi gialli. Ci delizi con i suoi racconti. Forza non abbia timore, sembra così preparata, così desiderosa di parlare»
C’era sarcasmo dietro la sua spettrale voce e l’invito a descrivere i suoi sogni turbò non poco la rematrice: non capiva perché Alfieri volesse ascoltare una storia che già conosceva. La ragazza si mostrò incerta e titubante, lasciò per la prima volta la presa sulla bottiglia sentendosi come disarmata e più vulnerabile. Quel pezzo di vetro era diventato una sorta di portafortuna.
«Capitano, non abbiamo tempo per le storie. Le creature ci stanno venendo a prendere e...»
«Non si preoccupi, io voglio sentire le sue parole» tagliò corto il superiore con un tono che alla rematrice non piacque nemmeno un po’: stava nascondendo di certo qualcosa.
«Capitano, ha ragione la donna. Dobbiamo scappare se vogliamo vivere» disse Alvaro ritrovandosi ancora una volta a difendere Eloisa. Alfieri lanciò un’occhiataccia verso l’ufficiale. Sembrava fatto di marmo, austero ed irremovibile, non si poteva nemmeno pensare di disobbedire ad un suo ordine.
«Ogni notte, ma ormai sempre più spesso, rivivo lo stesso incubo. All’inizio credevo che fossero solo sciocchezze, ma poi si sono fatti insistenti. Pensavo anche che fossi l’unica a cui apparissero queste strane immagini, ma non è vero: migliaia di persone nel mondo in questo momento stanno vedendo gli stessi occhi gialli. I miei sogni sono stati come la proiezione di uno spettacolo a teatro; dapprima solo il prologo, poi le vicende si sono fatte più intense fino a toccare l’apice. Non avevo paura prima, vedevo soltanto un paio di persone che con estrema lentezza si avvicinavano a me, ma erano troppo lontani e lenti per potermi fare del male. Li vedevo zoppicare, ergersi a malapena su due gambe, pensavo che avessero bisogno di aiuto, ma io non avevo voglia di darglielo. Molti camminavano a testa bassa, ma erano lontani per poterli vedere in viso o scorgere qualche particolare in loro. Notte dopo notte, queste creature erano sempre più vicine a me ed aumentavano in numero. Dopo una settimana quelli che mi stavano dando la caccia si erano moltiplicati. Ogni tanto urlavo, chiedevo chi fossero e che cosa volessero da me, ma loro non mi rispondevano, stavano zitti e non producevano nemmeno il più debole dei rumori. C’era sempre più freddo, ma io non riuscivo a sentirlo. Mi svegliavo e nonostante fossi completamente sudata, l’aria intorno a me era gelida. Ho capito soltanto ora che le due cose sono collegate. Quando erano sopraggiunti già a metà percorso desideravo correre, ma le mie gambe erano paralizzate così come tutto di me. Aspettavo ogni notte la mia morte, ma questa non veniva mai perché, per qualche ragione, mi svegliavo sempre prima. Da quanto siamo salpati la situazione è cambiata: queste creature appaiono anche quando sogno ad occhi aperti o chiudo semplicemente gli occhi per riposarmi. Sono sempre più vicini ed è ormai facile capire come sono fatti.»
Eloisa si fermò improvvisamente cercando con gli occhi la bottiglia troppo lontana, desiderava rinfrescarsi le mani calde sul vetro gelido. Non sapeva se continuare, non aveva mai riflettuto sull’aspetto di quelle creature, conosceva soltanto i loro occhi e aveva paura di ricordare. Pensò che dirlo ad alta voce davanti ad un gruppo di uomini poco sensibili sarebbe stato ancora più brutto. Il capitano la guardava calmo, ma nello stesso tempo precipitoso così come tutti gli altri a bordo. La galea aveva imbarcato troppa acqua e quindi stava rovinosamente affondando, ma nessuno sulla nave se ne era accorto, erano tutti immersi ed intrappolati in quel racconto.
«Sembrano uomini ma non lo sono. La loro carne è semplicemente andata via, non ce n’è traccia sulle loro ossa scure, marce. Si ricoprono con miseri vestiti, lacerati e strappati, che lasciano intravedere lo scheletro imputridito che li sostiene malamente. Ad alcuni manca qualche arto, ma ad altri le lunghe braccia terminano con appuntite falangi, come lame affilate e sotto le unghie gialle c’è costantemente qualche traccia di sangue fresco. Molti sono giovani però, non giovani nel senso di più piccoli anagraficamente, ma più freschi, meno putrefatti, con pezzi di carne bianca ancora attaccata sul viso. Non mi sono mai soffermata a guardare il loro volto; per quel che ricordo è come il nostro, soltanto un po' più scavato e scuro. I loro occhi però, i loro occhi li ricordo bene, sono spenti, ma sembrano terribilmente vigili. Sono gialli, non scuro però, appaiono quasi bianchi se non presti molta attenzione. Il contorno dell’iride è nero e se non incute terrore il loro aspetto lo faranno i loro occhi; essi rimangono impressi nella mente e quando tenti di scacciarli la loro immagine si fa sempre più nitida. Non so nient’altro, non ho idea di come combatterli. Non ho mai capito a cosa alludevano questi sogni fino ad oggi: tutto quello che succede nel mondo è collegato e soltanto pochi eletti hanno avuto l’onore di poterlo capire prima. La temperatura che diminuisce costantemente, il cielo e il mare che si tingono di una tonalità di più scura, il tramonto sempre più in anticipo, le acque del mare più ribelli e forti, i miei incubi; sono tutti simboli che preannunciano qualcosa di molto grande e terribile. Ho sempre pensato che lei, capitano, sia stato vittima dei miei stessi incubi, che studiava con così tanta precisione il calare del sole per rispondere alle tante domande che affollavano la sua mente. Anche se ne dubitavo, credevo che lei avesse trovato un modo per uccidere i morti che camminano, ma ora non capisco più niente. Mi dica, perché?»
Alfieri non accennò ad alcun cambiamento, nessuna reazione, nessun battito di ciglia.
«Io e lei siamo due degli eletti di cui tanto parla? Qual è il nostro compito? E questi poveri uomini, qual è il loro posto in questa vicenda?» Dopo le domande del superiore Eloisa si sentì a disagio, non perché non conosceva la risposta, me perché il tono con cui le aveva poste era pungente. Il capitano, comunque, riuscì a decifrare il desiderio della ragazza perciò si alzò non staccandole gli occhi di dosso e le porse la bottiglia vuota con delicatezza. Eloisa la strinse, stappandola per sentire ancora l’aroma del vino.
«Io le ho fatto una domanda e lei non può rispondere con altre domande. Non so in cosa consiste il nostro compito, ma credo che dobbiamo combattere queste creature prima che loro uccidano noi e credo che noi siamo una sorta di comandanti di un qualche esercito» iniziò Eloisa. Poi prese un profondo respiro e continuò. «Capitano, come ha fatto a salire quassù visto che suo nipote è morto? Il corpo sarà stato accerchiato da quelli dagli occhi gialli. Come è scappato illeso e perché nessuno di loro lo sta seguendo?»
Ci fu qualche mormorio tra i membri ma nessuno osò intromettersi in quel circolo di domande. Il superiore si lasciò andare in una risata, anch’essa stanca e forzata.
«Donna, sono costretto ad ammettere che lei è molto attenta. La feccia che abbiamo per compagni è talmente ignorante da non aver capito niente e probabilmente è un bene visto la paura che la situazione genera. La prima volta che quelli dagli occhi gialli mi sono apparsi sono corso subito a cercare gli altri eletti: a Londra ce ne sono un centinaio come noi ma nemmeno quelli più svegli sapevano qualcosa in più. Mi sono arrivate delle lettere, portano scritto che in Giappone e nel Nuovo Mondo i morti che camminano hanno già falcidiato metà della popolazione e ancora niente è riuscito a fermarli: i proiettili li arrestano per pochi secondi facendoli però infuriare. Stimavo che avrebbero colpito in Europa molto presto, sapevo che sbucassero dalla terra e quindi credevo che sul mare fossimo salvi, ma che idiota che sono stato. L’abisso blu accoglie spoglie più di quanto lo faccia la terra.
«Come sono riuscito a scappare? Non ho avuto un cuore, né dignità. Mio nipote aveva il cranio fracassato e già due di quelle creature affondavano i denti marci nella coscia del ragazzo, facendosi spazio tra la pelle ancora troppo giovane e mordendo il muscolo ancora tenero, ma si sono ritratti disgustati imitando una smorfia di disprezzo. No, le cosce evidentemente non sono il loro piatto preferito. Loro preferiscono il cervello, fresco e vivo cervello.
Io non sapevo che fare, non volevo urlare perché se lo avessi fatto avrei attirato i morti su di me. Era il mio unico nipote, il figlio della mia unica amata sorella; gli volevo bene davvero, ma era giunta la sua ora. Volevo salvarlo, ma c’era qualcosa che mi impediva di farlo, che mi diceva che era impossibile farlo. Credetemi, signorina, non c’è nessun modo per uscirne vivi. Ho progettato e riflettuto su qualsiasi piano ma niente ci proteggerà da quegli esseri. La fine del mondo si sta avvicinando e dobbiamo solo accettare il nostro destino».
I morti viventi si stavano arrampicando dalla cabina e ormai a dividerli dall’equipaggio erano soltanto un paio di metri.
«Capitano, così lei si sta arrendendo» disse Alvaro con un tono carico di disprezzo; sul suo volto si leggeva pura delusione. Anche gli altri ufficiali e rematori erano delusi, sorpresi e di nuovo spaventati.
«Lei vuole morire e non combattere, ma perché ci sta facendo perdere tutto questo tempo? Noi possiamo salvarci.» Eloisa si alzò in piedi di scatto, fece cenno agli ufficiali di calare nell’oceano la seconda barca dopo che la prima era già pronta per portarli lontano da quel posto.
«Non vi ho fatto perdere tempo» sbottò d’ira il capitano; era viola in viso e aveva le mani insanguinate strette in pugno, «io vi voglio salvare, razza di stupidi. Se scappate loro vi seguiranno e vi faranno del male, con le mani raschieranno le ossa del vostro cranio fin quanto si spezzeranno e potranno gustarsi tranquillamente i vostri succulenti cervelli. Io dico, invece, diventiamo come loro. Facciamoci mordere, toccare o chissà cosa, ci sarà un modo per sbranare gente e avere gli occhi gialli. Perché dobbiamo morire? Perché dobbiamo scappare quando possiamo salvarci e magari vivere in un mondo migliore con queste bestie.»
«Capitano, lei ha perso completamente il senno. Basta, io non la voglio più ascoltare né stare un minuto in più su questa nave. Quello che dice è una pazzia!» gridò il grasso Jack abbandonando la nave, seguito da Robert e dagli altri rematori.
Soltanto Alfieri, Eloisa ed Alvaro non erano scesi dalla galea ormai quasi completamente affondata e ridotta a sole assi di legno spezzato.
«C’è qualcosa che non mi convince, il suo piano è estremamente contorto, ma non sarà compito mio cercare di sbrogliare la matassa, io voglio vivere» affermò convinta la rematrice afferrando la bottiglia prima di scendere. Era stanca e non sapeva quale fosse stata la sua prossima mossa, ma non aveva il tempo per scoraggiarsi. Doveva pensare ad una cosa per volta e scendere dalla nave sembrava la decisione migliore al momento. La ragazza non si era nemmeno resa conto che ogni membro dell’equipaggio dipendeva da lei.
«Capitano, un’ultima cosa» disse il vecchio ufficiale togliendosi il capello come quando ci si accinge ad ascoltare una storia importante, «Come ha intenzione di farsi infettare?» La domanda non era per niente fuori luogo ma mentre Alvaro aspettava silenziosamente la risposta, alle sue spalle due morti si issavano in piedi. L’uomo udì il loro debole fiutare in cerca di prede, di cibo; ebbe la pelle d’oca.
Alfieri scoppiò a ridere, ma l’ufficiale aveva previsto quella mossa accorgendosi pure che la risata isterica era riapparsa, ma che la paura che nascondeva si era triplicata.
«Non ne ho la minima idea» continuò a ridere come se quello che stava dicendo fosse la migliore barzelletta che avesse mai raccontato, «quelli sono come cani perché fiutano la paura, capisci? Almeno credo e sicuramente ci spero».
Alvaro si infastidì del comportamento infantile del superiore, ma se ci fosse stato un futuro sicuramente in quello avrebbe esaltato il suo coraggio. Prima di scendere prese il fucile e nonostante avesse ancora in mente l’orrore che aveva provocato il proiettile prima, quell’arma gli dava la sicurezza sufficiente per quel giorno. Si calò lentamente con il cuore nella gola, riservando un’ultima occhiata verso la galea. Ebbe la sfortunata occasione di poter vedere una creatura dagli occhi gialli da vicino. Somigliava perfettamente al ritratto dipinto da Eloisa: le stesse ossa marce e gli stessi occhi gialli, come due fari spenti nel buio. Poi pensò all’uomo che una volta viveva dentro quel corpo, al ricordo di quell’anima di cui non rimaneva niente: nessuna memoria nei cuori dei famigliari, nessun sentimento o rispetto, nemmeno la polvere, ma la sola custodia vestita dal male.
Il morto si avvicinò lentamente al superiore che Alvaro vedeva fremere, terrorizzato da quella silenziosa minaccia. Presto anche il capitano avrebbe perso ogni dignità, di lui non sarebbe rimasto niente, nessuna fiera conoscenza, nessun coraggio, niente di quello che lo aveva reso grande. Se il fucile non poteva stroncare un morto, poteva uccidere un vivo.
«Non lo faccia, ufficiale» gridò a squarciagola Eloisa ma non servì a nulla: Alvaro indirizzò la canna del fucile verso Alfieri e premette il grilletto.
   
 
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