Anime & Manga > Fate Series > Fate/Stay Night
Segui la storia  |       
Autore: madychan    20/07/2016    0 recensioni
[Dal primo capitolo]
Davanti a lei c’era una altra ragazzina. Con tanto di capelli lunghi, vestito dalla gonna ampia, e l’aria di chi non è per niente stanco per la camminata fatta. [...]
E, proprio quando Arthuria fece per parlarle e chiederle chi fosse, lei sorrise. Arthuria sbatté le ciglia, vedendo che i suoi occhi andavano a soffermarsi di nuovo sull’elsa di Caliburn per qualche istante, e poi tornavano a guardare i suoi.
«Avete gli occhi di questo stesso colore.» commentò.
Aveva una voce quasi strana, per essere una ragazzina. Di certo, non particolarmente acuta.
Arthuria spostò lo sguardo da lei all’elsa, a propria volta, e fissò l’azzurro smaltato che si alternava con l’oro e i suoi riflessi chiari dati dalla luce di un sole che stava sorgendo.
«Vi somigliate.» disse ancora l’altra.
Genere: Drammatico, Romantico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shoujo-ai | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio, Saber
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Capitolo quarto

La dama che combatte

 

 

 

Quando ha iniziato ad allenare Shirou, Arthuria ha avuto un deja-vu che, a posteriori, le sembra inevitabile.

Lui e Guinevere sono fatti allo stesso, identico modo.

Tutt’e due non sono troppo portati per il combattimento:

non sanno muoversi bene, non sanno anticipare i movimenti dell’avversario, non sanno studiarlo,

e non sanno nemmeno contrattaccare a dovere, o almeno difendersi.

Vedere Shirou cadere diverse volte a terra le riporta alla mente tutte le volte in cui Guinevere era crollata,
nello stesso modo in cui sta facendo lui ora.

Tanto che, dopo un paio di giorni di allenamento, avevano optato per sostituire gli abiti di Guinevere, fin troppo femminili,
con degli abiti più pratici, che fossero utili almeno nel non farla inciampare in continuazione.

Shirou è uguale a lei: cade, ma si rialza e non si arrende, malgrado i lividi, i colpi,

e anche l’umiliazione di essere battuto da una ragazza.

Lo si potrebbe definire quasi stupido, se non fosse per quella luce che Arthuria continua a vedergli negli occhi.

Vuole proteggerla.

È la stessa, identica, volontà che aveva anche Guinevere.

È lo stesso fuoco di fierezza e determinazione, a brillare negli occhi di entrambi.

E nei momenti in cui lo vede, Arthuria deve stringere con più forza l’elsa di quella spada di legno giapponese che le hanno dato per allenarlo.

E, senza volerlo, si ritrova a colpirlo forse più forte del normale e del consentito in un allenamento.

Perché non riesce a controllarsi?

Perché non riesce a trattenersi dal cercare di smorzare quell’entusiasmo, e quella determinazione?

Perché non riesce a non pensare che, se Shirou continua così, farà una brutta fine?

E perché continua a pensare che non sia solo per il Graal, che lei non vuole che lui muoia?

 

 

 

 

 

Era da qualche giorno che Guinevere dimostrava entusiasmo dovunque e a chiunque, nei cortili del castello.

Arthuria e Lancelot si limitavano a sorridere, consci del motivo di quell’esaltazione così tipica di lei.

Si trovavano, nella pratica, rinchiusi tra le mura del castello di Tintagel da alcuni mesi: la battaglia di Uther contro i Sassoni si era spinta fino a poco distante da loro, e il castello aveva preso le misure necessarie ad ospitare gli abitanti dei villaggi vicini, in modo da proteggerli.

Era come se fossero sotto assedio; solo che non lo sembrava.

La vita proseguiva tranquillamente, all’interno di quelle mura. Guinevere e sua madre, ovviamente, si erano rifugiate lì insieme agli altri; Lancelot avrebbe anche potuto non farlo, visto che la fortezza dominata dalla Dama del Lago era sufficientemente potente da resistere a un attacco umano. Ma siccome lui e Arthuria si erano riproposti di allenare Guinevere, e allenarsi tutti insieme, lui le aveva seguite e si era volontariamente rinchiuso lì dentro con loro.

Arthuria era ormai conosciuta da tutti gli assediati; ed era stato anche grazie a quello, che era quasi riuscita a completare il percorso che Guinevere aveva deciso di intraprendere tre anni prima, per addestrarla all’uso delle magie.

Guinevere le aveva spiegato che, per cominciare, doveva acquistare più fiducia in sé stessa: solo così avrebbe potuto ottenere quella degli altri, e degli spiriti in primis. Il che non era stato tanto facile: quella sfiducia in se stessa era talmente radicata in Arthuria che lei aveva faticato a cercare di superarla, e Guinevere aveva fatto i salti mortali per farle capire che lei, Lancelot e Merlin erano i primi a credere in lei, e che dopo di loro ne sarebbero arrivati tanti altri – bastava solo che lo volesse davvero.

L’assedio era stato utile, in quel senso: gli assediati, vedendo lei e Lancelot combattere, avevano espresso tutti la propria ammirazione per le sue capacità, senza sottovalutare quelle di Lancelot – il che non aveva fatto altro che accrescere ancora di più la sua stima verso sé stessa, visto che ormai riusciva a tenergli testa senza problemi.

Avevano addirittura saputo che si era aperto un giro di scommesse su chi vincesse i combattimenti quotidiani che facevano lei e Lancelot per allenamento: le puntate venivano fatte sia da contadini, sia da persone che appartenevano a ranghi più alti, e Arthuria era venuta a sapere di essere più quotata di Lancelot.

Teoricamente le scommesse erano illegali, specie all’interno di un castello; ma siccome non avevano scoperto la base di quel giro, non erano ancora riusciti a stanare il colpevole di tutto. Non che ci provassero più di tanto, in fin dei conti – si giustificavano dicendo che era giusto che durante un assedio gli assediati avessero i propri svaghi; e per di più, se quello favoriva l’interazione tra ceti diversi, era quasi accettabile.

L’ennesima soddisfazione le era arrivata dal fatto che anche alcuni guerrieri di Uther, che erano rimasti al castello per difenderlo, avevano dovuto ammettere i suoi progressi e le sue capacità, pur rifiutandosi di sfidarla – chissà se per non perdere il proprio orgoglio, o perché non la ritenevano davvero alla loro altezza.

L’entusiasmo di Guinevere era arrivato proprio da quello: superate quasi tutte le proprie ansie, Arthuria era quasi pronta per entrare in contatto con gli spiriti. Per di più, dal fronte arrivavano notizie di vittoria delle armate britanniche su quelle germaniche: ciò significava che lo stato di assedio sarebbe presumibilmente finito presto, e Guinevere avrebbe potuto condurla in un luogo “naturale”, come li definiva lei (un luogo era la natura a farla da padrone, e non la presenza dell’uomo), e attendere che entrasse in diretto contatto con uno spirito.

Arthuria sorrise, guardandola dall’alto di uno stretto balcone su una torre, mentre lei si allenava con Lancelot nel cortile di qualche piano più sotto, tra grida e applausi della gente che li osservava in prima linea.

Si era dimostrata più abile di quanto Arthuria si fosse aspettata: malgrado fosse evidente che il combattimento non fosse il suo talento primario, Guinevere aveva dimostrato di saper apprendere in fretta – anche se a suon di batoste belle forti. Erano bastati pochi giorni, per farle lasciare in disparte il vestito lungo, e farlo sostituire con dei vestiti simili a quelli di Lancelot (un paio di braghe, e una veste sopra, che le arrivava fino alle ginocchia); era bastato un solo mese, perché imparasse i rudimenti, apprendesse come guardarsi le spalle, come maneggiare una spada, come tenerla, quali attacchi fossero più potenti e quali più veloci, e i movimenti di base da fare con le gambe. Il resto era venuto da sé, e dall’istinto, mentre si allenava con lei e Lancelot. E Guinevere era stata in grado di apprendere più velocemente del previsto.

Magari non era proprio prontissima per una battaglia, in quel momento, ma era quasi arrivata a quel punto.

Sorrise di nuovo, e sollevò per un attimo la testa al cielo, per respirare a pieni polmoni l’aria fresca che le sferzava il viso.

Strinse la parte di torre su cui si era seduta, per evitare di farsi schiantare dalla forza del vento contro qualche muro, e distese le labbra, rilassata dal freddo delle raffiche a quell’altezza. Solo in quel punto si poteva sentire tutta quella forza.

E solo in quel punto si poteva vedere così bene Caliburn, abbandonata sulla collina a quasi due ore di cammino dal castello, eppure integra e risplendente nella luce del mattino come sempre.

Arthuria osservò il riflesso bianco dei raggi del sole sulla lama, solo per un istante; poi, chiuse gli occhi e inspirò di nuovo a fondo, concentrandosi sul fischio del vento nelle proprie orecchie, e sul violento fruscio prodotto dall’aria che si schiantava contro i suoi vestiti e li faceva aderire al suo corpo.

Fu in quella distensione totale in cui aveva imparato a calarsi, dopo anni di addestramento per contattare gli spiriti della natura, che udì il respiro di qualcuno dietro di lei – qualcosa di impercettibile, se non fosse stato per quell’ampliamento dello spirito.

Socchiuse gli occhi e si voltò.

Scivolò con la propria presa sulle pietre della torre, quando identificò la figura che stava a guardarla, ritta, sulla feritoia che fungeva da ingresso a quel punto del castello. E quasi cadde a terra per lo sbalordimento.

Trattenne il respiro per un secondo, sentendo chiaramente il cuore batterle all’impazzata nel petto.

Gli occhi castano scuro di Lady Igraine la stavano fissando, quasi come a studiarla.

E per la prima volta, non le sembrarono delle schegge di ghiaccio.

La osservò, in religioso silenzio, mentre lei compiva qualche passo e si affiancava a lei, in piedi, a osservare la collina di Caliburn. Senza dire una parola.

Arthuria la fissò, incapace di proferire un qualsiasi suono e, quasi, di respirare; deglutì a vuoto, e poi si limitò a osservare il suo profilo da vicino – una cosa che non le era mai capitato di fare prima.

Lady Igraine era quella che si poteva definire una bella donna: aveva i lineamenti perfetti, né troppo delicati, né troppo decisi; aveva gli occhi grandi, e Arthuria era sicura che con chiunque, tranne che con lei, sapessero essere dolci; aveva le labbra non troppo carnose; la pelle bianca, che contrastava coi capelli neri e gli occhi scuri; e un portamento sicuro di sé, che chiunque avrebbe definito regale.

Capiva, in un certo senso – un senso puramente estetico, in realtà – il desiderio che Uther avesse provato per lei.

Abbassò lo sguardo, e poi passò a guardare Caliburn a propria volta; non voleva sembrare troppo invadente, a continuare a guardarla. Lo sguardo, però, le cadde su Guinevere, e sull’affondo che Lancelot stava facendo contro di lei.

Si ritrovò a contemplarla – come le era capitato, ormai, diverse volte, in quegli ultimi mesi; e una delle prime considerazioni che le vennero alla mente fu che la bellezza di Guinevere fosse diversa da quella di Igraine. Guinevere aveva tutto al posto giusto: a cominciare dai lineamenti delicati, e dagli occhi sempre assottigliati per i suoi sorrisi; fino ai suoi capelli scuri e lunghissimi, e al naso con la punta lievemente ricurva all’insù, e alle orecchie impercettibilmente a sventola, e alle sue mani dalle dita lunghe; fino ai suoi polsi sottili, e al suo corpo non prosperoso, ma armonioso nelle forme; fino alle gambe un po’ più lunghe della norma, e muscolose per via degli allenamenti.

I suoi lineamenti erano perfetti pur non essendo nella norma di perfezione comunemente intesa.

Se non fosse stata così, non sarebbe stata lei; e Arthuria sentiva che non sarebbe stata perfetta, se non così.

«Quella spada era di re Uther.»

Arthuria sussultò, e quasi cadde dal posto su cui era seduta; voltò velocemente lo sguardo verso Lady Igraine, che aveva appena parlato, al di sopra del vento, e col chiaro intento di farsi sentire da lei.

Spalancò gli occhi per la sorpresa, a quella realizzazione.

Sua madre, dopo quindici anni, stava parlando con lei.

La fissò, inebetita. All’inizio non seppe nemmeno cosa provare esattamente: sentiva solo un confuso e indecifrabile turbinio di emozioni dentro di sé. L’unica sensazione chiara fu il brivido che le percorse la schiena, e che non fu assolutamente spiacevole.

E poi giunse il sorriso, al realizzare che sua madre era lì perché voleva parlarle; che era andata fino a lì perché l’aveva seguita, e si era interessata a lei. Magari lo aveva sempre fatto, in tutti quei quindici anni, ma l’orgoglio e la rabbia le avevano impedito di mostrarglielo finora; magari ora aveva riconosciuto che lei non era come suo padre, e si era meritata la sua attenzione. Anche solo per qualche attimo.

«Merlin, lo stregone…» proseguì Igraine, lentamente – facendo una smorfia, al nome del mago, «…l’aveva data a lui, confidando, probabilmente, che sarebbe stato un re saggio e giusto.». Arthuria spalancò gli occhi, sorpresa: non conosceva quel risvolto della storia. Vide la madre sollevare il mento, e continuare a fissare la spada, stringendosi lievemente nello scialle che portava sulle spalle. «Una convinzione sorprendente, a giudicare dal fatto che è uno degli stregoni più potenti del mondo.» considerò ancora lei. «Probabilmente ha commesso un errore di giudizio. In fondo è un essere umano anche lui.» commentò, chiudendo per un momento gli occhi, e abbassando la testa.

Arthuria rimase in attesa di qualche altra parola, in bilico sulle sensazioni da provare: come doveva sentirsi, se le prime parole che sua madre le rivolgeva consistevano in un discorso di disprezzo verso il padre?

«Merlin lo stregone si è reso conto solo successivamente di aver commesso questo errore.» considerò ancora Igraine, socchiudendo di nuovo gli occhi e riprendendo a guardare la spada. «Gliel’ha presa con l’inganno, e… l’ha data in custodia agli spiriti della montagna, o almeno così mi è stato detto.» proseguì, indicando con un movimento del braccio la collina. «Nella speranza che un re giusto un giorno la estraesse, e governasse in modo saggio. A differenza del nostro beneamato Uther, che più che scatenare guerre non ha fatto, nei suoi anni di regno.» considerò. «Quel re… Merlin l’ha voluto creare. Con l’inganno, un’altra volta.» disse Igraine – Arthuria sobbalzò, senza capire. E Igraine dovette intuirlo, visto che voltò lo sguardo verso di lei, e le rivolse un’occhiata fredda. «Uther si era invaghito di me la prima volta in cui mi aveva visto. Era stato in occasione di festeggiamento per una vittoria sui Sassoni, cui aveva invitato Gorlois, il mio primo marito, e me.» spiegò. «Le sue intenzioni erano state subito evidenti a entrambi. Ma Gorlois non vi aveva dato peso, pensando che Uther avrebbe onorato il legame del matrimonio che intercorreva tra me e lui.» disse. Poi, voltò la testa di nuovo a contemplare Caliburn, e la scosse per un attimo. «Molto probabilmente quella guerra in cui Gorlois è stato chiamato era solo una scusa. Mi è sempre parso strano che lui, che era un guerriero così capace, fosse morto poco dopo l’incontro mio e di Uther.» considerò.

Arthuria abbassò lo sguardo, desolata; sapeva la storia, e ragionandoci a mente fredda era abbastanza ovvio che Uther avesse approfittato dell’occasione di quella guerra per eliminare il rivale. Era un comportamento che Arthuria non concepiva per sé: era talmente vigliacco che non rientrava nelle regole della cavalleria che le erano state insegnate, e che avrebbero dovuto essere proprie di ogni cavaliere, e di ogni re.

Ma non era ingenua: sapeva che, come molti cavalieri rispettavano il codice, altri invece lo ignoravano in virtù dei propri scopi personali. Era un po’ come il discorso che le aveva fatto Lancelot, il primo giorno di allenamento: loro non avrebbero mai attaccato qualcuno alle spalle, perché avrebbe significato perdita dell’onore; ma dovevano guardarsi da quelli che, mostrando una facciata da cavaliere, sarebbero ricorsi anche ai mezzi più infimi pur di ottenere la vittoria.

«Merlin in qualche modo deve aver collaborato. Anche solo consentendo a Uther di mettere in pratica qualcosa di tanto meschino.» considerò ancora Igraine, a bassa voce. «Lo dimostra il fatto che ti ha preso in custodia appena sei nata, e ti ha educata per diventare re e per estrarre quella spada.» considerò. «Per lui devi essere il modo di riparare agli errori che ha fatto in passato con Uther.»

Arthuria chiuse gli occhi, mortificata. Ora tutto quadrava: l’ossessivo studio dei re del passato e dei loro errori; i valori della giustizia e della rettitudine e della cavalleria infilati in testa anche prima che lei iniziasse a camminare; l’aver passato le giornate della sua infanzia con Merlin, che le insegnava che ad azione corrisponde reazione, secondo la regola dello scambio equivalente valida per tutti i maghi – e, più ampiamente, secondo una legge valida per l’intero mondo.

«Sei completamente diversa da lui.» disse ancora Igraine, a bassa voce.

Arthuria spalancò gli occhi, esterrefatta da quella frase; e poi, alzò la testa.

Igraine la stava guardando, attentamente – quasi come se la vedesse per la prima volta solo in quel momento.

«Anche… in aspetto fisico.» disse ancora sua madre, inclinando di poco la testa. «Non sembri nemmeno sua figlia. Se non fosse per i vostri occhi, che sono dello stesso colore… non si direbbe nemmeno che voi siate parenti.»

Arthuria boccheggiò per qualche istante, allibita da quelle osservazioni.

Conosceva poco suo padre: tutto quello che ricordava di lui era il prodotto di un’immagine sbiadita di quando era molto piccola, che vedeva una barba scura incolta e il luccichio di una corona d’oro in testa, e dei ritratti di lui – giusto un paio – presenti in quel castello, cui lei non aveva mai fatto troppo caso. Aveva sempre preferito guadagnarsi la stima di una madre presente, piuttosto che di un padre assente; tanto più che né Merlin, né Morgan, avevano mai avuto una buona opinione di lui. Se odiandolo avrebbe ottenuto l’approvazione di sua madre, aveva pensato più di una volta, allora l’avrebbe odiato; era anche ben predisposta da come era stata informata su di lui nel corso degli anni.

Non si era mai soffermata a fare confronti fisici con lui. Si era sempre ritenuta diversa da lui.

Ma se era lei, a dirglielo… allora cambiava tutto.

«Tutto ciò mi fa pensare che di speranze ce ne siano ancora.» commentò Igraine, stringendosi di più nello scialle, e tornando a guardare Caliburn. «Che se estrarrai veramente quella spada, allora forse sarà… davvero un bene per tutti.» aggiunse.

Arthuria sentì un battito cardiaco mancarle, solo per ottenere l’effetto di sentirlo, subito dopo, rimbombare contro la parete toracica, talmente forte da farle male. Talmente forte che sembrava voler uscire, e farla esplodere.

Sua madre credeva in lei.

Sua madre confidava che lei sarebbe stata un re giusto, e capace.

Sebbene il tutto fosse condito da un “forse”, poco importava: sua madre ci credeva.

Dopo quindici anni di silenzio, quelle erano le sue parole.

Dopo quindici anni passati, forse, a osservarla sempre, a verificare che lei crescesse con dei valori cavallereschi e che intraprendesse una strada diversa da quella di suo padre. Altrimenti, se così non fosse stato, non sarebbe mai arrivata a fare quell’osservazione.

«C’è una cosa che devi capire, però.» disse ancora Igraine, sporgendosi oltre il parapetto, e guardando giù, alla folla di persone radunate intorno al combattimento di Guinevere contro un giovane contadino. «Una volta che avrai estratto quella spada, se la estrarrai,» spiegò. «tutta questa gente… e probabilmente mille volte tanto… saranno in tuo potere.» disse. «Avrai diritto di vita o di morte, su tutti quanti loro. Nessuno escluso.» proseguì. «E anche non direttamente. Dipenderà tutto da come governi il regno. Dipenderà tutto da come ti guadagnerai il loro rispetto. Da come saprai guidarli. E questa che vedi è solo un infinitesima parte della popolazione che abita il nostro regno a tutt’oggi.» aggiunse. «Tu avrai… una responsabilità enorme, nei loro confronti.» concluse, guardandola di nuovo. «Dipenderà tutto da te.»

Arthuria sobbalzò, intendendo dove il discorso andasse a parare, e osservando gli occhi scuri di sua madre che la scrutavano, in attesa di una risposta – non per forza verbale.

Merlin le aveva fatto mille e più volte quel discorso sulla responsabilità; sul governare con rettitudine, e in maniera giusta, imparando gli errori dei re del passato e non ripetendoli.

Eppure, non l’aveva mai messa davanti ai fatti.

Si voltò a guardare in basso, alla piccola folla radunata intorno al combattimento.

Eccola lì, la realtà dei fatti.

Quante persone c’erano, in quel regno che Uther aveva costruito?

Di quante vite sarebbe stata responsabile, una volta estratta quella spada, se l’avesse estratta?

Un solo errore sarebbe costato la vita di quante persone?

Di quante opinioni, di quanti punti di vista, di quante preferenze, di quante religioni, di quante situazioni sociali e famigliari avrebbe dovuto tenere conto, prima di prendere una singola decisione? Quante avrebbe dovuto ponderarne, prima di creare una legge?

Spalancò gli occhi, trattenendo per un secondo il respiro davanti all’immagine di quella piccola folla.

Dovevano essere una cinquantina al massimo; eppure, erano già tante vite, e tante situazioni, tanti pensieri, di cui tenere conto.

Come avevano fatto suo padre e sua madre a controllarli e a prendere le decisioni giuste?

Come avevano fatto a capire che strada prendere?

E lei… lei era veramente pronta a prendere in mano quella spada?

«Scegliere la decisione giusta da prendere non è mai facile.» disse ancora Igraine, riscuotendo la sua attenzione. «Ma confido che tu saprai come fare. Sei stata istruita per questo per tutta la tua vita, in fondo.» considerò, alzando il mento e guardandola, con occhi decisi.

Arthuria strinse i mattoni della torre, sorpresa per quella frase, come per tutto il resto del discorso.

Sua madre aveva fiducia in lei. E stava riconoscendo quello per cui era stata educata da sempre.

Trattenne il fiato per qualche attimo, senza sapere cosa rispondere; poi, non riuscendo a trovare le parole – la testa era ancora troppo in preda all’euforia, per articolare un discorso ragionevole da farle – annuì, sentendo un sorriso entusiasta stirarle le labbra, in risposta alle parole dette da Igraine.

La sua mente era un continuo ripetere la litania “mia madre ha fiducia in me”.

Sua madre stava riconoscendo i suoi meriti e le sue capacità, in quel momento. Ed era venuta a parlarle, per quello.

«Meglio che vada, ora.» considerò Igraine, chinando la testa e stringendosi meglio nello scialle. «Qui fa parecchio freddo. Non vorrei prendermi un malanno.» disse. Poi, alzò la testa verso di lei, e la guardò ancora per qualche secondo.

«Non sprecare il tuo tempo a cercarmi, Arthuria.» disse. Arthuria sobbalzò, sia per la frase, sia per la realizzazione che sua madre la stesse chiamando per nome per la prima volta.

Era un modo quasi dolce, di chiamarla; un po’ stiracchiato, forse per la poca abitudine, ma tutto sommato dolce.

«Tu hai i tuoi allenamenti da portare a termine. La storia e la disciplina da studiare. E mi hanno altresì informato che stai anche cercando di imparare la magia.» disse. Arthuria annuì, entusiasta che si fosse ricordata di tutto. «Occupati di quello. Occupati di migliorare il più possibile e di diventare degna di quella spada e del tuo regno. Io d’altronde sarò molto impegnata coi preparativi per il ritorno di Uther, e col governare queste persone all’interno del nostro castello. Non avrò tempo da dedicarti.»

Arthuria annuì, capendo quello che Igraine voleva dire.

Forse non era ancora del tutto pronta a voler instaurare un rapporto di madre e figlia con lei. Ma forse quello avrebbe potuto essere un primo passo per averlo.

In ogni caso, se voleva ottenerlo, avrebbe dovuto aspettare i suoi tempi, e nel frattempo obbedirle. A malincuore, ma l’avrebbe fatto.

Sorrise. «Mi bastano queste vostre parole.» disse. «Madre.» aggiunse, con un tono di voce più basso.

Igraine chiuse gli occhi per un attimo; poi, si voltò, e con un inchino della testa si accomiatò da lei, avviandosi all’interno del castello.

Arthuria la osservò mentre si allontanava.

Poi, tornò a voltarsi verso la collina di Caliburn.

Ora più che mai, quella spada le sembrava raggiungibile, tanto da essere un desiderio, più che un dovere.

 

 

«Ti ho vista un po’ distratta, durante il combattimento con quel contadinotto.»

Guinevere sollevò lo sguardo dalla propria spada di legno, senza interrompere il processo di rafforzamento e ricostruzione che stava effettuando su di essa tramite la magia della natura. Spostò un ciuffo di capelli che le cadeva davanti agli occhi, per osservare Lancelot che si stava facendo strada nelle scuderie, in cui lei amava rifugiarsi.

Lancelot in quegli anni era cambiato, dal ragazzino quindicenne scapestrato e un po’ magrolino che era; era diventato prestante, alto, responsabile e, col tempo, sempre più acuto nelle proprie osservazioni.

Sarebbe stato un partito perfetto – e in effetti diverse ragazze del villaggio non avevano nascosto la propria ammirazione nei suoi confronti.

Peccato che il suo unico interesse, Lady Morgana, non la pensasse come le altre.

Erano anni, ormai, che Lancelot moriva dietro alla sorella di Arthuria, senza essere minimamente ricambiato: Morgana si limitava ad apprezzarlo come guerriero e a ringraziarlo per essere un ottimo maestro per Arthuria. Ma non aveva mai dato adito a pensare di volergli chiedere qualcosa di più.

Un po’ le spiaceva per Lancelot; ma considerando il rapporto di pura freddezza che si era instaurato negli anni tra lei e Morgana, e considerando che aveva con Lancelot un rapporto praticamente fraterno, era contenta che la cosa non si fosse evoluta troppo. Non si fidava di Morgana, e Morgana non era mai sembrata intenzionata a darle dimostrazione del contrario; tutt’altro, aveva mostrato apertamente la propria ostilità nei suoi confronti, senza un particolare motivo – e quelle settimane di assedio avevano portato la situazione a un punto di non ritorno.

Scosse la testa, sorridendo, e riprendendo a guardare la propria spada di legno.

«Quel ragazzo mi muore dietro da qualche settimana. Non volevo fargli troppo male, né ferire troppo il suo orgoglio.» rispose, alzando le spalle.

Sentì i passi di Lancelot avvicinarsi a lei; vide la sua ombra sovrastarla, e le sue mani appoggiate sui fianchi.

«Non sei capace di mentire, Guinevere.» disse lui, tranquillamente.

Guinevere si strinse nelle spalle.

«Diciamo che è una mezza verità.» replicò, mettendo da parte la spada di legno, e prendendo tra le mani quella di ferro che portava sempre con sé, infilata nel fodero di pelle. Accarezzò per un attimo la lama fredda, contemplando i riflessi di luce sul metallo chiaro; poi, sospirò, e prese uno straccio, per pulirla. «Quel ragazzo effettivamente mi sta parecchio appiccicato. Un paio di volte mi ha anche chiesto di andare a fare una passeggiata con lui. Da soli.» precisò, inarcando un sopracciglio. «Dato che chiunque vede che io e te siamo solo compagni di allenamento, ogni tanto mi capitano anche queste cose.» spiegò, facendo spallucce.

«E cos’avresti fatto?» domandò Lancelot, con un tono che lasciava trapelare il suo divertimento per la cosa.

Guinevere scosse la testa. «Gli ho detto di no.» disse, sorridendo.

«Quanto fegato, Lady Guinevere.» scherzò Lancelot. «Quindi è per quello, che lo vedo sempre a chiederti di allenarti con lui?» domandò poi, un poco più serio.

«Credo che stia cercando di conquistare il mio cuore a suon di combattimenti. E di batoste, visto che non è capace.» commentò Guinevere.

«Sta cercando di aprire una breccia.» disse lui, allungando un dito verso di lei, e colpendola lievemente nello spazio in mezzo alle clavicole, per poi spingerla delicatamente contro il muro e farle alzare lo sguardo. «In modo da essere sicuro di colpirti direttamente nel punto giusto.» aggiunse, con un sorriso sarcastico, e un sopracciglio inarcato.

Guinevere scoppiò a ridere, e scosse la testa.

«Se mira al cuore come miri tu, mi sa che fallirà.» considerò.

Lancelot sbuffò, fintamente scocciato, e tolse il dito da lei, condendo la fine del movimento con un sorriso.

«Lady Guinevere, io sono un galantuomo.» disse. «Mi limito a toccarvi in zone consentite, e a non andare troppo oltre.»

Guinevere ridacchiò, e scosse la testa, tornando a guardare la spada.

«Devo fingere di essere il tuo promesso sposo?» domandò poi Lancelot.

Guinevere sobbalzò, e alzò lo sguardo verso di lui, sconcertata. «Lancelot…!» lo richiamò. «Che diavolo ti salta in mente?»

«Solo per evitare queste situazioni.» replicò lui, stringendosi nelle spalle. «Sarebbe più plausibile che io e te stiamo insieme, piuttosto che tu stia insieme a un villico che…»

«Lancelot, piantala con queste idiozie. E io che pensavo fossi diventato un po’ più ragionevole.» lo interruppe lei. «Sarebbe controproducente. Per te, visto che se fingessi di stare con me non potresti correre dietro a Lady Morgana, e per Arthuria.»

Lancelot rimase per un secondo a fissarla negli occhi; non sembrava per nulla sorpreso da quella costatazione.

Poi, Guinevere lo osservò crollare a terra, e sedersi davanti a lei a gambe incrociate.

Non obiettò a quella posa, né si premurò di fargli presente che sulla panca su cui era seduta lei c’era un altro posto: sapeva che Lancelot preferiva parlare faccia a faccia, quando si trattava di discorsi seri.

E quello era chiaramente un discorso serio. O almeno lo era diventato.

«E per te non sarebbe controproducente?» domandò Lancelot.

«Per me?» replicò Guinevere, inarcando un sopracciglio, perplessa. «Perché dovrebbe esserlo?»

«Che ne so. Magari Arthuria in realtà prova veramente qualcosa per te, solo che ha paura di dimostrartelo.» rispose lui.

Guinevere sentì il cuore perdere un battito, a quella considerazione; abbassò lo sguardo, tornando a pulire la lama della spada.

«Arthuria non prova niente di più dell’amicizia, per me.» ribatté.

«Perché devi dire così?»

«Perché è ciò che le è stato insegnato, Lancelot.» controbatté prontamente lei, dando un colpo di straccio più violento. «La religione in cui crede non ammette relazioni tra persone dello stesso sesso. Non ne ammette nemmeno i sentimenti. Non può provarne per me.»

«Sentimenti e insegnamenti sono due cose ben diverse, Guinevere.» replicò lui.

«Non quando ti insegnano che l’amore tra due persone dello stesso sesso è qualcosa di abominevole che andrebbe cancellato, Lancelot.» ribatté lei. «Ed è questo, quello che le è stato insegnato. Come pensi che possa provare qualcosa per me?»

«Perché quando si arriva ad amare una persona si arriva a fare anche pazzie, anche contro gli insegnamenti che sono stati dati.» rispose lui, appoggiandole una mano sulla sua, e fermandola dalla pulizia della lama della spada – ormai perfettamente lucida. «E tu sulle pazzie ne sai qualcosa.»

Guinevere sospirò, e sollevò lo sguardo verso di lui, contrariata.

«Ammettiamo anche che provi effettivamente qualcosa per me, Lancelot.» commentò, allargando le braccia, esasperata. «Non lo ammetterebbe mai, in virtù degli insegnamenti che le sono stati impartiti. E se non in virtù di quelli, in virtù del fatto che ancora crede che io e te prima o poi avremo una relazione, se non crede che ce l’abbiamo già.» disse. «Lo sai che è onesta. Non vorrebbe mai mettersi in mezzo a noi due, se così fosse. Solo che se fingessimo di stare effettivamente insieme, come tu hai proposto, non faremmo altro che metterla in difficoltà. E non ho intenzione di farlo, sia per correttezza nei suoi confronti, nei tuoi e anche nei miei, e sia perché non voglio mandare a monte tutto il lavoro che io, te e lei abbiamo fatto in questi anni, per un semplice ragazzo che mi corteggia.» spiegò, riprendendo il fodero e affondandovi la spada, per poi mettere da parte lo straccio. «E poi, si può sapere perché questo discorso salta fuori proprio ora?» aggiunse. «Avevamo chiarito già tre anni fa le mie posizioni al riguardo. Sai bene che non proverei mai a confessarle quello che provo, e sai che è la motivazione per cui sono qui ad allenarmi con voi due. Perciò, perché

Lancelot sospirò, ma non abbassò lo sguardo.

«Ti ho semplicemente detto quello che penso potrebbe essere.»

«Tre anni fa non la pensavi così.» replicò lei. «Tre anni fa la prima cosa che mi hai detto è stata che era pericoloso, che dovevo fare attenzione a non farmi scoprire, e che dovevo tenermi tutto dentro, perché altrimenti sarebbe stato peggio che morire ammazzata in guerra. Non sono state forse le tue parole?» ribatté lei, stizzita. «Cosa ti ha fatto cambiare idea, adesso?»

«Il vederti tutti i giorni.» replicò lui. «Il venire a svegliarti la mattina e vedere che ogni tanto hai gli occhi gonfi. Il passare di fianco alla tua camera, la notte, e sentirti piangere.» disse. Guinevere sobbalzò, sbalordita, sia dalla costatazione, sia dallo sguardo triste con cui Lancelot aveva accompagnato quell’affermazione. Lo vide esitare per un secondo, forse per trovare altre parole da dire; poi, lui parlò di nuovo. «Il vedere che ti distrai da un duello con un contadino che non sa combattere perché prima di iniziare hai visto Arthuria sulla torre sulla quale va sempre a guardare Caliburn.»

Guinevere lo fissò negli occhi, allibita.

Lancelot, come al solito, mostrava quella capacità di capire gli altri – o almeno, di capire lei – con una facilità estrema; e la metteva davanti ai fatti più di quanto i pianti, il risvegliarsi con gli occhi gonfi, e la consapevolezza dei propri sentimenti, fossero in grado di fare.

Guinevere adorava questa sua capacità, a volte, perché lui sembrava conoscerla anche meglio di sé stessa, e talvolta la metteva davanti ad aspetti positivi di sé di cui lei non si era mai resa conto; ma erano altrettanti i momenti in cui invece odiava quella sua empatia, perché le sbatteva davanti il dolore con i toni diretti di chi non adottava mai mezze misure nel parlare – e perché, mostrandole apertamente tutto quello, Lancelot mostrava chiaramente anche la propria tristezza, e il proprio rammarico per non riuscire a fare nulla per lei.

Trasse un profondo respiro, guardandolo, e poi appoggiando la testa contro il muro.

«Non ci posso fare niente.» commentò, chiudendo gli occhi. «Non credo che tu possa capire tutto… l’odio che a volte provo per essere nata in un corpo come questo. E il dover realizzare che il tagliarmi i capelli, o il nascondere il seno, o allenarmi e vestirmi come un uomo non cambierà quello che sono.» disse.

Lancelot sbuffò lievemente per un attimo; poi, Guinevere lo sentì ridacchiare, piano.

«Sì, me lo ricordo quel tuo colpo di testa nel tagliarti i capelli corti.» commentò. Guinevere sorrise lievemente, ricordando il momento in cui aveva preso un coltello e aveva tagliato i capelli a livello delle spalle, lasciando cadere a terra una chioma che, fino a un attimo prima, le arrivava quasi alla fine della schiena. Era una cosa successa tre anni prima, poco dopo l’inizio degli allenamenti; se l’era cavata con la scusa che i capelli lunghi la infastidissero durante i combattimenti.

«Ti ho sempre detto che potevi venire da me, se volevi piangere.» disse poi Lancelot.

«Di certo non pensavo di non svegliarti, visto che quando è successo era quasi sempre notte fonda.» replicò lei.

«Quasi sempre?»

Guinevere sospirò. «Una volta mi è successo sulla collina di Caliburn, prima che arrivaste voi due. Appena vi ho sentiti mi sono asciugata tutto e mi sono ricomposta.» confessò. «Qualche altra volta mentre ero da sola in casa. Nemmeno mia madre lo sa. E poi, altre volte, dopo gli allenamenti.» spiegò. «Erano tutte occasioni in cui tu non ci potevi materialmente essere, a darmi una mano. Non fartene una colpa.»

Lo sentì sospirare pesantemente.

«Comunque oggi non ero deconcentrata per averla vista.» proseguì, socchiudendo gli occhi, e soffermandosi a guardare il soffitto. «O almeno, non per aver visto solo lei

«In che senso?» domandò lui, perplesso.

Guinevere sbuffò, e tolse la testa dall’appoggio del muro, per poi abbassare lo sguardo su Lancelot. «Non l’hai vista nemmeno tu, dunque. Credo di essere stata l’unica a vederla.» considerò. «C’era Lady Igraine, con Arthuria, oggi, su quella torre. E le stava addirittura parlando.»

Lo vide sgranare gli occhi per lo stupore.

«Lady Igraine?!» esclamò lui. «Ma…!»

«Lo so. Sembra assurdo, ma è così.» disse lei. «Ed è una cosa che mi ha sorpreso. Per quello ero deconcentrata. Stavo pensando agli effetti che avrebbe avuto su Arthuria, e sulla sua autostima. Certo, tutto dipende da cosa effettivamente le abbia detto Lady Igraine, ma… a giudicare dall’espressione di Arthuria dopo il discorso, dev’essere stato qualcosa di parecchio bello.»

Vide Lancelot esprimersi in un sorriso sinceramente entusiasta; e sorrise a propria volta, al pensiero che lui non fosse contrariato perché Arthuria, ormai, aveva presumibilmente tutti i mezzi per estrarre Caliburn come li aveva lui.

L’avrebbe affrontata lealmente davanti a quella spada, con il legame tipico degli amici rivali.

«Significa che Arthuria potrà imparare ad usare la magia, ora.» considerò lui. «E’ perfetto. Capita proprio nel momento giusto.»

«Eh già.» commentò Guinevere, stringendosi nelle spalle, e alzando lo sguardo quasi distrattamente. «Proprio nel momento giusto.» aggiunse, assottigliando gli occhi per esaminare un uccellino che si puliva le ali, appollaiato sul davanzale di una piccola finestrella sopra una delle stalle. «Significa anche che potrebbe avere tutto il necessario per estrarre Caliburn, ora. Almeno nelle basi.» considerò poi, voltandosi verso Lancelot, alzandosi e prendendo il fodero con la propria spada. Lui trasalì per un istante, ma poi inarcò un sopracciglio col suo solito fare ironico.

«Meglio così. Avrò una degna avversaria.» commentò. «Sennò sai che noia. Quanti cavalieri che si presenteranno davanti a quella spada avranno la reale possibilità di estrarla?»

Guinevere fece spallucce, e poi sorrise. «Mi fa piacere che tu la prenda così.» considerò. «Chiunque altro sarebbe stato arrabbiato, al sapere che qualcuno ha le sue stesse possibilità di estrarre Caliburn.»

«Quella si chiama vigliaccheria.» replicò lui, dimostrando nell’espressione la propria sicurezza di sé. «Non è qualcosa che mi è stato insegnato.»

Guinevere annuì. «Giusto, giusto.» commentò, per poi avviarsi verso l’uscita delle scuderie. «Scusami se ti lascio qui così, Lancelot, ma mi sono appena ricordata di dover incontrare la tua amata.»

Lo sentì, dietro di lei, alzarsi di scatto e seguirla a passi ampi e rapidi.

«Lady Morgana?» domandò lui.

«A meno che tu non abbia proclamato il tuo amore a qualche altra donna nell’ultima mezz’ora, sì.» replicò Guinevere, con un sorriso sarcastico, voltando la testa verso di lui e incrociando i suoi occhi, che esprimevano una chiara perplessità. «Mi ha chiesto di incontrarci dopo gli allenamenti. Non domandarmi il motivo, non lo so nemmeno io.» lo anticipò, intuendo dal fatto che stava aprendo bocca che stesse per farle quella domanda. «Non è granché loquace, specie se si tratta di dare ordini a me.» considerò, tornando a guardare avanti a sé. «Ma se mi ha chiesto di andare da lei, sono sicura che una buona ragione ci sia.» disse, facendo una smorfia con la bocca, mentre metteva piede fuori dalle stalle.

«Da che ricordi, non ti ha mai voluto parlare troppo.» commentò lui. «Come mai proprio ora?» domandò, più a se stesso che a lei.

Guinevere scrollò le spalle con fare noncurante. «Non ne ho idea.» rispose. «Te lo saprò dire quando tornerò. Se tornerò viva.» aggiunse, con un sorriso sarcastico.

Lancelot le dette una leggera spinta alla spalla, e si espresse in una mezza risata. «Smettila, scema.» disse. «Non credo arriverebbe a tanto.»

«Ah, mah. Chi lo può sapere.» commentò Guinevere.

«Sai dove trovarla?» domandò Lancelot, ancora.

Guinevere esitò, voltandosi indietro a dare un’occhiata verso il castello, e incontrando con lo sguardo l’uccellino che prima era appollaiato nelle scuderie. Riuscì a intravedere il suo piumaggio chiaro, mentre lui svolazzava verso il castello, diretto a una stanza a un paio di piani più sopra di dove si trovavano loro.

Sapeva che in quell’ala del castello, a quel piano, c’erano due o tre stanze riservate esclusivamente a Morgana.

Assottigliò gli occhi per un attimo, per poi voltarsi di nuovo verso Lancelot.

«In una delle sue stanze.» replicò. «Ha detto di guardare in tutte, dato che non sa esattamente in quale sarà quando arriverò.»

«In una delle sue stanze?» chiese Lancelot. Aveva un tono e un’espressione visibilmente sorpresi.

Guinevere inarcò un sopracciglio, in una muta richiesta di spiegazione.

«Stavo pensando che…» considerò lui, volgendo lo sguardo verso le finestre delle stanze interessate. Guinevere lo seguì, curandosi che non intravedesse l’uccellino – non sapeva se Lancelot l’avesse visto anche nelle scuderie, e sarebbe stato in grado di collegare il tutto; ma fortunatamente, quello era sparito, probabilmente già arrivato da Morgana. «…Lady Morgana ha… ventitré anni, giusto?» domandò ancora lui, attirando di nuovo la sua attenzione. Guinevere si voltò verso di lui, e annuì. «E non è ancora sposata.» aggiunse lui, facendo una smorfia.

Guinevere ci mise qualche istante, a capire dove volesse andare a parare Lancelot. Poi, scoppiò a ridere, e scosse la testa.

«Per carità, Lancelot!» disse, dandogli una piccola pacca sulle spalle. «Non starai veramente pensando che Lady Morgana abbia delle mire…». Intravide delle persone che si stavano avvicinando a loro, e abbassò drasticamente il tono di voce. «…su di me?» concluse.

«Eppure tutto quadrerebbe!» sibilò lui di rimando. «Non è sposata pur avendo ventitré anni, ti chiama nelle sue stanze, e per di più è una maga! Questo spiegherebbe anche perché non ha mai prestato attenzione ai miei corteggiamenti.»

Guinevere sollevò gli occhi al cielo, e sospirò: Lancelot non aveva mai digerito quell’ignorare le sue avance da parte di Morgana. Era abbastanza ovvio che cercasse una scusa plausibile, ora; solo, non si sarebbe mai aspettata che concludesse tutto quello con così tanta tranquillità, e persino così tanta prontezza.

Il problema era che lei sapeva che non si trattava di quello; ma cos’avrebbe potuto dire a Lancelot, senza sminuire il suo orgoglio? Non bastava un “non ti merita” – non era mai bastato, in effetti; non era sufficiente a ripagare le delusioni che Lancelot aveva accumulato in quei tre anni, e il colpo violento che tutto quel corteggiamento non contraccambiato aveva dato al suo orgoglio maschile.

«Ti saprò dire quando uscirò da lì.» disse, mettendogli una mano sulla spalla. «Anche se non penso che sia davvero così. Io non le sto simpatica, me l’ha sempre dimostrato. E anzi, sinceramente non ho mai capito cosa ci trovi in lei.»

«Cosa c’è da capire?» replicò lui, allargando le braccia, con fare ovvio.

«E’ solo una questione di aspetto fisico?» replicò lei, aggrottando le sopracciglia, sorpresa dalla superficialità di Lancelot. «Le stai morendo dietro da tre anni solo per una questione estetica?»

«Non è solo quello!» ribatté lui, stringendosi nelle spalle. Al vedere l’espressione di Guinevere, che lo invitava a proseguire, lui sbuffò, e alzò gli occhi al cielo per un istante. «E’ affascinante.» spiegò. «E ha qualcosa di misterioso. Qualcosa di triste, nell’espressione. Vorrei capire cos’è.»

Guinevere lo fissò per qualche attimo, sorpresa da quelle costatazioni; era sempre stata troppo impegnata a guardarsi dagli occhi e dall’espressione fredda che Morgana le rivolgeva, per accorgersi di quella vena triste di cui Lancelot parlava. Come al solito, lui sembrava rendersi conto, con un solo sguardo, di qualcosa in più, rispetto alle persone normali.

Si voltò per un attimo verso le stanze due piani più su, dove presumibilmente si trovava Morgana. Poi, tornò a guardare Lancelot, e gli sorrise, appoggiandogli una mano sulla spalla, pronta a dirgli qualcosa per tirarlo su di morale a proposito di quell’amore che sembrava non corrisposto. Ma non riuscì a trovare nulla.

«Vado.» disse, battendo lievemente un colpetto sulla sua spalla, e poi facendo per voltarsi e andarsene. «Dopo ti racconto quello che sono riuscita a scoprire.»

«Ci vediamo a casa, allora?» domandò lui.

Guinevere si voltò per un attimo, e annuì, sorridendo; lei, Lancelot e Cassandra vivevano nella stessa abitazione all’interno delle mura. Cassandra sembrava non essersi fatta problemi ad ospitare un uomo al piano superiore a quello dove vivevano loro due – e se quello, all’inizio, era stato un fatto che aveva attirato pettegolezzi a non finire, erano bastato poco tempo e l’evidenza che né Cassandra, che si dedicava alle erbe e sembrava frequentare più Merlin che chiunque altro, né lei, che più che allenarsi con Lancelot non sembrava fare, per smorzare il tutto e far finire anche quella presunta storia nel dimenticatoio.

Guinevere si voltò di nuovo, accelerando il passo; infilò la spada nella cintura, e si diresse verso il portone dell’ala est del castello, in cui si trovavano le stanze di Morgana.

Prima di entrare, visualizzò per bene il punto in cui doveva andare, dato che non vi era mai stata; e alzando la testa, lo sguardo le capitò sulla torre su cui Arthuria andava sempre a contemplare Caliburn.

Era ancora lì. Da quello che aveva potuto vedere Guinevere, non si era mossa per l’intera giornata; e ormai era l’ora del tramonto.

Fissò per qualche secondo la sua minuscola figura, rannicchiata sulla torre, aggrappata ai mattoni, e intenta a osservare, in quel momento, la collina di Caliburn.

Aveva intravisto diverse volte la sua testa abbassarsi e guardare verso la cittadella che, con l’assedio, era andata costruendosi all’interno delle mura del castello; era una cosa che generalmente non capitava. Quando andava lassù, Arthuria guardava solo Caliburn – andava apposta su quella torre, perché la visuale della collina da lì era perfetta. Quel giorno, invece, sembrava aver quasi lasciato in disparte Caliburn, e aver preferito abbassare gli occhi a guardare dell’altro.

Guinevere dubitava che lo sguardo di Arthuria cercasse lei, anche se le sarebbe piaciuto pensarlo; ma in tutta la giornata, non aveva capito cosa stesse guardando Arthuria esattamente.

Qualunque cosa fosse, o chiunque fosse, aveva attirato abbastanza la sua attenzione da distoglierla dalla contemplazione di quella che per lei era diventata una ragione di vita.

Guinevere sentì un moto di gelosia, e un nodo allo stomaco; poi scosse la testa, e sospirò, ribadendosi che Arthuria aveva tutto il diritto di guardare chi e cosa lei preferisse, senza che lei dovesse provare invidia verso quel qualcuno o quel qualcosa.

Ma preferì non tornare a guardarla, giusto per non sentire quelle sensazioni dentro di sé.

Abbassò gli occhi, ed entrò nel castello, seguendo il percorso che l’uccellino, un palese famiglio di Morgana, le aveva sommariamente indicato dirigendosi verso le stanze due piani più su.

Sospirò, al pensiero di aver mentito a Lancelot; sua madre le aveva sempre detto che mentire non era un bene a meno che non fosse a fin di bene – e in quel caso, effettivamente, lo era sicuramente –, ma dire falsità a quello che era il suo migliore amico le faceva montare dentro un senso di colpa che non riusciva a controllare, e con cui non riusciva a giustificarsi.

Morgana non l’aveva invitata nelle sue stanze, o almeno non l’aveva fatto esplicitamente; era stata un’intenzione di Guinevere, quella di andare a parlare con lei. E per un attimo aveva avuto un moto di panico, quando aveva sentito le ali di quell’uccellino frullare sopra lei e Lancelot, nelle scuderie; le era chiaro già da tempo che Morgana la tenesse sotto controllo anche tramite i suoi famigli – era sicura che oltre all’uccellino di quel giorno ce ne fossero almeno un altro paio; e forse c’erano anche altri animali –, ma in quel momento era stata talmente concentrata sul discorso con Lancelot, che non aveva pensato all’eventualità che Morgan potesse sentirla e usare quelle informazioni contro di lei. Aveva sempre ritenuto le scuderie un posto sufficientemente sicuro, dal momento in cui aveva notato che Morgana e i cavalli non andavano d’accordo – un evento cui le era capitato di assistere poco dopo l’inizio dell’assedio –; ma aveva sempre e comunque controllato che i suoi famigli non fossero nei paraggi.

Quel giorno, invece, era stata talmente assorbita da quello di cui doveva parlare con lei, che non aveva pensato a guardarsi le spalle.

Era stata una fortuna che quell’uccellino fosse arrivato in un momento in cui aveva potuto troncare il discorso senza destare troppi sospetti in Lancelot; se lui avesse saputo che i famigli di Morgana la tenevano sotto controllo, non sarebbe stato tranquillo per lei. E lei voleva evitare che succedesse.

Inspirò a fondo e nel farlo chiuse gli occhi, quando arrivò al punto del corridoio nel quale c’era la prima stanza di Morgana. Accostò la mano al sacchettino con le erbe che sua madre le aveva preparato su sua richiesta, subito dopo l’allenamento.

Quando riaprì gli occhi, non si stupì di vedere Morgana affacciata sulla soglia della porta aperta: aveva sentito i suoi passi sul pavimento, e lo scatto della porta che si apriva. Morgana tra l’altro aveva evitato di contenere il rumore che aveva fatto, a quanto pareva.

L’istinto fu quello di chiedersi se Morgana l’avesse sentita in base più agli odori che derivavano da lei, o al rumore che aveva fatto arrivando lì; ma quando vide il suo sguardo stanco abbassarsi, e andare a fissare senza alcuna esitazione il sacchetto di erbe che le aveva portato, capì che era l’olfatto, il senso che aveva sviluppato di più.

Sciolse il nodo con cui il sacchetto di iuta era legato alla sua cintura, e glielo allungò con un sorriso – anche se entrambe sapevano che si trattava solo di un’espressione di circostanza.

«Ho pensato che avreste potuto gradirle, dopo lo sforzo di stamani.» commentò.

Morgana spostò lo sguardo dal sacchetto a lei; Guinevere intuì che l’intenzione era di inchiodarla sul posto con il solo sguardo, e di farle capire di rimanere ferma dov’era; ma vista la stanchezza che traspariva non solo dagli occhi, ma anche dal resto del corpo, appoggiato in maniera forzatamente dignitosa alla porta, Morgana non riuscì nei propri intenti. E dovette capirlo dall’espressione per niente turbata che Guinevere assunse, mentre teneva il sacchettino a mezz’aria, sul palmo della mano, allungato verso di lei.

«Sono sicura che sappiate prepararvi un infuso di erbe.» disse ancora. «Ma lasciate che ve lo faccia io. Immagino che sarete stanca.»

Morgana assottigliò gli occhi, e si espresse in un sorriso sarcastico con un fondo malvagio.

«Chi mi assicura che tu non voglia avvelenarmi, con quelle erbe?» domandò.

Guinevere incassò il colpo, e sospirò.

«Non mi avete mai dato un motivo sufficientemente valido per farlo, malgrado la vostra palese ostilità nei miei confronti.» rispose. «Sentimento di cui, sinceramente, non ho mai compreso l’origine; ma siete libera di provarne per me. Io invece vorrei solo mostrarvi la mia gratitudine per quello che avete fatto stamattina, Lady Morgana.» disse, sinceramente.

Morgana non sembrò particolarmente sorpresa da quelle considerazioni; Guinevere la vide semplicemente sostenere il suo sguardo per diversi istanti, come a cercare di sondare le sue vere intenzioni. Di sicuro non era dotata della stessa empatia di Lancelot.

«Di tutti, proprio tu dovevi vedermi. E sì che avevo curato di farlo in un momento in cui tu ti stessi allenando.» costatò alla fine, scostandosi dalla porta, in un chiaro segno di invito ad entrare. «Entra. Te lo lascio fare solo perché riconosco quelle erbe, e so che non ce n’è nessuna velenosa, né che insieme creano un effetto velenoso.» commentò.

Guinevere annuì, ed entrò con un sorriso parzialmente entusiasta nella sua stanza, superandola senza guardarla negli occhi.

Quando lo rialzò, si ritrovò davanti a una stanza di dimensioni più modeste di quanto si fosse immaginata; ma non per questo vuota.

Quello doveva essere il laboratorio in cui Morgana eseguiva le proprie ricerche; diversi maghi, specialmente quelli più abbienti, ne avevano uno. Guinevere aveva avuto occasione di vedere dal vivo anche quello di Merlin, qualche tempo prima: il suo si trovava ai piani più bassi del castello, ed era molto più ampio di quello in cui si trovava lei in quel momento.

Lì dentro erano presenti molti tipi di erbe, suddivisi per tipo in vasetti di ceramica o di argilla, ciascuno catalogato con il nome latino, e ognuno in un riquadro diverso dell’immenso erbario che c’era sulla parete a destra dell’entrata; sotto di esso, c’erano degli armadietti in legno scuro (mogano, probabilmente; lo stesso che era stato usato anche per l’erbario), in cui dovevano esserci i libri di magia su cui Morgana aveva studiato e studiava tuttora, e le pergamene su cui appuntava i risultati delle sue ricerche.

Procedendo sempre più verso sinistra, Guinevere vide una piccola finestra incassata nel muro e coperta da tende bianche, poco sopra l’erbario; non molto distante dalla finestra c’era un paiolo rinchiuso da tre lastre di pietra, due ai lati e una sopra, che si articolava in un camino che probabilmente trovava la propria uscita qualche piano più su. Sulla parete a sinistra della porta c’erano dei ripiani con altri libri; una scrivania con pergamene, calamai, inchiostro, erbe, scatole e altri libri ancora; nell’angolo più lontano da lei c’era una gabbia con tre uccellini; e nell’angolo a sinistra della porta, di poco distanziata dalla parete, c’era una poltrona di un rosso sbiadito – un colore strano, considerando che Morgana spesso tendeva ai colori cupi.

Guinevere sobbalzò lievemente, quando sentì qualcosa strusciarsi contro la propria gamba sinistra; guardando in basso, vide un gatto dal pelo bianco con sfumature grigie, piuttosto grosso, che le accarezzava il polpaccio con la coda.

Sorrise lievemente, voltandosi a cercare lo sguardo di Morgana; notando che però non sembrava opporsi al fatto che il suo gatto la trovasse simpatica, si chinò ad accarezzarlo tra le orecchie, mentre lei trafficava con uno degli armadietti sotto l’erbario.

«Ecco.» la sentì dire poi. Guinevere sollevò lo sguardo, vedendo che lei teneva un piccolo paiolo di rame in una mano, e una ciotola di ceramica nell’altra, e gliele porgeva. «Usa questi, se vuoi farmi quell’infuso di erbe.»

Guinevere si alzò in piedi, e prese i due oggetti tra le mani, annuendo e poi dirigendosi verso il focolare. Dietro di sé, sentì Morgana sedersi sulla poltrona, e il gatto avvicinarsi alla sua padrona con passo felpato.

«Quindi sei piuttosto abile nelle percezioni uditive.» commentò Morgana, mentre lei accendeva il fuoco e riempiva il paiolo più piccolo di acqua. «Non ti sei stupita minimamente, quando mi hai visto sulla porta.»

«Cosa vi fa pensare che non sia abile con l’olfatto o il tatto, invece?» domandò Guinevere, mettendo il paiolo sul fuoco.

«Intuizione. Se fossi stata abile con l’olfatto, la prima cosa che avresti fatto una volta entrata qui sarebbe stata rimanere per un attimo ferma sulla soglia della porta, e recepire gli odori delle piante, esattamente come fanno tutti quelli con una percezione olfattiva sviluppata, quando arrivano in un luogo sconosciuto.» replicò lei. «E per il tatto… il manico di quel paiolo è rovinato, ma tu non ci hai fatto minimamente caso. Sarebbe stata una reazione naturale, per qualcuno con un tatto sviluppato.»

Guinevere annuì, e iniziò a mettere le foglie sminuzzate delle erbe nella ciotola. Aspettò di vedere l’acqua bollire e prese un mestolo di legno dal lato sinistro del camino, su cui era appeso, per poi prendere con esso dell’acqua e versarla nella ciotola con le erbe pronte. Appena la riempì, un odore di erbe forti e rinfrescanti si sparse per l’angolo in cui si trovava lei – e non serviva un olfatto sviluppato, per percepire quel profumo.

«Siete un’attenta osservatrice.» commentò poi, voltandosi verso di lei e sorridendo. «I miei gesti mi hanno chiaramente tradito, ma voi siete stata in grado di coglierli.»

Morgana inarcò un sopracciglio, e sorrise lievemente. «E dunque, Guinevere…» disse, allungando una mano, e facendole cenno di portare la ciotola. «…hai sentito ciò che ho detto ad Arthuria stamani?» domandò, mentre Guinevere prendeva la ciotola ancora bollente tra le mani, e gliela portava con cautela.

«No, Lady Morgana. Non ho sentito nulla.» rispose Guinevere, ponendole la ciotola tra le mani. Morgana la accostò al proprio grembo, e Guinevere sollevò lo sguardo nel suo. «Non lo ritenevo corretto. In fondo, si trattava pur sempre del primo dialogo tra Arthuria e sua madre.»

Morgana sorrise con fare sarcastico, e sollevò di poco il mento. «Sei anche tu un’abile osservatrice, Guinevere.» commentò. «Credo che tu sia stata l’unica a vedermi lassù. E questo nonostante tu stessi combattendo, prima contro Lancelot del Lago, e poi contro il villico che, da quello che ho potuto sentire, ha un debole per te.»

Guinevere aggrottò le sopracciglia, perplessa sia dal complimento che Morgana le stava facendo, sia dall’espressione che aveva adottato per farglielo. A guardarla le sembrava solo ostile; di certo, non intenzionata ad adularla.

«Proprio per questo ho una perplessità.» proseguì Morgana. «Come sei stata in grado di riconoscermi, pur essendo io perfettamente trasformata in Lady Igraine, avendo indossato i suoi vestiti, e non avendo tu sentito le parole che ho detto ad Arthuria?»

Guinevere assottigliò gli occhi. L’espressione di Morgana da sarcastica era diventata seria; gli occhi, freddi e penetranti; il tono aveva una cadenza pericolosamente minacciosa e accusatoria.

«Mi è parso semplicemente strano che Lady Igraine, dopo quindici anni di silenzio, decidesse di parlare proprio ora ad Arthuria.» disse, sinceramente.

«Eppure era qualcosa di possibile.» commentò Morgana, sollevandosi in piedi, appoggiando la ciotola su un tavolino accanto alla poltrona, e avvicinandosi a lei con passo lento. Guinevere indietreggiò solo di poco, giusto per non scontrarsi con lei. «Lady Igraine avrebbe potuto ricredersi su quello che pensava a proposito di Arthuria, e avrebbe potuto decidere di parlare con lei.»

«Lady Igraine ha subìto una violenza da parte di re Uther, e da quella violenza è nata Arthuria.» replicò Guinevere, duramente, assottigliando gli occhi. Vide la sicurezza di Morgana vacillare per un attimo, e uno dei suoi occhi assottigliarsi, in una specie di reazione irritata. «Se non ha mai cambiato idea in quindici anni, non vedo perché la debba cambiare ora.» proseguì Guinevere, indietreggiando ancora di mezzo passo, preoccupata dall’espressione che il volto dell’altra aveva assunto. «Solo perché la gente parla bene delle capacità di Arthuria, non è detto che Lady Igraine si ricreda per quello. Anzi, forse penserebbe proprio che ha preso tutto da suo padre, e cercherebbe di allontanarla ancora di più da sé.»

Morgana sollevò il mento per guardarla dall’alto in basso – la superava di almeno cinque centimetri – e rimase in silenzio per qualche secondo; le sembrò che i suoi occhi verdi volessero trapassarla da parte a parte, da come la stavano fissando. Ma non si mosse, né abbassò la testa: se era una guerra, quella che Morgana voleva, era una guerra che avrebbe avuto.

«Come sai di Igraine e Uther?» domandò l’altra, infine, in tono innaturalmente tranquillo. Guinevere intuì che quella fosse una tattica come un’altra per sondare il suo terreno e poi colpirla nel momento propizio.

«Suppongo si possa intuire, viste le vicende che si sono susseguite così in fretta.» replicò. «Ma a me ha raccontato tutto Arthuria.»

«Perché?» insistette Morgana; Guinevere vide di nuovo quella sua reazione irritata di socchiudere l’occhio per un istante, prima di porre la domanda. Non capì se a causarle quella reazione fu il modo in cui aveva pronunciato il nome di Arthuria, o il fatto che Arthuria le avesse raccontato qualcosa che, probabilmente, doveva restare un segreto all’interno del castello.

«Credo sia successo perché aveva bisogno di parlarne.» rispose.

«E perché avrebbe dovuto parlarne con te?»

Guinevere la fissò; Morgana aveva alzato di più il mento, e la squadrava con un’espressione glaciale.

La infastidiva che Arthuria parlasse con lei, ora era chiaro. La infastidiva parecchio.

Ma perché?

«Perché si fida di me ed ero pronta ad ascoltarla.» rispose.

Morgana smosse finalmente la bocca, facendole assumere la forma di un sorriso sghembo.

«Sai, Guinevere.» disse, muovendo un passo avanti; Guinevere fece per indietreggiare, ma si fermò quando si accorse che l’intento di Morgana non era di aggredirla – non fisicamente, almeno –, ma solo di girarle intorno come a esaminarla. «Ho sempre trovato… singolare che una donna decidesse di prendere le armi. Una donna graziosa come te, poi.» aggiunse, facendole venire un brivido per quegli aggettivi; Guinevere non seppe perché, ma il suo istinto le urlò che non presagivano nulla di buono – e di certo non quello che Lancelot aveva pronosticato riguardo alla sua visita nelle stanze di Morgana. «Mi sfugge la ragione del tuo gesto. Tu potresti avere ai tuoi piedi mille e più uomini, se solo non fossi sempre sporca di polvere, non ti allenassi con le spade e non ti vestissi alla stregua di un maschio.» disse ancora Morgana, arrivandole lentamente dietro la schiena. «Per quale motivo, dunque, hai deciso di allenarti per diventare un soldato?»

Guinevere non voltò la testa. Assottigliò gli occhi, cercando di capire dove stesse andando a parare il discorso di Morgana. Tuttavia, la sua mente sembrava più concentrata sul fatto che lei avesse intuito i suoi sentimenti per Arthuria; e il valutarne le implicazioni le fece girare la testa per diversi attimi.

«Rispondimi, Guinevere.» la incalzò Morgana, con tono duro.

«Perché credo che sarà Arthuria, ad estrarre Caliburn dalla roccia.» replicò Guinevere. «E io voglio stare al suo fianco e servirla come suo soldato.»

«Quale singolare scelta.» continuò Morgana. «Malgrado le tue ragioni, dovresti sapere bene che il compito di una donna non è certo quello di stare sul campo di battaglia, ma di consigliare gli uomini da dietro le quinte, se proprio devono. Oltre, ovviamente, al dare loro dei figli e al governare il castello e il territorio in loro assenza.» Guinevere sollevò lo sguardo nel suo, quando se la ritrovò di nuovo davanti; Morgana le sollevò il mento prendendolo con forza tra le dita, e la fissò negli occhi. «Saresti la moglie perfetta per qualunque uomo. Il corpo caldo di cui hanno bisogno i re, quando tornano vittoriosi dalle loro guerre, per trastullarsi.» aggiunse, a bassa voce, vicino alla sua bocca. Guinevere ebbe un moto di disgusto, verso quell’immagine, pur sapendo che corrispondeva alla realtà dei fatti per la maggioranza delle dame di corte – o forse proprio per quello. «Eppure hai un carattere indomito. E hai fatto una scelta che va contro ogni legge, scritta o della natura che sia.» proseguì Morgana, lasciandola. «E tutto questo solo perché credi che Arthuria estrarrà Caliburn? Io dubito che sia solo questo.»

Guinevere rabbrividì. La calma con cui Morgana stava pronunciando quelle parole non prometteva bene: sapeva esattamente quello che stava dicendo, e sapeva che corrispondeva a verità.

«Ho elaborato due teorie, al riguardo.» disse Morgana. «La prima, e quella in cui credo meno, è che tu stia facendo tutto per ingraziarti Arthuria. Lei è ingenua: è stata educata così da Merlin, e non c’è da stupirsi che non sappia leggere gli sporchi trucchetti di una come te, una figlia di nessuno che è cresciuta in mezzo ai boschi e che fa una strana comunella con un ragazzo prestante e abile nel combattimento.»

Guinevere spalancò gli occhi; seppur con termini inusuali, Morgana le stava chiaramente dando della sgualdrina.

«Strana comunella, Lady Morgana?» replicò, con tono palesemente irritato, ma cercando di trattenere la furia. «Non vi permetto di parlarmi così, che voi siate uno o diecimila gradi sociali più in alto di me.»

La reazione di Morgana la colse alla sprovvista. Si ritrovò con la camicia stretta nella morsa di dita troppo forti, per essere quelle di una persona debole che aveva fatto uno sforzo come lei aveva pensato, e la schiena e la nuca sbattute di malagrazia contro il muro, doloranti per il colpo ricevuto, di cui lei aveva a malapena percepito l’urto.

Strinse i denti, e fissò Morgana negli occhi, furibonda; e vide delle pupille che bruciavano per l’ira, se possibile ancora più delle sue.

«Tu e Lancelot non condividete forse la stessa abitazione?» domandò Morgana, in un sibilo violento. «Lo stesso letto, magari?»

«No!» replicò Guinevere, artigliando una delle mani e cercando di liberarsi dalla sua presa.

«E tu non stai forse cercando di ingraziarti Arthuria con tante belle parole per ottenere, una volta diventata una sua fedele, se così si può dire, delle terre e delle ricchezze del regno che andrà costruendo?» disse ancora Morgana, ad alta voce, ignorando la sua risposta e stringendo di più la presa.

«No!» rispose ancora Guinevere, a voce più alta, e fissandola negli occhi.

Morgana strinse ulteriormente la presa, e la inchiodò ancora di più contro il muro; ma Guinevere non chiuse gli occhi, né distolse lo sguardo dal suo.

Fu solo dopo qualche attimo, che la presa si allentò, e l’espressione furiosa di Morgana si tramutò in un ghigno malvagio.

«Allora avevo ragione, a pensare che la mia seconda opzione fosse quella più plausibile.» commentò, in un tono troppo tranquillo, per non inquietare Guinevere, che sbarrò gli occhi. «A te non interessano né terre, né ricchezze, né il prestigio che potrebbe darti lo stare vicino ad Arthuria una volta che lei guiderà la Britannia.» considerò. Fece una brevissima pausa, alla quale Guinevere sentì i polmoni cercare troppa aria rispetto al solito, e il cuore battere nel suo petto fino allo sfinimento. «E io che pensavo di accusarti di fornicazione con Lancelot. Un peccato su cui tutto sommato si può indulgere.» disse ancora Morgana. «Ma, no. Qui si tratta di ben altro. Qualcosa di tanto forte da spingere una donna graziosa come te ad indossare un’armatura e a seguirla in battaglia.» disse. «Qualcosa di contemplato dalla maggioranza della comunità magica.»

Guinevere si accorse di tremare violentemente, malgrado la presa di Morgana si facesse sempre più debole e, alla fine, la lasciasse del tutto. Sostenne lo sguardo dell’altra, cercando di rimanere ferma nella propria sicurezza di sé; ma sentì come un mancamento, e dovette appoggiarsi al muro con una mano.

«Cosa potrebbero pensare di te le persone, se io dicessi in giro che provi dei sentimenti proibiti in una terra che si sta cristianizzando?» commentò Morgana. «Che cosa potrebbero fare di te, quelle persone?»

Guinevere la fissò per un istante, smarrita; poi, abbassò la testa, chiudendo gli occhi al ricordo di quello che le aveva detto Lancelot quando gli aveva dichiarato i propri sentimenti per Arthuria.

Peggio che morire ammazzata in battaglia.

Per la prima volta, ebbe paura. Non tanto di Morgana; quanto di come i propri sentimenti avrebbero potuto distruggerla, un giorno.

Se ne avesse parlato con Arthuria l’avrebbe distrutta la gente; se non le avesse detto niente, l’avrebbero divorata da dentro fino a farla impazzire.

E ora c’era anche Morgana, che sapeva.

Da quanto aveva intuito tutto?

Da quanto covava quella convinzione?

E perché lei non l’aveva lasciata perdere, invece di andare stupidamente a ringraziarla per il gesto che aveva fatto quella mattina per Arthuria?

Sapeva che Morgana la detestava. Era andata a ficcarsi nella tana del lupo da sola. Perché era stata così stupida?

«Non avvicinarti a lei, Guinevere.» disse Morgana, a voce bassa, il viso poco distante dal suo. «Tu non sei in grado di renderla felice.»

Guinevere per un attimo sentì quelle parole fluttuare nella sua mente; e poi, improvvisamente, collegò il tutto.

Il modo dolce con cui si rivolgeva solo ad Arthuria; il modo in cui cercava di proteggerla; l’essere sempre pronta a consolarla e a starle vicino.

Lo sguardo che le aveva lanciato sin dalla prima volta che si erano incontrate. E la convinzione che lei non potesse rendere felice Arthuria.

Quelle ultime non potevano essere solo le parole di una sorellastra, né di una sorella che aveva assunto il ruolo di madre.

Quello era…

La fissò, in dubbio su quelle considerazioni, mentre lei le dava le spalle. Forse erano solo i sentimenti un po’ confusi e morbosi di una ragazzina che a otto anni aveva iniziato a fare da madre alla sorellastra minore. Forse era solo il forte attaccamento che provava per lei.

Eppure…

«Io non sono in grado di renderla felice?» domandò, azzardandosi, in una maniera che in un’altra occasione avrebbe giudicato estremamente incosciente, a verificare se i propri pensieri avessero un fondamento. «Voi lo siete, Lady Morgana?»

Bastò l’immobilizzarsi di Morgana a quelle parole; gli occhi sbarrati in un’espressione di incredulità mista a furia, che lei le mostrò quando si voltò a guardarla; le labbra strette in una morsa, fino a diventare quasi bianche.

Fu sufficiente, a far capire a Guinevere i veri sentimenti di Morgana verso Arthuria. E verso di lei.

Non aveva mai visto tanto odio in vita propria.

Gli occhi di Morgana volevano ucciderla; il suo intero corpo sembrava teso in preparazione di un attacco che sarebbe stato violento e, se possibile, letale.

Si rese conto troppo tardi dei rami delle piante che erano andati allungandosi fino a raggiungerla; in un attimo, fu stretta nella morsa di piante che fino a pochi secondi prima erano solamente medicinali, e che ora invece avevano rami rampicanti che le legavano i polsi e si avvolgevano intorno al suo corpo, fino a stritolarle il collo.

«La magia della natura non è la mia specialità.» commentò Morgana. «Ma quando si tratta di magia della forma, posso adoperarla senza problemi, anche senza il contatto con l’oggetto. Specie se si tratta di qualcosa legato alla foresta, come delle piante.»

Guinevere annaspò, sentendo il fiato mancarle. In un angolo della sua mente, riuscì a pensare che Morgana era tanto abile con la magia da riuscire ad adoperare i due tipi di magie di seconda classe senza avere contatto fisico con l’oggetto, e che avrebbe dovuto riuscire a farlo anche lei, se voleva contrastarla.

«E’ stato un errore venire qui e provocarmi in questo modo, Guinevere.» commentò Morgana, avvicinandosi a lei.

Guinevere sentì la stretta farsi più forte. Chiuse gli occhi, e agì con la magia sull’aria vicino a sé, recitando mentalmente un incantesimo che la rendeva, in parte, affilata come lame.

Riprese fiato, quando i rami che la legavano furono recisi.

Con un altro incantesimo, fece in modo che l’aria vicino alle orecchie di Morgana fischiasse fino a diventare insopportabile. La vide perdere il controllo delle piante che stava maneggiando, e tapparsi le orecchie con le mani, gemendo per il dolore. Guinevere scattò in avanti, facendo per uscire dalla stanza.

Quando vi arrivò, però, fu trattenuta da altri rami che spuntarono fuori dal nulla. Crollò contro la parete accanto alla porta, sorreggendo il proprio peso tramite le mani, mentre sulle caviglie salivano le piante, i rami sempre più lunghi.

Indistintamente, sentì il gatto di Morgana soffiare – contro di lei, o contro qualcos’altro? –, e i passi di Morgana avvicinarsi a lei.

«E’ inutile legarti.» commentò Morgana, fissandola negli occhi. Aveva riacquistato la sua espressione fredda e sgradevolmente placida nei toni. «Così come è inutile tapparti la bocca. Sai usare gli incantesimi adatti a contrastarmi pronunciandoli nella tua mente.» proseguì. Guinevere sentì le gambe mancarle, quando i rami la lasciarono andare, e le piante tornarono com’erano prima. «Sei fastidiosa, Guinevere del Bosco. Molto. Ma in questo momento io e te finiremmo un combattimento in pareggio, malgrado la mia abilità nella magia sia superiore alla tua.» considerò. «E siccome non saprei bene come giustificare la tua morte o la tua scomparsa, specie se Lancelot sa che eri nelle mie stanze, direi di essere propensa a lasciarti andare, per questa volta.» commentò, avvicinandosi alla porta ed aprendola con una chiave. Guinevere la fissò negli occhi, sorpresa della propria fortuna, se così si poteva chiamare. «Dammi solo un pretesto, Guinevere. Uno solo. E io sarò pronta ad eliminarti.» disse. «In caso contrario, mi gusterò la tua morte sul campo di battaglia. Dubito che durerai a lungo.»

Guinevere sentì per un attimo il fiato mancarle, allo sguardo che Morgana le lanciò: definirlo crudele e desideroso della sua morte era usare un eufemismo. Lei voleva che soffrisse. Voleva che venisse uccisa tra le peggiori torture.

Se avesse potuto, l’avrebbe denunciata. Ma come era sospetta lei, che a diciassette anni viveva nella stessa casa con Lancelot pur non avendo una relazione con lui, e che invece di diventare una dama di corte aveva deciso di diventare un soldato, così era sospetta Morgana, che a ventitré anni ancora non si era sposata e rifiutava il corteggiamento di chiunque, compreso qualcuno di prestante come Lancelot.

Se una avesse accusato l’altra, l’altra avrebbe ribattuto con la stessa accusa, e sarebbero state imputabili entrambe.

«Esci dalle mie stanze e non farti più vedere.» concluse Morgana, voltandosi a darle le spalle.

Guinevere non se lo fece ripetere due volte. Saettò fuori dalla porta e camminò più velocemente che poté lungo i corridoi del castello, per uscire a respirare aria fresca.

Morgana l’aveva quasi ammazzata.

Morgana voleva la sua morte.

Morgana sapeva di quello che lei provava per Arthuria.

Morgana e lei erano più simili di quanto lei avesse mai potuto immaginare.

 

 

 

Aveva esagerato.

Quella era la considerazione che, come una litania, aveva iniziato a rimbombarle nella testa nel momento stesso in cui Guinevere era uscita di corsa dalla sua stanza.

Finché si trattava di adoperare la magia della forma su un corpo estraneo al suo poteva anche andare bene: si trattava di usare un minimo di energia, e con quella poteva anche ingrandire qualcosa di piccolissimo, o viceversa rimpicciolire qualcosa di grandissimo. Si trattava solo di utilizzare la materia esistente nel modo giusto per portare a termine l’obiettivo.

Ma quando si adoperava la magia della forma sul proprio corpo, variando lineamenti, curve, colore e lunghezza di qualsiasi cosa per trasformarsi momentaneamente in qualcun altro, il discorso cambiava: il corpo tendeva naturalmente a tornare alla propria forma più stabile, che altri non era la sua vera forma, e l’energia usata era la sua, sia per mantenere la forma scelta, sia quella che il corpo usava per cercare di stravolgere l’incantesimo. Per quanto Morgana fosse abile con le magie della forma, e a cambiare le sembianze degli oggetti, non adoperava spesso quel genere di magia sul proprio corpo, proprio per quel motivo; e per quanto si fosse esercitata, nelle settimane, al fine di assumere in maniera estremamente precisa tutti i connotati di Lady Igraine, non era riuscita a metabolizzare a sufficienza lo sforzo. Non da riuscire a tornare in forma in mezza giornata per utilizzare la magia della forma anche contro Guinevere senza conseguenze, almeno.

Doveva essere stato lo sforzo eccessivo, a spingerla a tradirsi davanti a lei. Quell’orfana venuta dai boschi aveva capito tutto dalle parole che aveva detto, e forse aveva intuito qualcosa anche in precedenza.

Morgana si morse un’unghia, contemplando i cocci della ciotola di argilla che aveva dato a Guinevere per mettere l’infuso, sparsi a terra in una macchia ancora umida di infuso di erbe rigeneranti: l’aveva colpita con una manata non appena l’altra era uscita, in preda alla furia di essersi tradita davanti a lei e di non essere riuscita ad eliminarla.

L’unica cosa positiva era che Guinevere si fosse tradita esattamente come aveva fatto lei, e avesse confermato le sue teorie – pur senza dirlo esplicitamente; ma d’altra parte, nemmeno lei l’aveva detto con franchezza a Guinevere, malgrado la propria reazione fosse stata più che eloquente.

Guinevere era imputabile quanto lei, a questo punto. Avrebbe potuto accusarla, e dall’alto del proprio rango sociale con tutta probabilità l’avrebbe avuta vinta e avrebbe potuto contemplare Guinevere bruciare sul rogo dopo mille torture. L’altro lato della medaglia era che non poteva, a conti fatti, accusarla: Guinevere avrebbe potuto accusare lei della stessa cosa, e Morgana non avrebbe potuto difendersi.

Quella ragazzina era infida. L’aveva capito nel momento stesso in cui l’aveva sentita arrivare nelle sue stanze e aveva notato l’odore di erbe medicinali in quel sacchetto: cosa pensava di fare, con quel gesto? Trasformarle all’ultimo minuto e rendere l’infuso velenoso in modo da eliminarla? O guadagnarsi le sue grazie e la sua simpatia con quel gesto da quattro soldi? Di sicuro non era un gesto dettato dalla gentilezza: non le aveva mai dato motivo di essere gentile con lei, dal momento che lei per prima non si era mai fidata di lei: Guinevere, fin dall’inizio, era stata fin troppo vicina ad Arthuria, per non avere qualche doppio fine da quel rapporto. E Arthuria era mentalmente partita per quella mocciosa da anni, molto prima che Morgana la vedesse coi propri occhi: continuava a parlare di lei e del fatto che si incontrassero ogni giorno, e del fatto che fosse stata Guinevere ad assoldare Lancelot per allenarla e farla diventare abile nel combattimento.

Morgana si era chiesta più e più volte cosa quella Guinevere volesse ottenere con quei gesti verso Arthuria. Quando aveva scoperto che era un’orfana cresciuta da Cassandra, la maga amica d’infanzia di Merlin, aveva supposto che l’obiettivo di Guinevere fosse ingraziarsi Arthuria per ottenere, in futuro, benefici a livello economico, e un rango sociale alto, in modo da poter vivere una vita agiata.

Poi, l’aveva vista. E più di una volta, dopo quella prima volta in cui Arthuria aveva avuto le sue prime mestruazioni, Guinevere e Lancelot erano venuti al castello per allenarsi insieme a sua sorella.

Era bastato forse qualche sguardo, o qualche gesto di troppo, per far maturare a Morgana il sospetto che Guinevere non stesse vicino ad Arthuria esattamente per ottenere benefici economici, ma per tutt’altro motivo.

Tuttavia, le era sempre risultato difficile credere che quella teoria fosse vera. Guinevere poteva semplicemente essere una ragazzina fin troppo esagitata e ribelle, e aver scelto di diventare un soldato per guadagnarsi ulteriore fiducia di Arthuria – che, dall’alto della propria ingenuità, non aveva mai capito quali fossero i reali obiettivi di Guinevere, e credeva di potersi ancora fidare di lei: Arthuria era fin troppo pura, e fin troppo gentile e onesta, in tutti i sensi, per credere che qualcuno avesse secondi fini in un rapporto con lei. E Morgana aveva sempre dovuto proteggerla da complotti alle sue spalle, di cui Arthuria non aveva mai saputo nemmeno l’esistenza, grazie al suo intervento: erano stati diversi, i cavalieri del re che avevano tentato di eliminare l’unica erede di sangue di Uther per guadagnarsi in qualche modo la successione al trono, o per semplice convinzione che una donna non dovesse combattere. E c’erano state alcune volte in cui la mandante di quei complotti era stata la stessa Igraine, soffocata dall’odio verso la propria unica figlia.

Morgana avrebbe voluto ammazzarla direttamente ed eliminare così il male alla radice; ma non poteva farlo senza una scusante valida, e in quegli anni una scusante non si era mai presentata. Così, aveva dovuto accontentarsi di far sparire dalla circolazione qualunque cavaliere fin troppo fedele alla regina, o fin troppo sicuro di sé e delle proprie capacità da credere di poter eliminare Arthuria.

Arthuria era la sua unica ragione di vita. Arthuria era quella bambina che si era ritrovata ad accudire perché Igraine si era rifiutata persino di allattarla, cercando di farla morire di fame, e Morgause, la sua madre naturale, aveva preso in custodia, facendola allattare da una delle serve del castello. Arthuria era quella bambina cresciuta in un’atmosfera di odio, e istruita ad amare gli altri e ad essere giusta: una contraddizione che chiedeva solo di essere amata quel poco che bastava a farla diventare un re giusto e saggio come le veniva insegnato.

Morgana aveva deciso di darglielo, quell’amore. Aveva deciso di darle il conforto, la spalla su cui piangere, l’educazione che Arthuria non aveva mai ricevuto da sua madre, la figura femminile di cui lei aveva avuto bisogno, la sorella complice che sapeva tutto di lei e cui lei poteva raccontare tutto.

Eppure, col tempo, Morgana si era resa conto che l’amore che lei dava ad Arthuria non era ricambiato nella stessa misura.

Lei stava dando tutta sé stessa per lei: voleva che fosse felice, che compisse il proprio destino, che sentisse quel sentimento noto come amore dritto nel cuore, e ne fosse colpita. Ma Arthuria non ricambiava: la considerava solamente una sorella, una confidente, una complice, e la madre che non aveva mai avuto.

Che era quello che Morgana aveva deciso, inconsciamente, di essere per lei.

Ma che non era quello che Morgana voleva essere davvero, per lei.

Morgana si era ritrovata a fare i conti con qualcosa che andava oltre il legame famigliare e affettivo; si era ritrovata a dover interagire con un sentimento di possessione verso Arthuria, che la spingeva a volerla solo per sé, e per cui ancora in quel momento soffriva, perché sapeva che non sarebbe mai stato ricambiato.

E ora arrivava quella mocciosa dal bosco, e presumeva di poter amare Arthuria più di quanto facesse lei – lei, che aveva dato tutta la propria vita per Arthuria, e che aveva devoluto ogni singola briciola della propria anima a rendere felice Arthuria per quanto le fosse possibile, a proteggerla, e ad esserle vicino; lei, che conosceva ogni singolo angolo dell’anima di Arthuria, che l’aveva ascoltata e consolata per anni, che aveva fatto fronte ai suoi dubbi e aveva cercato di incoraggiarla; lei, che pur di farle apprendere la magia e farle avere fiducia nelle proprie capacità in quelle ultime settimane aveva lavorato per rendersi più simile possibile alla persona che più odiava, e a elaborare un discorso che potesse essere coerente con la situazione, sforzandosi di pensare con una mente di cui non concepiva nemmeno il minimo pensiero.

Guinevere non sapeva nulla di Arthuria; e se sapeva qualcosa, non sapeva abbastanza. Non le era stata vicina per un tempo sufficiente ad avere la conoscenza della mente di Arthuria che aveva Morgana; non le era stata vicina un tempo sufficiente per poter dire di amarla e di conoscere ogni angolo di lei – eppure, con una sfrontatezza che per lei era come un oltraggio, l’aveva dato a intendere, e provava quei sentimenti, e il suo obiettivo era avere Arthuria per sé.

Morgana assottigliò gli occhi a contemplare Urion, il proprio gatto; Guinevere era qualcuno che lei avrebbe dovuto eliminare, in un modo o nell’altro. Ma era talmente subdola che sarebbe stato difficile farlo. Se era ancora vergine, avrebbe potuto chiedere a Lancelot di esserle complice, e di prendersi la sua verginità, in modo da dimostrare di avere una relazione con lui nel caso Morgana avesse deciso di accusarla di omosessualità. La fornicazione prematrimoniale era effettivamente un peccato all’interno della comunità cristiana che si stava formando in Britannia; ma era qualcosa su cui si poteva indulgere, specie perché era una pratica particolarmente diffusa tra le persone dei ceti sociali più bassi. E Guinevere e Lancelot, per quanto maghi, appartenevano entrambi a ceti sociali bassi, e per di più erano orfani.

Lei non avrebbe potuto fare la stessa cosa: essendo di un rango alto, ci si aspettava che arrivasse vergine al matrimonio – per quanto chiunque, ormai, presumeva che lei avesse una relazione illegittima con qualche appartenente a un ceto basso, e che quello fosse il motivo per cui si rifiutava di sposarsi. Se non fosse arrivata vergine, avrebbero potuto esserci delle conseguenze gravi. Ovviamente, nel lontano caso in cui lei fosse effettivamente arrivata al matrimonio: la sua intenzione, in realtà, era di stare vicino ad Arthuria e di proteggerla dai complotti di corte più a lungo possibile.

Certo, se avesse avuto una qualche relazione con qualcuno di rango più basso, in qualche modo si sarebbe potuta difendere dalle accuse di omosessualità che Guinevere avrebbe potuto muoverle.

Di colpo, le tornò alla mente la prima volta che aveva visto Lancelot. Quel ragazzo le moriva dietro sin dal primo istante in cui aveva incrociato il suo sguardo. Ed era di un rango ritenuto basso: era qualcosa di misto tra un apprendista scudiero e un aiutante della bottega erboristica di Cassandra.

Una relazione con lui sarebbe stata plausibile; purtroppo, era amico di Guinevere, e avrebbe potuto sapere di quello che era successo tra loro due quel pomeriggio, se fosse stato tanto intimo di Guinevere al punto da venirlo a sapere. Se fosse stato particolarmente intimo di Guinevere, avrebbe potuto addirittura sapere dei sentimenti che lei provava per Arthuria. E Guinevere avrebbe potuto dirgli addirittura di quello che lei, Morgana, aveva dato a intendere quel pomeriggio.

Ma se così non fosse stato, una relazione con Lancelot sarebbe stata plausibile.

Si alzò dalla poltrona su cui si era accasciata dopo lo sforzo di un uso eccessivo di magia, e si diresse verso gli armadietti sotto l’erbario, per poi abbassarsi ed estrarre una gabbia in cui dormivano due gattini nati da poco, striati di grigio e bianco.

Guinevere aveva riconosciuto i suoi uccellini come suoi famigli, e Urion come un suo animale domestico; ma quei due gattini non li aveva visti, con tutta probabilità, dato che Morgana li aveva raccolti da poco perché Urion glieli aveva portati. Aveva avuto intenzione di renderli dei famigli nel momento stesso in cui li aveva visti; e ora le tornavano utili a quello scopo. Sarebbe stato un ulteriore sforzo per cui avrebbe successivamente dovuto chiedere aiuto alla madre: per rendere un animale un proprio famiglio, bisognava imprimergli una parte della propria volontà tramite un sigillo; e i sigilli erano tra le magie di classe più elevata.

Ma poco importava, se avrebbe dovuto fare l’ennesimo sforzo.

Contemplò per qualche istante i due gattini, raggomitolati l’uno contro l’altro, gli occhi chiusi in un sonno placido; lasciò per un attimo la gabbia nella posizione in cui trovava, si alzò e andò verso Urion, comandandogli mentalmente di andare a chiamare sua madre, e aprendogli la porta per lasciarlo passare. Urion si dileguò nel giro di qualche istante con un guizzo di coda mentre oltrepassava la soglia.

Morgana tornò ai due gattini, e aprì la gabbia. I due percepirono in qualche modo quel movimento, e socchiusero gli occhi; Morgana allungò una mano verso uno di loro, e lo accarezzò, grattandolo dietro le orecchie e, in quel momento, imprimendogli il sigillo che l’avrebbe reso uno dei propri famigli.

Sentì qualcosa di simile a un mancamento, e buona parte dell’energia abbandonarla in un solo attimo, per lasciare spazio a un torpore che per un attimo la spinse a pensare che avrebbe potuto bastare anche uno solo dei due gatti come famiglio; tuttavia, prese coscienza del fatto che doveva sorvegliare sia Guinevere, sia Lancelot, in maniera più discreta possibile, ma contemporaneamente. E l’unico modo per farlo era usare due famigli. Se poi avesse scoperto che Lancelot sapeva tutto di Guinevere, avrebbe architettato un altro modo per togliere di mezzo entrambi: lei non poteva avere Arthuria, ma non era disposta a cederla a nessun altro, perché nessun altro l’avrebbe amata come lei.

Passò la mano sul pelo dell’altro gattino, sorridendo, mentre imprimeva il sigillo anche a lui.

Nessuno avrebbe lasciato due gattini così piccoli a sé stessi. Specie se si trattava di due orfani come Guinevere e Lancelot.

Mal che fosse andata, avrebbe avuto tante informazioni su di loro da poterle distorcere e da poter formulare delle accuse contro di loro tali da farle godere, in futuro, lo spettacolo di entrambi arsi sul rogo.

 

 

Arthuria si fermò per un secondo, incerta sulla direzione da prendere.

Il tramonto era passato da almeno due ore – ed era da almeno due ore, quindi, che stava cercando Guinevere per i cortili del castello, senza trovare la minima traccia di lei.

Si era resa conto del tempo passato (e con esso, dell’aver perso un’intera giornata di allenamento, persa com’era a contemplare Caliburn e a riflettere sulle parole pronunciate da sua madre) solamente quando il sole aveva iniziato a calare, e lei aveva visto Caliburn non riflettere più la luce del sole. Solamente allora aveva deciso di scendere da quella torre, e di dirigersi verso l’abitazione di Guinevere, Cassandra e Lancelot, in modo da parlare con l’amica degli avvenimenti di quella mattina, delle parole che sua madre aveva pronunciato, e dei pensieri che le avevano occupato la mente per l’intero giorno. Nonché della decisione che aveva preso in virtù di essi.

Quando era arrivata all’abitazione di Cassandra, tuttavia, aveva scoperto che Guinevere non si trovava lì.

Lancelot le aveva raccontato che era tornata a casa circa un’ora prima del calare del sole, aveva preso il proprio mantello rosso scuro che portava sempre, una bisaccia che né lui né Cassandra avevano capito cosa contenesse, ed era uscita di nuovo, dicendo che aveva bisogno di stare da sola, e intimando loro di non seguirla per nessun motivo.

Tutto ciò spiegato sullo sfondo dell’interno della casa di Cassandra, in cui la maga era seduta al tavolo apparecchiato per la cena, evidentemente in attesa che la figlia tornasse.

Tuttavia, Lancelot e Cassandra avevano deciso di non seguire Guinevere, convinti del fatto che fosse sicura di quello che faceva, se aveva pronunciato una frase del genere e aveva chiesto loro di non cercarla. Non era mai stata una sprovveduta: sapeva difendersi, e spesso usciva di casa per riflettere per conto suo, prima di cena, per tornare in tempo.

Il problema era che non era tornata, quella sera.

Arthuria aveva osservato per qualche attimo lo sguardo preoccupato di Cassandra, e l’espressione di Lancelot, che cercava di dimostrarsi convinto di quello che stava dicendo – salvo per una vena di preoccupazione che Arthuria, troppo abituata a interpretare la sua mimica facciale, aveva colto subito: nemmeno lui era tranquillo per quello che sarebbe potuto succedere a Guinevere, specialmente alla luce del fatto che non fosse tornata come faceva abitualmente; e aveva capito che Lancelot aveva deciso di non cercarla solamente per non violare la sua richiesta.

Arthuria aveva assicurato a entrambi di trovarla, e riportarla a casa sana e salva.

Eppure, in quel momento, iniziava a dubitare di riuscirci, o che Guinevere addirittura volesse essere riportata a casa.

Erano due ore che vagava per i cortili del castello, la spada di ferro alla mano pronta a colpire chiunque avesse potuto attaccare lei o Guinevere, e i due piani superiori della fortezza perlustrati. Tuttavia, non aveva trovato traccia di lei, malgrado la dimora di Cassandra fosse nel cortile più in alto, il terzo a partire dal basso.

Non riusciva a credere che Guinevere si fosse allontanata tanto da casa propria; la fortezza era composta da tre piani sovrapposti, in cui la fortezza principale troneggiava su cortili che si aprivano da parti diverse, l’uno rispetto all’altro, e ospitavano tipologie diverse di abitanti: al piano più alto, rivolto verso sud, vi erano le case delle persone più abbienti, e più in contatto con la popolazione del castello – questo comportava la presenza, ad esempio, di alcuni maghi ed erboristi, oltre a Cassandra; della presenza delle case di altri guerrieri che presidiavano alla protezione della fortezza, ed erano fedeli militari del re; e la presenza di sarti, di scudieri che si occupavano dei cavalli, delle famiglie di alcuni dei cavalieri del re, e della dimora di Merlin.

Al piano inferiore, rivolto verso est, si trovavano invece le dimore della servitù del castello; insieme alle dimore del cortile più alto, si trattava di abitazioni abitualmente utilizzate.

L’ultimo cortile era quello più ampio, rivolto verso il nord e l’ovest, e ospitava tutti gli assediati: contadini, servi di signori che al momento erano in battaglia, braccianti, fabbri, artigiani, e tutti coloro che non potevano combattere e si occupavano di dare un contributo all’economia del castello tramite il lavoro manuale. C’erano anche alcuni soldati del re, sottoposti di quelli che abitavano nel cortile più alto, e che ricoprivano il grado più basso all’interno dell’esercito reale: erano stanziati lì per proteggere il castello, esattamente come i loro sovrintendenti due piani più sopra, ed eventualmente per presidiare alla resistenza.

Arthuria poteva quasi accettare che Guinevere se ne fosse andata in giro per i due piani più in alto; ma li aveva perlustrati tutti, da cima a fondo, e non aveva trovato traccia di lei da nessuna parte.

Non riusciva a credere che Guinevere potesse essersi spinta fino al piano più basso: quello era abitato da persone di tutti i tipi, e qualunque uomo avrebbe potuto aggredirla e farle del male, anche se lei era in grado di difendersi con la magia.

Rabbrividì, quando contemplò per qualche attimo le scale che portavano al piano più basso, e strinse l’elsa della spada con più forza e decisione; nella sua testa, l’immagine di una Guinevere cui veniva tappata la bocca e che veniva costretta a subire le più umilianti vessazioni, o che veniva aggredita, tramortita e uccisa per motivi non chiari.

Esitò per un attimo, rendendosi conto di essersi immobilizzata sul posto e di tremare violentemente – la presa sulla spada non più salda, e tendente a farla cadere a terra.

Avrebbe fatto veramente in tempo ad aiutarla, se lei fosse stata lì e fosse stata aggredita?

Sarebbe riuscita a salvarla, o lei avrebbe dovuto essere…?

Sentì il fiato mancarle per il panico dovuto al solo pensiero. Non riusciva a immaginarsi il giorno dopo senza di lei; non riusciva a capire le ragioni di quella fuga, del perché lei avesse dovuto rischiare tanto per andare laggiù, e del perché non avesse avvisato nessuno – del perché avesse confidato così tanto in sé stessa, al punto da mettersi in pericolo in quella maniera.

Poi, d’improvviso, una specie di illuminazione la colpì.

Più che definirla illuminazione, si ritrovò a definirla un’autentica fitta al suo cervello.

Guinevere forse era andata lì perché… perché aveva…

Arthuria esitò nel formulare quel pensiero, incerta persino sul fatto che fosse lecito o meno considerare una possibilità del genere.

Eppure, non riusciva a spiegarsi altrimenti il rischio che lei avrebbe potuto correre, se non con il fatto che lei potesse avere…

Deglutì a vuoto, sentendo un punto in corrispondenza del proprio cuore iniziare a stringersi fino a farle male, e la testa pulsare per la rabbia e il sentirsi inadeguata, come sempre.

Aveva quasi accettato che lei non fosse fatta per Guinevere, e che non avrebbe mai potuto avere il corpo maschile che probabilmente lei desiderava al proprio fianco – aveva quasi accettato di non poterla proteggere come un uomo, e di dover fare del proprio meglio, di doversi allenare cinque volte tanto un normale uomo, per poter contribuire alla sua protezione. Aveva quasi accettato che probabilmente un giorno sarebbe stato Lancelot, al suo fianco, a proteggerla e a prendersi carico della sua persona. Aveva quasi accettato l’idea di avere, in futuro, un ruolo marginale nella sua protezione e nella salvaguardia della sua vita, che era tutto ciò che lei voleva e cui pensava – sempre; e che le veniva riportato in mente ogni volta che lei vedeva Guinevere allenarsi con la spada, e si ritrovava a pensare che un giorno lei avrebbe potuto anche combattere al loro fianco; e allora, quello del protettore sarebbe stato un ruolo più adatto a Lancelot, che a lei.

Era quasi arrivata ad accettarlo.

Ma pensare che Guinevere avesse una relazione con un altro uomo, e che sarebbe stata protetta anche da lui, non faceva che relegarla a un ruolo ancora più marginale, nei suoi confronti.

Non faceva che renderla sempre più inutile, ai suoi occhi, alla mansione della sua vita, e alla sua intera esistenza.

Eppure, non riusciva a trovare altra spiegazione per cui lei potesse essersi diretta fin lì.

Esitò, chiedendosi se lei veramente volesse essere recuperata e portata a casa, in quel caso; e considerando che, se le sue ipotesi fossero state vere, Guinevere avrebbe voluto tutto, tranne che il suo “aiuto”. Se così si poteva chiamare.

Deglutì a vuoto, fissando con rabbia la curva dietro la quale le scale continuavano a scendere fino al cortile del primo piano, e maledicendo la sorte per averla fatta nascere donna.

Se non fosse stata la sorte, lei avrebbe potuto essere il degno erede di Uther, benvoluto e accettato da tutti, non sottovalutato, allenato a diventare un vero guerriero che avrebbe succeduto al padre nel comando della Britannia; avrebbe potuto avere molta più forza di quella che aveva in quel momento, e che rispecchiava solamente quella di una ragazzina di quindici anni che si era fatta i muscoli allenandosi cinque volte più di un normale maschio, in qualsiasi tipo di allenamento possibile – e ciò non sarebbe bastato, a farla essere più forte di un uomo: sarebbe rimasta sempre una femmina, e per questo più debole.

Se non fosse stata la sorte, Guinevere avrebbe anche potuto legarsi a lei al punto da volere la sua protezione, e solamente la sua; al punto da non chiedere di rischiare la vita e di combattere, pur di rimanere al suo fianco e di servirla qualora fosse diventata re.

Se non fosse stato per la sorte, lei avrebbe potuto essere l’unico e l’immutabile protettore di Guinevere.

Si accorse di avere il fiato corto, da quanto stava respirando a fondo pur di cercare di calmarsi, e pur di imporsi di non mettersi a piangere all’imbocco delle scale, in un luogo aperto: gli uomini non piangevano, e non avrebbe dovuto farlo nemmeno lei – malgrado lei non sarebbe mai stata un uomo, non sarebbe mai stata all’altezza di un uomo, e non sarebbe mai stata alla pari di un uomo, non voleva comunque essere da meno di loro, e comportarsi come una femmina avrebbe fatto.

Strinse con più forza l’elsa della spada, cercando di calmarsi e di imporsi di scendere le scale per andare, comunque, a controllare che Guinevere non fosse nel cortile; nel caso non l’avesse trovata, avrebbe concluso che si trovava nella casa di qualche individuo dei piani più bassi, e avrebbe atteso il suo ritorno pazientemente, davanti alla casa di Cassandra.

Scendendo i gradini, sentì delle persone cantare ad alta voce, e diventare sempre più distinte mano a mano che si avvicinava a toccare con piede il pavimento del primo piano. Svoltando l’angolo, notò quella che doveva essere una locanda, in cui militari e contadini bevevano da grossi calici, seduti affiancati sulle panche che davano sulla strada principale, intonando quelle che dovevano essere canzoni di guerra.

Li osservò per qualche attimo, confusa. Scene del genere non si vedevano ai piani superiori: al secondo e al terzo piano c’erano semplicemente le famiglie di case attigue che si mettevano a parlare, seduti sulle sedie che venivano puntualmente piazzate accanto alla porta di casa. C’era familiarità, e gli abitanti dello stesso piano si conoscevano quasi tutti; ma non c’era quello che Arthuria definì istintivamente “affiatamento”, appena vide i militari e i contadini l’uno accanto all’altro a cantare vecchi canti di battaglia.

Non era mai stata lì, in realtà; per lo meno non di sera, dopo il tramonto. E quando usciva dal castello per andare a vedere Caliburn, si ritrovava sempre davanti a uno scenario molto tranquillo e pacato, ordinato, in cui i militari facevano il loro dovere e le sentinelle controllavano il paesaggio circostante. La vita in quella zona, di notte, era qualcosa di completamente diverso a quello che era abituata a vedere; e a quel punto, non sapeva nemmeno da dove cominciare a cercare Guinevere, vista la vastità della zona, e vista la quantità di persone che ancora a quell’ora erano alzate e sembravano perfettamente pronte a fare confusione per qualche ora.

Esitò, guardandosi in giro in cerca di una persona cui chiedere indicazioni, e diffidando di chiunque vedesse in giro: giravano voci non buone, sugli abitanti del primo piano, che venivano dipinti come dei violenti e dei villici da quelli dei piani superiori. Nessuno amava avvicinarsi lì; e nessuno aveva una buona opinione di qualcuno che abitasse lì in basso.

Ma doveva muoversi. Guinevere avrebbe potuto essere lì da qualche parte, e in quel momento poco importava cosa stesse facendo: prima otteneva informazioni su di lei, prima la trovava, prima si sarebbe messa l’anima in pace se lei fosse stata davvero lì per trovare un uomo.

Decise di rivolgersi a quella che doveva essere la padrona di una taverna lungo la strada principale: era una donnona corpulenta, col viso rosso, i capelli non troppo lunghi raccolti all’indietro, e un grembiule fin troppo pulito addosso.

Si avvicinò, titubante, dando un’occhiata poco convinta ai contadini, ai fabbri e ai soldati poco distanti da lei, e che sembravano non prestarle più di tanta attenzione, impegnati com’erano a bere e a inalberarsi per quelle che parevano questioni di poco conto.

«Ragazza, metti via quella spada! Ch’è, vuoi cavare un occhio a qualcuno?»

Arthuria sobbalzò, e si voltò a guardare la donna proprietaria della taverna. Per un attimo, rimase stranita a fissarla, per metà sorpresa per la richiesta, e per metà per il fatto che non l’avesse riconosciuta come l’erede di Uther – odiava il titolo di “principessa”; considerata la sua posizione, era fin troppo femminile.

Storse per un attimo la bocca, chiedendosi se il fatto di non essere stata riconosciuta potesse essere interpretato come qualcosa di positivo o, piuttosto, di negativo; poi, decise che poco importava, e ripose la lama nel fodero che portava legato alla cintola.

«Che ci fa una ragazza come te qui, neh?» domandò la donna, quando vide che la sua richiesta era stata esaudita. «Le ragazze non bevono insieme agli uomini, anche se usano le armi.»

Arthuria spalancò gli occhi, sorpresa da quella costatazione.

«Ci sono altre ragazze che usano le armi, qui?» chiese, avvicinandosi al bancone e mettendovi le mani sopra.

La donna la fissò per un attimo, e poi annuì, lentamente. «Sì, una c’è. Sta ad allenarsi insieme ai ragazzi, poco più in là, nei tornei che fanno la sera una volta a settimana.» spiegò, indicandole con il dito la sua destra.

Arthuria la osservò giusto un istante, e poi si voltò verso la direzione che le stava indicando, rapita.

C’era un’altra ragazza che si allenava a combattere, esattamente come lei. Magari la figlia di un militare. Magari la maggiore delle figlie di un contadino, che aveva avuto la sfortuna di avere solamente figlie femmine.

Poi, si ricordò per cosa era lì, di colpo. Tralasciò all’istante le ipotesi sulla ragazza, decidendo che sarebbe andata a vederla solo dopo aver trovato Guinevere, e tornò a guardare la donna.

«In realtà ho un’informazione da chiederle.» disse, a voce sufficientemente alta da sovrastare il caos che stava imperversando nella taverna, e farsi sentire almeno da lei. «Sto cercando una ragazza. È poco più alta di me, ha i capelli lunghi castano scuro, gli occhi azzurri, tendenti al verde, ed è piuttosto magra. Si chiama Guinevere. L’ha vista, per caso?»

La donna la fissò ancora per qualche attimo, e poi inclinò di lato la testa, facendo una smorfia con la bocca.

«Gwin, vuoi dire?» disse. «È quella che sta a combattere insieme ai ragazzi.»

Arthuria trasalì, sconcertata.

Per un attimo, sentì solo il proprio respiro rallentare, e le palpebre allargarsi a guardare la proprietaria della taverna.

Guinevere. Che si allenava nel combattimento. In tornei insieme ai villici del primo piano del castello.

Sollevò lo sguardo verso la donna, e indicò verso la propria destra. «Ha detto che si trovano di là, vero?» domandò. Quasi non fece in tempo a vedere la donna annuire, che prese a correre in quella direzione, ringraziandola ad alta voce.

Guinevere che si allenava insieme ai villici. Aveva senso – ne aveva anche troppo…! Come aveva fatto a non pensarci appena la donna le aveva detto di una ragazza che combatteva? Era più plausibile che fosse lei, piuttosto che fosse un’altra ragazza oltre a loro due.

Istintivamente, trasse un sospiro di sollievo, al rendersi conto che non c’era nessun uomo da cui Guinevere volesse andare al punto da incontrarsi di nascosto con lui. Corse seguendo la strada principale, e voltando lo sguardo a destra e a sinistra in continuazione, pur di trovare il punto in cui c’erano quei fantomatici tornei tra ragazzi.

Diversi metri più avanti, finalmente trovò uno spiazzo alla propria sinistra, in cui effettivamente c’erano due persone che stavano combattendo, con un nugolo di gente che li stava a osservare, e a fare il tifo per l’uno o per l’altro.

Avvicinandosi, poté notare che uno dei due combattenti era proprio Guinevere: portava i capelli raccolti in una crocchia, e indossava i vestiti che usava abitualmente durante gli allenamenti diurni che faceva con lei e con Lancelot.

Assottigliò gli occhi, osservandola mentre combatteva con un ragazzo che doveva avere una ventina d’anni, armata di due daghe, una per mano; l’agilità con cui schivava i fendenti della spada dell’altro, e con cui muoveva i polsi per gestire prima la daga sinistra, e poi quella che teneva nella mano destra, cercando di colpire l’altro, erano qualcosa che non le aveva mai visto fare: in genere, lei si allenava con una sola spada a lama lunga, come quelle che avevano lei e Lancelot. Eppure, con quelle armi era molto più agile, e sembrava molto più pratica, rispetto agli allenamenti.

Trattenne per un attimo il fiato, quando un fendente andò troppo vicino al torace di Guinevere, e lei lo schivò con un movimento agile del corpo; la fissò, esterrefatta dalla sua velocità, quando diresse un colpo con la daga destra verso il ragazzo, arrivando quasi a toccare la sua gamba – eppure, anche lui era veloce, e schivò l’attacco; Arthuria spalancò gli occhi, vedendolo menare un fendente per cui fece volare via una daga dalla mano destra di Guinevere, facendola finire poco distante da una parte del pubblico (alcuni di loro, per evitare di essere colpiti, dovettero spostarsi indietro). Spostò lo sguardo per un solo attimo verso il ragazzo, e poi tornò a guardare Guinevere, che stava indietreggiando, gli occhi scattanti e attenti a cercare di anticipare ogni gesto dell’altro, in modo da poter schivare e attaccare di nuovo.

L’altro rimase in guardia, la spada alta davanti a sé, e a debita distanza da Guinevere – ma muovendosi in modo da essere più vicino, rispetto a lei, alla daga che le aveva fatto volare via di mano, per fare in modo che non la potesse riprendere.

Arthuria rivolse uno sguardo a lei, e vide chiaramente gli occhi di Guinevere fissare l’altro dritto nelle pupille, con l’intento di studiarlo; e in quel momento, colse anche la determinazione che lei aveva di vincere quel duello – era qualcosa che sembrava bruciarle nelle iridi, e infiammarle il resto del comportamento: la tensione degli arti, la lentezza dei movimenti, la daga tenuta avanti a sé ma con il braccio mezzo piegato e pronto a sferrare un attacco; l’espressione concentrata del viso, e il respiro controllato, malgrado probabilmente fosse affaticato per tutte le schivate e gli attacchi veloci che aveva fatto fino a quel momento.

Non era qualcosa che fosse riuscita a vedere quando Guinevere si allenava con lei e con Lancelot.

La fissò, confusa, mentre Guinevere studiava ancora il suo avversario, gli occhi infuocati dalla voglia di vincere malgrado lo svantaggio.

Perché lo vedeva solo in quel momento?

Lei e Lancelot non erano avversari degni di destare la sua voglia di competere?

Dov’era l’errore, in quello che facevano? Perché lei sembrava combattere in tutt’altro modo, in quel momento, rispetto a quando combatteva contro loro due? Perché sembrava più capace con quelle armi, malgrado Arthuria non gliele avesse mai viste usare?

Spalancò gli occhi, quando Guinevere attaccò con uno scatto – quello era il classico momento in cui avrebbe dovuto aspettare che fosse l’altro, a fare la prima mossa! Così lui…

Arthuria fissò l’altro che deviava la daga di Guinevere, e con essa la traiettoria e il suo colpo, facendola finire a terra.

Reagì d’istinto, quando vide la spada dirigersi di nuovo verso la ragazza, dal basso della mano di Guinevere, verso il suo collo.

Non si rese conto nemmeno del movimento che aveva fatto.

Si ritrovò semplicemente davanti all’altro, la propria spada alzata che deviava il colpo dell’altro, le gambe divaricate e l’intero corpo pronto a proteggere Guinevere; il fiato corto, i denti stretti, e gli occhi piantati in quelli del ragazzo.

Sentì fiati trattenuti dal pubblico che li circondava; mormorii, da qualche parte; il respiro ansante di Guinevere dietro di sé; e gli occhi sorpresi del ragazzo che la fissavano dall’alto dei centimetri che li separavano – dovevano essere almeno una ventina.

«Che è questa storia?» domandò lui, rivolgendosi verso Guinevere. Arthuria lo fulminò con un’occhiata – cosa di cui lui sembrò accorgersi, perché esitò per un attimo, e parve trasalire.

«Aspetta aspetta aspetta!» esclamò frettolosamente Guinevere, dietro di lei – Arthuria sentì che si era rialzata in piedi, e che i suoi piedi avevano compiuto mezzo passo sul selciato dell’arena improvvisata in cui si tenevano quei combattimenti. «Credo che lei abbia inteso male. Non voleva mettersi in mezzo, Kay, abbassa l’arma, per favore.»

Arthuria spalancò gli occhi, e si voltò verso di lei, sconcertata al cogliere il significato di quelle parole. Dietro di sé, sentì Kay abbassare la lama, facendola strisciare per un solo istante contro la sua prima di ritrarla.

«A… Arith è nuova di qui.» disse Guinevere, mettendole una mano sulla spalla, e gettandole un’occhiata che le dava a intendere che dovesse reggerle il gioco. Solo in quel momento, Arthuria si ricordò che la donna della taverna aveva chiamato Guinevere con un nome diverso dal suo; sulle prime aveva pensato che fosse un’abbreviazione del nome vero e proprio, ma in quel momento si rese conto che Guinevere partecipava a quei tornei senza far conoscere la propria vera identità.

«Cioè, intendo che è nuova nel senso che ha iniziato da poco ad allenarsi.» proseguì Guinevere, rivolta a Kay. «Arith, per favore, abbassa la spada e lasciami spiegare.»

Arthuria sobbalzò, e fece come le veniva chiesto; iniziava ad essere conscia di aver creato una situazione scomoda, e di aver frainteso totalmente il gesto che Kay voleva fare nei confronti di Guinevere pochi attimi prima. In realtà, probabilmente l’ultimo dei suoi pensieri era quello di farle del male.

«Quindi?» domandò Kay, riponendo la spada nel fodero e incrociando le braccia al petto.

«Quindi, Arith ha iniziato da poco ad allenarsi, come ti sto dicendo.» proseguì lei, con un gesto eloquente della mano. «E deve essersi preoccupata per non avermi visto tornare a casa, e forse mi è venuta a cercare per questo. Quando ha visto che ero a terra e che tu stavi muovendo la spada verso di me, deve aver pensato che volevi attaccarmi e farmi fuori, e quindi ha pensato di intervenire per proteggermi. Giusto, Arith?» domandò Guinevere, rivolgendosi a lei.

Arthuria trasalì, e annuì freneticamente, rivolta a Kay.

«Ha capito male la situazione, non voleva intromettersi davvero.» disse ancora Guinevere. Arthuria la fissò, sorpresa da come sapesse adottare con facilità il linguaggio un po’ sgrammaticato e molto concreto dei villici.

Probabilmente veniva lì da tempo; probabilmente aveva rischiato la vita, o di essere ferita durante un combattimento, una miriade di volte, senza che né lei né Lancelot lo sapessero.

Perché non gliene aveva parlato? Almeno a lei. Erano amiche, no? Avrebbero dovuto raccontarsi tutto, non avrebbero dovuto esserci segreti tra di loro. Si fidava così poco di lei, da pensare che non sarebbe stata d’accordo?

Aggrottò lievemente le sopracciglia, quando si rese conto che, se Guinevere le avesse detto che voleva fare qualcosa del genere, lei avrebbe cercato in ogni modo di impedirglielo.

Forse Guinevere la conosceva anche troppo bene. Per quello non gliel’aveva detto.

«Sei venuta a cercare Gwin per portarla a casa, Arith?» domandò Kay.

Arthuria si voltò a fissarlo, e annuì, riponendo la spada nel fodero. «Ma mi sono preoccupata quando mi è sembrato che la stessi attaccando.» spiegò. «Non volevo mettermi in mezzo. Sono…»

«È molto spiacente.» la interruppe Guinevere, stringendole la spalla tra le dita e cogliendola alla sprovvista. «Scusate, per oggi io finisco qui.»

Kay annuì, con fare solenne, e raccolse la daga che aveva dietro di sé. «Fate attenzione a tornare a casa.» disse.

«Sicuro.» disse lei, annuendo e porgendogli l’altra daga con un sorriso affabile. Arthuria spalancò gli occhi al gesto, e lanciò un’occhiata a Guinevere, perplessa – ma lei, per tutta risposta, ricambiò e si voltò velocemente. «Vieni, Arith.»

Arthuria la seguì mentre lei si dirigeva verso la strada principale, imitandola nel non fare inchini di saluto, come invece era abituata con gli altri membri dei piani superiori.

Di nuovo, si ritrovarono in mezzo al caos delle taverne, tra militari e contadini che cantavano, e per qualche minuto anche tra l’andirivieni da e per quella che doveva essere l’arena dei tornei, da cui loro due si stavano allontanando.

Guinevere camminava davanti a lei, precedendola sulla strada e mostrandole la schiena dritta, e senza fare alcun cenno di volersi voltare a parlarle.

Arthuria abbassò lo sguardo, optando per seguire i suoi piedi sulla strada per tornare ai piani superiori. Malgrado l’avesse fatto in buona fede e con tutte le buone intenzioni, si era intromessa in qualcosa che era solamente di Guinevere, e di cui lei non avrebbe dovuto sapere nulla, esattamente come non avrebbero dovuto sapere Cassandra e Lancelot. Guinevere non le era parsa particolarmente irritata, quando lei era intervenuta a deviare il colpo di Kay; ma il fatto che non le stesse parlando mentre facevano la strada a ritroso era segno che ci fosse qualcosa che non andava. E quel qualcosa poteva essere solamente il fatto che lei si fosse immischiata, palesando, per di più, il fatto di averla scoperta.

La seguì fino a su per le scale che portavano al secondo cortile; arrivate in cima, Guinevere svoltò verso destra, e passò attraverso un arco stretto, che le condusse al corridoio delle sentinelle di quel piano.

Arthuria tornò a osservare la sua schiena, quando lei si fermò senza voltarsi. Aveva pensato che sarebbero andate spedite a casa; non aveva immaginato che Guinevere volesse deviare il percorso. Per cosa, poi?

La seguì con lo sguardo, mentre lei si arrampicava su una delle torrette che limitavano il corridoio, e vi si sedeva sopra, le gambe incrociate e le braccia tese perché le mani circondassero le caviglie – le ciocche di capelli uscite dalla crocchia che venivano agitate al vento, e gli occhi azzurri rivolti altrove, in un posto lontano.

Sempre distanti, quando non dovevano preoccuparsi per lei.

In quel momento, Arthuria fu colta da una sensazione che sentiva di non aver mai provato – una sensazione che le strinse la bocca dello stomaco, le fece stringere un pugno, la fece rabbrividire, e spinse la sua testa a chiedersi ripetutamente che cosa attirasse a quel modo l’attenzione di Guinevere, e perché quello che aveva fatto non fosse sufficiente ad entrare nei suoi pensieri, nemmeno in quel momento.

La lingua voleva muoversi ad articolare una frase con cui chiederle cosa stesse guardando di così interessante; la sua mente era tesa a cercare di capirlo senza le parole, per non disturbarla, per non risultare inopportuna, per comprendere senza dover per forza parlare, come Arthuria avrebbe voluto che fosse.

Capirla da un solo sguardo. Capire quello che pensava, quello che voleva dirle, quello che voleva fare, solamente da un gesto degli occhi, da un’espressione del viso, da un movimento della mano.

Rimase per quelli che le parvero attimi interminabili a osservarla cercando una parola da dire, un gesto da fare, la cosa giusta da pensare a proposito di quella situazione – e nel frattempo, la volontà di chiederle cosa ci fosse di così interessante in una landa desolata, e coperta dal buio della notte, martellava incessantemente il suo cervello, facendolo pulsare per la fatica di trovare qualcosa di alternativo da pensare.

Qualcosa che non fosse quell’assurdo pensiero per cui lei voleva Guinevere tutta per sé, e solamente per sé.

Voleva che i suoi sguardi fossero rivolti a lei anche in un’espressione diversa dalla preoccupazione; voleva che i suoi sorrisi non fossero di chi sospirava di sollievo al capire che lei stava ancora bene; voleva che Guinevere conoscesse qualche altro lato di lei, e che arrivasse a fidarsi di lei.

«Guinevere…» la richiamò alla fine, dopo quelli che probabilmente erano stati minuti – e che nella sua testa erano state ore insopportabili.

Guinevere si voltò, mostrando un’espressione che aveva del sorpreso.

E Arthuria sentì il proprio corpo rilassarsi, e la morsa allo stomaco allentarsi, al vedere i suoi occhi.

Incontrarli di nuovo era qualcosa di tranquillizzante.

Vederli di nuovo le fece capire che quelli erano gli occhi più belli, più luminosi e più sinceri dell’intero mondo.

Si rese conto solo dopo qualche istante di essere rimasta a fissarla e basta, senza riuscire a pensare a nulla se non a rimanere incastrata, occhi negli occhi. Spalancò i propri, e socchiuse per un attimo la bocca, esitando su cosa dire.

Voleva solamente attirare la sua attenzione.

Voleva solamente capire se ne era capace.

Era stato quello, il vero motivo per cui l’aveva chiamata.

E si era resa conto che ci riusciva. Che sapeva spingere Guinevere a mostrarle espressioni che non fossero preoccupate per lei.

Il suo cuore perse un battito, a quella realizzazione, per poi riprendere a battere con più forza – tanto che lo sentiva chiaramente, conto il petto.

«Io…» azzardò, abbassando lo sguardo per non risultare esageratamente stupida. Si massaggiò il retro del collo, imbarazzata, e cercò in ogni modo una via di fuga – ma la sua testa continuava a tornare ai suoi occhi, alla sua espressione, alla sua bocca semiaperta per la sorpresa, alla sua figura tesa per voltarsi a guardarla.

«Io… volevo…» biascicò Arthuria, cercando con tutte le forze di calmarsi, e sentendo invece le mani che stavano diventando scivolose per la preoccupazione di fare l’ennesima brutta figura alla quale Guinevere avrebbe avuto la definitiva conferma di doversi solamente preoccupare, per lei. «Volevo… Ehm…»

Colse con la coda dell’occhio il movimento che lei fece, per voltarsi e saltare giù dalla torretta, e rimanere in piedi a fronteggiarla. Indietreggiò lievemente, in preda al panico di averla così vicina – troppo vicina, in quel momento.

«Volevo…» azzardò di nuovo Arthuria, senza osare rivolgerle di nuovo un’occhiata. Esitò, e poi colse al volo il lampo di genio che le venne – il motivo per cui erano lì, e il motivo per cui l’aveva cercata, e tutto il resto. «Volevochiedertiscusaperessermiintromessa.» biascicò, talmente velocemente che per un momento non colse nemmeno lei il significato delle proprie parole. Respirò a fondo, spalancando gli occhi rivolti a terra, e cercando di articolare di nuovo la frase. «Prima.» le uscì di nuovo di bocca, senza che la sua testa riuscisse a riflettere molto. «Volevo… volevo chiederti scusa per… per essermi intromessa, prima.» riuscì a dire, più lentamente. «Ero… preoccupata per te, e sono venuta a cercarti, e quando ho visto che ti stava attaccando non so cosa mi è saltato in testa…»

Proteggerla. Aveva solamente voluto proteggerla. Aveva solamente sentito il desiderio di essere abbastanza forte perché lei non dovesse fare quello che stava facendo; aveva solamente provato la sensazione di doversi parare in mezzo, a costo della vita, purché lei non morisse.

Era una sensazione così banale, e così semplice, che aveva sempre provato. Ma perché sentiva che, invece, in quel momento era mista a mille altre sensazioni che non sapeva identificare, allora?

«Ti ha mandato Lancelot?» domandò Guinevere, pacatamente.

Arthuria sollevò lo sguardo nel suo, sorpresa. Non si era nemmeno resa conto di aver smesso di parlare ad alta voce, e che quello che stava parlando era solo il suo cervello.

«No…» rispose. «Voglio dire, era preoccupato, ma mi sono offerta io di…»

Guinevere sbuffò, distogliendo lo sguardo, le braccia incrociate e l’espressione che dimostrava esplicitamente il suo disappunto per la cosa. Arthuria si bloccò all’istante, senza andare oltre.

Che aveva fatto di male, ora? Cos’altro?

«Gli avevo detto di non seguirmi.» considerò lei. «Ovviamente ha avuto la brillante idea di chiederti di controllarmi.»

«No…» azzardò Arthuria. «Lancelot ha solamente…»

«Perché non siamo amici ancora da abbastanza anni perché capisca che sono capace di non ficcarmi nei guai, e che so cavarmela da sola, dato che mi alleno da tre anni con le armi. Saranno pure pochi, ma davvero non contano nulla, per lui?»

«Guinevere…»

«La vigliaccheria, dannazione! E poi osa dirmi che non è tra i suoi vizi!» proseguì lei, senza ascoltarla. «Pur di non disobbedirmi, manda te al suo posto, a cercarmi, mettendoti anche in pericolo, magari! Come se fossi chiunque

Arthuria spalancò gli occhi, colta alla sprovvista da quel commento. E Guinevere, fermandosi e guardandola, sgranò a propria volta i suoi.

Non voleva credere che quella perifrasi per dire che lei era l’erede di Uther fosse uscita dalla bocca di Guinevere: di tutti, aveva sempre pensato che lei fosse l’unica che davvero la considerava solamente come Arthuria, e con nessuno dei suoi titoli; di tutti, aveva sempre cercato di fare in modo che Guinevere la considerasse proprio in quel modo – era sempre stata l’unica di cui le importasse veramente che la vedesse per quello che era, e non per quello che rappresentava.

Il paradosso era che non aveva detto una cosa falsa – e anzi, forse proprio perché era la verità, faceva male.

Era solo perché era la verità? O era perché Guinevere vedeva quella verità, e solamente quella?

«Maneggio la spada da molto più tempo di te. Praticamente la tengo in mano da quando ho imparato a camminare.» disse, lo sguardo basso, e il pensiero fisso a quel dolore che provava, proprio lì, al centro del petto – era dove avrebbe dovuto esserci il suo cuore? Perché era proprio lì, che faceva più male? «Non considerarmi una sprovveduta qualunque che non sa badare a sé stessa.»

«N-Non volevo dire quello…» azzardò Guinevere.

Arthuria emise un suono di stizza. «No, certo. Volevi dire che siccome sono la figlia del re, sono da proteggere a tutti i costi.» disse. Sentiva il proprio tono velenoso; sentiva il desiderio di farle capire quanto stava male, e di farsi sentire dire che non era quello, ciò che lei intendeva. Eppure, non aveva nemmeno voglia di ascoltarla – il dolore al cuore, e quella frase che le martellava la testa, erano già abbastanza insopportabili; non poteva aggiungere anche la sua voce e i suoi tentativi di spiegare. «È così che mi hai sempre visto.» biascicò ancora, mettendo mano all’elsa della spada. «È questo, quello che io sono sempre stata per te. Solo la figlia del re, solamente la persona che un giorno avrebbe estratto Caliburn, e che sarebbe diventata re, e perciò da proteggere da eventuali congiure, anche con la propria stessa vita. Tu hai sempre visto solamente l’Arthuria che doveva diventare re. Come tutti.» proseguì. «E io che come una stupida ho sempre pensato che tu riuscissi a vedere oltre…!» aggiunse, estraendo la spada e sollevando lo sguardo nel suo.

La fissava, gli occhi spalancati, la bocca chiusa, l’espressione tesa.

Perché continuava a pensare che quegli occhi fossero meravigliosi, e che volesse farli tornare tranquilli, come la loro vista aveva calmato lei pochi minuti prima?

Gettò in un gesto furioso la spada a terra, assordandosi per un attimo col fragore della lama che si schiantava sulle pietre del corridoio.

«Non è stato Lancelot a mandarmi. Sono stata io a venire a cercarti, prima a casa tua, e poi per tutti i cortili del castello.» disse, freddamente. «Dovevo parlarti, perché ho raggiunto una conclusione, oggi, dopo aver parlato per la prima volta in quindici anni con mia madre.» aggiunse. La vide spalancare gli occhi, anche se un po’ in ritardo – evidentemente, dovette metterci un po’, per realizzare la cosa; esattamente come aveva dovuto fare lei quando aveva visto sua madre sulla torre.

«Puoi smettere di cercare di proteggermi, se è questo quello che stai facendo. Puoi smettere di preoccuparti per me. Puoi smettere anche di considerarmi la figlia di Uther.» disse. «Io non sono pronta per regnare sulla Britannia, e non lo sarò mai. Perciò non tenterò di estrarre Caliburn.»

La vide sgranare gli occhi più di quanto non fossero già spalancati. Sorpresa? Stupore? Sensazione di aver trascorso anni a considerarla come non voleva essere considerata? Senso di perdita?

Perché non riusciva a capirla da un solo sguardo?

Assottigliò gli occhi – non riusciva a reggere troppo il suo sguardo.

Distolse il proprio, con un gesto stizzito, e si voltò per andarsene.

Una parola. Forse sarebbe stata una sola parola, e lei sarebbe rimasta lì.

Ma Guinevere non disse nulla, e lei si diresse verso il castello nel silenzio della notte.

 

Personaggi e situazioni

Kay: nella storia originale, Kay era il figlio di Sir Ector, cui era stata affidata la custodia e l’educazione di Arthur(ia) insieme a Merlino, da parte di Uther.





Note dell'autrice:
Volevo dividere il capitolo in due parti, ma la seconda parte sarebbe venuta troppo breve. Perciò, eccovi un capitolo lungo. MOLTO LUNGO.
Scusatemi. ^^"
Per il resto, grazie a chi legge e a chi recensisce. Mi rendete felice. :3
Alla prossima!

  
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Fate Series > Fate/Stay Night / Vai alla pagina dell'autore: madychan