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Autore: simocarre83    21/07/2016    4 recensioni
Può una telefonata cambiare la vita di una persona? Dipende dalla telefonata. Il problema è che spesso non sappiamo quale sarà quella telefonata. Potessimo saperlo, la registreremmo per ricordarcela, o non risponderemmo neanche. Ma non lo sappiamo. E quando ce ne accorgiamo è troppo tardi e possiamo solo sperare che la vita cambi. In meglio.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ricordi1_1

1 – VIVO PER LEI

Ricordo ancora quel giorno come fosse ieri.

Era incominciato benissimo. L’ultimo giorno di scuola. Quello più bello. A quel tempo ero considerato un secchione; non che lo fossi. Me la cavavo. In tutte le materie. Sì, forse in educazione fisica qualche problemino, ma non grossi. Nulla che non si potesse risolvere in sede di scrutinio con gli altri professori. E ne uscivo sempre con un sette. Nonostante questa fama, anche per me quello era il giorno migliore dell’anno scolastico. Poi, che io avessi qualche motivo in più per essere contento, quello era logico.

Erano almeno due settimane che non facevo niente a scuola. Medie riposte in cassaforte, a parte fermarmi qualche pomeriggio per aiutare qualcuno dei miei compagni, chiunque avrebbe potuto accorgersi a fatica della mia presenza in classe.

Delle mie esperienze scolastiche in quel periodo ricordo solo una cosa brutta. Un “disprezzo” che mi ero portato dietro dall’inizio dell’anno precedente, da quando avevo incominciato le scuole superiori. Più di ogni altra cosa, odiavo essere considerato un “lecchino”. E purtroppo il mio carattere timido ed introverso mi spingeva ad essere gentile e affabile con chiunque avesse un minimo di autorità, fosse anche stata la bidella. Rispondevo con cortesia a tutti, facevo qualunque compito scolastico mi veniva richiesto, ma era solo buon’educazione. Non travalicavo mai il confine tra le buone maniere e la carineria sfacciata di chi vuole ottenere qualcosa in cambio dalle buone azioni che compie. Purtroppo non tutti i miei compagni comprendevano queste cose. E con l’andare del tempo qualcuno aveva anche incominciato a considerarmi, come dicevo, un “lecchino”. Ma poco mi importava.

Se c’era una cosa che a 15 anni avevo già incominciato ad imparare, purtroppo anche sulla mia pelle, era che gli amici possiamo sceglierceli solo noi, e nessuno può costringerci ad essere suo amico. Col tempo avevo capito che se certi miei compagni non si prendevano la briga di conoscermi e capire perché mi comportavo così, forse non meritavano la mia amicizia. Come risultato ero quel genere di ragazzo che di amici ne ha pochi. Pochi ma buoni. Anche quei due, tre compagni di classe che consideravo come tali, lo erano veramente. Gli altri? Se mi consideravano un lecchino, o un secchione, non potevo farci niente. Non si può cambiare la testa delle persone, se queste non lo vogliono. E forse a quei miei compagni di classe conveniva comportarsi così. Forse no. Forse ci provavano un certo gusto. Ma non mi importava più di tanto. Soprattutto quel giorno. L’ultimo.

Ben più importanti, per me, erano gli amici che consideravo tali. Per loro stravedevo. Sarei stato disposto a fare quello che era necessario pur di aiutarli. Sempre e comunque. L’unica cosa che non facevo, per nessuno, era scendere a compromessi con i miei principi, quelli morali con i quali ero stato educato dalla mia famiglia. Una famiglia un po’ strana, di certo diversa, ma una famiglia che mi stava crescendo nel migliore dei modi.

Nato a Milano ma non con quelle origini, a quasi tre anni persi mia mamma, e la mia famiglia cambiò definitivamente, da quel momento. Cresciuto con un padre solo, e con i nonni paterni per buona parte della mia infanzia, a 15 anni ancora non sapevo cosa significasse accusarne il colpo. Per me quella era una famiglia normale. Anche dopo che, qualche mese prima di quell’ultimo giorno di scuola, mio padre aveva sposato un’altra persona e dai due che eravamo, ci siamo ritrovati in sei, io con due fratelli e una sorella acquisita. L’unico risultato tangibile fu che, da quell’anno, cercai anche di trovare e mantenere un posto e un’identità in quella “nuova” famiglia.

Per me quella era una situazione normale, un po’ diversa ma che pur sempre rientrava nella normalità delle cose. Le giuste regole della casa mi fecero imparare le buone maniere, un buon comportamento, che però, ogni tanto, causa l’adolescenza nel pieno dei suoi anni, aveva bisogno di uno sfogo. Avevo ormai imparato a controllarmi per nove mesi. Poi, però, con la fine della scuola, sapevo che le cose avrebbero dovuto forzatamente cambiare. Così arrivava la mia valvola di sfogo.

Pochi giorni, quando non poche ore dopo la chiusura delle scuole, ero ormai abituato, da anni, a partire con i miei nonni verso la meta delle vacanze. I miei nonni avevano infatti avuto l’ottima idea, quando se ne andarono dal paesello di nascita (alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso), di acquistare una casa in un paesino vicino, non più in collina, come Pisticci, in provincia di Matera. Ma al mare, in un piccolo paese ad una trentina di chilometri dall’altro. Il paese si chiama Policoro. Sempre in provincia di Matera. E dopo trent’anni era diventata una città di diciassettemila abitanti, a tre chilometri dal mare, nel pieno della riviera del Metapontino.

Quello che, per molti altri, compresi alcuni miei parenti, era solo un paesino sperduto dove niente e nessuno avrebbe avuto mai un interesse ad andarci, per me, che ci passavo mediamente due mesi e mezzo ogni anno, costituiva la perfetta valvola di sfogo.

Il mare tutti i giorni, i giochi, gli amici, veri amici, il sole e tutto quanto nella mia mente di quindici anni avesse potuto rappresentare il massimo per una vacanza; ecco, quella era la mia valvola di sfogo. Così, a parte i principi, quando ero a Policoro mi divertivo come un matto, me la prendevo comoda, passavo tutte le sere con i miei amici, e da almeno un paio d’anni a quella parte anche con le mie amiche, in modo sempre più interessato alle amiche e disinteressato agli amici. A quindici anni si può ancora credere che le due cose debbano necessariamente viaggiare separate.

Almeno fino all’anno precedente le cose erano andate così. Poi quell’anno era successa una cosa. Che mi aveva fatto ritornare bambino a Policoro. Quell’anno, quel giugno, a Policoro sarei sceso solo per gli amici. Non più per le amiche.

Perché a Milano, nella primavera precedente, era successa una cosa che mi aveva fatto perdere l’interesse nei confronti delle amiche, completamente soppiantato, sotto quel punto di vista, dall’interesse nei confronti di un’unica persona. A Milano, della mia stessa età, molto più bella di qualunque altra persona potessi mai aver visto in vita mia. Visto e apprezzato.

Ma di Maria vi parlerò più tardi.

Quell’estate, quindi, un po’ mi dispiaceva lasciare Milano. Sapevo che ci saremmo potuti sentire quando e come volevamo. Però non sarebbe certamente stata la stessa cosa.

Era così finito quell’anno scolastico. Il giorno seguente sarei partito per Policoro. Prenotazione già effettuata, solo poche ore e avrei fatto valere il mio diritto di viaggiatore sul treno che mi faceva, dopo 12 ore di estenuante viaggio, scendere alla stazione di Policoro.

Addio Milano! Addio famiglia acquisita! Addio, anzi no, Arrivederci Maria! E tanti saluti.

Quell’anno, mi ero impegnato anche con le ripetizioni a ragazzini più piccoli, di matematica e scienze, mettendo da parte un po’ di soldi che sarei stato felice di usare, quella sera stessa per un cellulare, e nel corso di tutte le vacanze per divertirmi e svagarmi con i miei amici.

Scoprii che, almeno per quanto riguardava il cellulare, non ce ne sarebbe stato bisogno. Appena arrivato a casa, dopo essermi riposato, fu mio padre, in nome suo e di mio zio, a regalarmi un cellulare. Pregustai, subito, la spesa ingente in ricariche telefoniche per telefonare a Maria, che avrei volentieri consumato. Con Maria mi ero sentito e salutato poche ore prima. Ma, anche solo per la necessità di darle il nuovo numero di telefono, decisi di inaugurarlo con due chiamate.

Una, la prima, a Lei, ovviamente.

La seconda alla persona alla quale tenevo più di tutte a Policoro. Ad un vero Amico. A Giuseppe.

Credo che, per cominciare, vi abbia detto tutto il necessario.

Tranne forse una cosa della quale spesso mi scordo, quando mi capita di parlare ad altri di me: mi chiamo Simone.

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Eccoci di nuovo qui. qualcuno (ma non molti) potrebbe chiedere: "Ma perché prima la metti, poi la cancelli, poi la rimetti?". Presto detto: ufffff!! questo è quanto.

Chiunque di voi leggesse questa storia per la seconda volta, mi farebbe piacere ricevere un vostro parere.

Per tutti gli altri... beh... mi farebbe piacere ricevere un vostro parere.

  
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