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Autore: Collyn    28/07/2016    1 recensioni
Cara non sa molte cose: quale sia il vero viso di sua madre, ad esempio, o se quella in cui vive ora sia davvero casa sua o soltanto l'ennesima sosta di pochi mesi prima che suo padre la costringa a fare le valigie e partire di nuovo, verso mete sempre più lontane. Ma ci sono due cose che sa con assoluta certezza: la prima è che ha amato Haley, l'ha amata davvero; la seconda è che, con ogni probabilità, è stata proprio lei ad ucciderla.
Will, al contrario, sembra avere tutta la sua vita sotto controllo. Nella sua ordinarietà, sa bene qual è la quantità giusta di cibo da mangiare per non essere considerato troppo anormale, il numero esatto di passi che da casa sua deve compiere fino al bar in cui lavora prima che la voglia di andarsene prenda il sopravvento e il limite di sigarette da fumare a settimana per evitare di prendersi il vizio.
Ma ci sono sicurezze che bisogna essere disposti a perdere, soprattutto quando anche la certezza di vivere inizia a vacillare. Perché Cole, al contrario, è sicuro di una cosa soltanto: è disposto a tutto pur di vendicare la morte della sorella.
Genere: Drammatico, Mistero, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza | Contesto: Contesto generale/vago
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"I can't save us, my Atlantis, we fall
We built this town on shaky ground
I can't save us, my Atlantis, oh no
We built it up to pull it down"

Atlantis - Seafret
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Solitamente nei film durante i funerali piove sempre e le persone si radunano intorno alla tomba con i loro grandi ombrelli neri e gli occhi che dicono "Ho conosciuto questa persona, l'ho amata, ma questo non è bastato a tenerla in vita". Solitamente è così, ma questa è la realtà. Questo non è un film e il cielo non piangerà, oggi. Questo non è un film e tutto ciò a cui riesco a pensare è "Ho conosciuto questa persona, l'ho amata e forse è stato questo a trascinarla sotto terra".

Quando la gente comincia a dileguarsi, capisco che la cerimonia è terminata. Posso tornare a casa. Mi avvicino alla tomba e gli sguardi di tutti si posano automaticamente su di me, mentre i loro pensieri mi pesano su ogni arto, su ogni cellula, in ogni goccia di sudore che mi cola sulla fronte. Piccole pietre appuntite mi si conficcano nelle ginocchia quando mi inginocchio sul bordo della tomba per sistemare le piccole margherite che ho raccolto lì attorno. Le poso piano, una per volta. Non c'è bisogno di fare in fretta.

Distanzio i fiori, ma non mi piacciono gli spazi vuoti tra uno e l'altro, così cerco di riavvicinarli. Per un momento penso di allontanarmi per coglierne altri, ma cambio subito idea. Ho paura che, se mi allontanassi, anche quest'ultima sfumatura che mi è rimasta di lei svanisca per sempre.

Il sole sta tramontando proprio di fronte a me, illuminando il retro della lapide e lasciando che il suo sorriso nella foto si oscuri leggermente. L'erba ne accoglie i raggi, come a cercare di assorbire più colore possibile per prepararsi all'oscurità imminente, mentre il silenzio è interrotto ogni tanto dal sussurro di una preghiera o dal pianto di quello che non sarà mai veramente un ultimo addio. Nonostante la serenità, riesco a respirare la disperazione ovunque mi giri, una morte smussata agli angoli e addolcita dai sorrisi sbiaditi di amori che hanno ormai perso il loro calore.

E non mi alzo quando le ultime persone presenti si allontanano, lasciando sulla tomba qualche fiore. Non mi alzo, neanche quando le ginocchia iniziano a farmi male, neanche quando l'aria comincia a farsi pungente, non mi interessa.

Poi, all'improvviso, l'ambiente inizia a sfumare, come se questa strana fotografia fosse stata immersa di colpo in un forte acido. I colori colano e scivolano via come da un dipinto ad acquerelli e tutto si fa così confuso che a malapena distinguo i contorni di ciò che ho intorno. Lo scenario sta cambiando. Intorno a me, l'azzurro del cielo lascia il posto al colore più scuro di quattro pareti, che mi chiudono all'interno di uno spazio che ho già avuto modo di conoscere. Sono stesa su un letto a due piazze, con le lenzuola colorate e decorate con ogni tipo di fiore di cui non conosco il nome, ma non sono affatto sola; davanti a me, infatti, qualcuno dorme immobile.

Haley.

Vorrei avere abbastanza voce per pronunciare il suo nome ad alta voce, ma non me la sento e lei continua a dormire. Mi dà la schiena e nel buio fatico quasi a distinguere il punto esatto in cui i suoi capelli si confondono con la federa del cuscino. Ho le dita fredde, temo che, se ora la accarezzassi, lei si sveglierebbe, quindi non mi muovo. Nel frattempo, nella mia testa non ho ancora smesso di pronunciare il suo nome, assaporandone parzialmente il suono e desiderando sempre di più di lasciarlo scontrarsi fra i miei denti, cosa che, di conseguenza, mi rende insoddisfatta.

Mi alzo e rabbrividisco quando i miei piedi nudi si scontrano con il pavimento freddo, mentre con lo sguardo cerco la felpa grigia che ricordo di essermi tolta la sera prima. Il parquet è nascosto sotto numerosi resti di vestiti abbandonati disordinatamente a terra, mentre le superfici della scrivania, del comodino e della libreria sono ricoperte da libri di ogni tipo, sia chiusi che aperti, come se il desiderio di consultare il loro sapere fosse troppo grande per essere soppresso. Una luce soffusa proviene dall'abat-jour vicino alla radiosveglia ed illumina appena il viso dormiente della ragazza al mio fianco, coperto parzialmente dai capelli scuri; di esso distinguo a malapena le labbra piene e la linea scura delle ciglia abbassate, che le sfiorano delicatamente le guance.

Poi, così improvviso da farmi sussultare, un tocco mi distrae, debole come una carezza, ma senza lo stesso calore. Lo sento, ma non lo percepisco appieno, come se i miei sensi fossero imprigionati all'interno di una palla di vetro sottile ed infrangibile. Ed ecco che un respiro mi accarezza piano l'orecchio, con una delicatezza che però mi sembra estranea.

"Che rumore fa la verità?" sento pronunciare da quel fiato caldo, che ancora mi colpisce nello stesso punto insensibile.

Un movimento troppo veloce mi stordisce e a malapena mi rendo conto di due mani che mi afferrano gli avambracci con forza, perché in un battito di ciglia mi ritrovo di fronte ad un viso fin troppo familiare. La testa gira veloce quando ne riconosco i tratti, resi ancora più spaventosi dalla luce soffusa che rischiara a fatica la stanza.

"Cole..." sussurro appena, con la bocca che si apre con difficoltà, come se la lingua e il palato fossero incollati fra di loro. Lui sorride al mio richiamo involontario, come se il solo fatto di sentirmi pronunciare il suo nome lo compiacesse nel profondo, mentre nei suoi occhi una piccola scintilla di follia divampa pian piano. Poi una spinta, forte ed indolore, mi sorprende nel momento esatto in cui la mia schiena tocca il duro materasso, tanto che il fiato si mozza per un secondo. Stordita, guardo il soffitto per un po', aspettando un colpo di grazia che non arriva mai.

Allora mi giro.

Haley riposa immobile, come se quel breve scontro non avesse minimamente intaccato il suo sonno. Con mano leggera, affondo le dita fra i suoi capelli scuri che si aprono a ventaglio davanti al mio viso, facendole scorrere avanti e indietro in una sorta di carezza incontrollata, mentre distrattamente lascio vagare il mio sguardo sulla sua figura, dalla linea morbida dei suoi fianchi fino alle gambe piegate. Profuma di miele e vaniglia, un odore leggero e quasi impercettibile che mi ha sempre dato alla testa.

Un oggetto estraneo, tuttavia, raggiunge il mio palmo, interrompendo lo scorrere del mio sguardo e delle mie fantasie; così, con la fronte aggrottata, avvicino piano la mano al viso, ignorando tutto il resto. Fra l'indice e il medio, un piccolo fiore con i petali piegati, forse a causa della mia stretta, fa la sua apparizione, facendomi spalancare gli occhi. È una margherita.
Sbatto le palpebre, veloci quanto il battito d'ali di una farfalla, e solo ora che riesco a mettere a fuoco la realtà che mi circonda mi rendo conto che Haley, immobile e rannicchiata su se stessa sulle lenzuola spiegazzate, non sta affatto dormendo. Non sta dormendo perché, semplicemente, non sta neanche respirando.

Una realtà di cui non avevo tenuto conto mi raggiunge, spaventosa come un fulmine troppo vicino, ma senza che il cielo possa avvisarmi prima del suo arrivo. È un silenzio che mi prende all'improvviso nel rumore troppo forte del sangue che mi scorre velocemente nelle vene, delle particelle invisibili che si spostano nell'aria, del respiro inesistente nei suoi polmoni vuoti. Ed è assordante.

"Che rumore fa la verità?"

 

*****

 

Mi fa male la testa. In realtà, non è la sola cosa che mi fa male, ma la velocità con cui questo martellio insopportabile colpisce il mio cervello, proprio dietro gli occhi, mi fa quasi dimenticare tutto il resto.

Aggrotto la fronte, o almeno ci provo. Sento la luce forte raggiungermi anche attraverso le palpebre abbassate e dei rumori indistinti e ovattati penetrare oltre la mia barriera di incoscienza. Acuisco i miei sensi quanto più possibile, cercando di capire dove mi trovo, ma i pochi rumori che sento sono troppo distanti per essere in qualche modo riconosciuti, o forse sono io che sono ancora troppo stordita per comprenderli.

La forza che devo impiegare per riuscire ad aprire gli occhi è sfiancante, ma è come se, in qualche modo, sentissi di doverlo fare, in una sorta di sveglia silenziosa che mi ricorda che devo alzarmi, che sono in ritardo. Provando a muovere le dita, sento l'intorpidimento che mi raggiunge gli arti con un formicolio, mentre la luce del mondo reale mi fa bruciare gli occhi fra le palpebre leggermente appiccicose a causa del sonno appena abbandonato.

"Tesoro..." sento all'improvviso pronunciare, quasi in un sospiro trattenuto. Quel suono, però, non fa altro che aumentare il ritmo dei rimbombi nella mia testa, facendo piegare la mia bocca in una specie di broncio.

Lentamente, giro la mia testa verso la fonte di quella voce, mentre la vista cerca ancora di mettere a fuoco ciò che mi circonda, ma tutto ciò che riesco a distinguere è il biancore di un lenzuolo, di un muro e di un viso dai tratti familiari. È quasi ironico il fatto che, in questo malessere, io mi trovi circondata proprio dal colore che ho sempre odiato di più. Una carezza fredda mi sfiora pianissimo la guancia, dandomi una sorta di sollievo momentaneo; appena mi rendo pienamente conto di quel tocco, però, la velocità con cui provo a ritrarmi mi strappa un gemito di puro dolore.

"Scusa" dice allora quella stessa persona, con una nota realmente mortificata nella voce. "Non volevo spaventarti."

Il mio sguardo è ancora rivolto verso di lui e, pian piano, tutto inizia a farsi più nitido, dalla forma un po' allungata degli occhi, così simili ai miei, alla barba permanentemente sfatta. Gli occhiali gli sono caduti sulla punta del naso, come se, addormentandosi, si fosse dimenticato di toglierli, mentre la bocca è stretta in una linea sottile, trattenendo forse troppe parole che vorrebbe dirmi.

"Papà" pronuncio appena con voce roca e strascicata, per poi provare ad alzarmi con il busto dal letto.

Una sua mano mi afferra con delicatezza il braccio, spingendomi di nuovo nella precedente posizione. "Non sforzarti, stai giù" dice. "Non riesci mai a stare ferma. È così da quando eri piccola."

"Ti tengo in forma" dico allora io, ridacchiando appena e ignorando a fatica il dolore che mi prende le costole.

"In forma? È un miracolo se per colpa tua non mi sono già preso un infarto."

Nonostante la sua risata, nulla mi distrae dalla visione dei suoi occhi, che, pian piano, si fanno lucidi, forse impregnati dalle mille immagini che, se fosse andata male, temeva di perdere per sempre. È una sorta di sollievo malinconico, una sensazione che non capisco appieno, ma che risveglia fra i miei ricordi una serie di immagini che speravo, illudendomi, di aver già rimosso. Le ripercorro velocemente, aggrappandomi al dolore e alla paura provati, le uniche emozioni che riescono a collegarmi davvero alla realtà di questo momento. Perché certe cose marchiano, anche se non le vediamo, anche se non vediamo la loro mano entrarci dentro e spegnerci una sigaretta sul cuore. E allora un assaggio non ci basta, abbiamo bisogno di averne sempre di più, in quantità sempre più grande, finché la sensazione data dall'ustione non diventa quanto di più normale possiamo avere. E questa, per me, è ormai normalità.

È il leggero cigolio della porta che si apre a distrarmi, seguito subito dopo dalla voce stridula di quella che capisco essere la dottoressa, che, vedendomi sveglia, sorride appena. "Finalmente ti sei svegliata."

Pronuncia queste parole con una delicatezza fin troppo controllata, quasi come se io fossi un gattino ferito e lei avesse paura di spaventarmi. Immagino che sia proprio questa l'impressione che devo dare alle persone in questo momento.

"Come ti senti?" mi chiede, raggiungendo i piedi del mio letto.

Come dovrei sentirmi? Sto cadendo a pezzi.

"Un po' dolorante" rispondo però, cercando anche di farle un mezzo sorriso. Più che dolorante, mi sento completamente rotta.

Lei si avvicina ancora, sorridendo sempre di più man mano che avanza verso di me. Come se ci fosse un motivo per cui sorridere. Tira velocemente fuori una pila dal taschino del suo camice, liberandomi per mezzo secondo dal peso del suo sguardo fisso sul mio viso. È quasi inquietante. Faccio appena in tempo a sperare che non mi punti quella luce negli occhi che il clic della pila mi coglie di sorpresa. D'istinto, socchiudo gli occhi, ancora poco abituati alla luminosità, ma alle sue parole di ammonimento li apro meglio, sperando che questa specie di tortura finisca prima che inizino a lacrimare.

"Segui la luce" mi dice, continuando a spostare la pila da una parte all'altra. Finita quest'operazione, torna dritta e sorridente, lasciandomi con la vista appannata a sbattere le palpebre come un'idiota.

"Rispondi bene agli stimoli, il che è un bene. Sei fortunata: il naso non è rotto e le costole sono solo incrinate, ma, purtroppo, non possiamo fare molto. Il labbro superiore, invece, è spaccato e gonfio e hai un'emorragia sottocongiuntivale all'occhio destro, anche se non dovrebbe crearti problemi alla vista o di dolore; passerà da sola nel giro di un paio di settimane."

Sei fortunata. Fortunata ad essere viva, fortunata ad essere stata solo picchiata e quasi affogata. Eppure, nonostante io stessa capisca che sarebbe potuta finire molto peggio, faccio comunque fatica a capire cosa esattamente, in tutta questa situazione, mi renda fortunata. Il fatto che il mio naso non sia rotto? Che Cole non sia riuscito ad ammazzarmi? Che non dovrò passare più altro tempo fra i muri deprimenti di questa stanza, stando relativamente e fortunatamente bene? Perché, sinceramente, non trovo che ci sia nulla, in questo momento, che sia dalla mia parte, figuriamoci questa controversa fortuna che lei ha appena chiamato in causa.

Rimango in silenzio, la testa persa in pensieri malsani e fin troppo duri, recependo a malapena le parole che escono dalla bocca di mio padre e della donna ancora di fronte a me. In questo momento più che mai vorrei essere sola. Soltanto me e i miei pensieri, in una realtà lontana dalla notte appena trascorsa, senza le carezze inusuali e le parole dolci di una versione di mio papà troppo lontana da quella reale, senza la compassione e le vuote parole di conforto di persone che, se tutto questo non fosse successo, probabilmente non avrei mai conosciuto.
Sento la voce di mio padre raggiungermi quando la porta si richiude dietro la figura della dottoressa, ma le parole arrivano confuse e distorte. Incomprensibili.

"Cosa?" chiedo.

"Ho detto che ti ho portato dei vestiti e di cambiarti, così possiamo andarcene. Io, nel frattempo, vado a prenderti qualcosa da mangiare: non tocchi cibo da quasi due giorni."

I suoi occhi non hanno ancora perso quella dolcezza e delicatezza così strane, così lontane dalla persona che ho ormai imparato a conoscere. Annuisco appena, indirizzando lo sguardo verso gli abiti che ha appoggiato sul letto, senza metterli a fuoco, finché il rumore della porta che si chiude non riempie l'ambiente intorno a me, facendomi sospirare.

Scosto le lenzuola bianche dal mio corpo e, in questo semplice gesto, sono numerosi i lividi scuri che mi saltano agli occhi come ammaccature su una mela, sia sulle braccia che sulle gambe ormai scoperte. Rabbrividisco non appena il calore della coperta mi abbandona e, stringendo i denti, provo ad alzarmi; un fortissimo dolore al torace, tuttavia, mi colpisce nel solo gesto di sollevare il busto, mentre le gambe urlano pietà quando mi ritrovo finalmente in piedi.

Mi vesto molto lentamente, emettendo delle smorfie o dei versi di dolore ogni tanto. Non si può dire che mio padre abbia prestato particolare attenzione agli abiti da prendere, anzi, direi che non ne ha nemmeno controllato le condizioni; mi ritrovo costretta ad indossare, infatti, un paio di larghi pantaloni della tuta sbiaditi che a volte utilizzo per dormire e una camicia a quadri vecchia e sfilacciata, con due bottoni saltati in prossimità dell'ombelico, ma abbastanza lunga da coprire un piccolo buco che si era aperto, tempo fa, proprio sul retro dei pantaloni. Il risultato finale è totalmente disastroso, tanto che, se io stessa mi vedessi per strada, probabilmente mi confonderei per una senzatetto.

"Mi piace il tuo look. Decisamente provocante."

Al suono di questa voce, immediatamente mi giro, non capendo perché io non abbia sentito il rumore della porta che si apriva, né i passi dell'intruso. Sulla sedia su cui prima stava mio padre, un ragazzo è seduto comodamente, con le mani ossute abbandonate sul ventre e le gambe allungate, come se si sentisse completamente a suo agio in questa situazione. I capelli, scuri e leggermente spettinati come se si fosse appena svegliato, faticano a coprire gli occhi, attraversati momentaneamente da un bagliore a malapena visibile, mentre un sorrisetto appena accennato gli abbellisce il viso.

"Chi ti ha fatto entrare?" gli chiedo sorpresa ad alta voce, provvedendo il più velocemente possibile e chiudere gli ultimi bottoni della camicia.

Lui alza le spalle. "Nessuno. Mi piace prendermi le libertà che voglio."

Lo fisso per infiniti secondi con gli occhi spalancati, domandandomi da quanto sia qui e, soprattutto, cosa esattamente abbia visto di quello spettacolo di spogliarello involontario. Non che solitamente sia dotata di molto pudore, ma il fatto è, più che altro, che mai come ora mi sono vergognata del mio corpo, la pelle maculata come quella di un dalmata.

"Oh, non preoccuparti" dice, come se mi avesse letto nel pensiero. "Non sono qui da molto. Avevi già la camicia quando sono entrato: una fortuna per te, ma una sfortuna per me."

"Che ci fai qui?" gli chiedo allora senza troppi giri di parole, cercando di ignorare il rossore che, lentamente, mi sta prendendo le guance.

Ridacchia appena per il mio tono brusco, cosa che fa crescere ulteriormente la mia diffidenza nei suoi confronti: sotto quegli occhi mi sento come una rara specie animale dietro una gabbia dello zoo, di fronte a decine di spettatori muniti di macchine fotografiche, pronte ad accecarmi con i loro flash improvvisi.

"Dato che sono stato io a salvarti la vita, volevo vedere con i miei occhi come stavi. Le persone la chiamano cortesia, di solito." risponde con tono tranquillo, guardandosi intorno con aria curiosa, come se non avesse mai visto una stanza d'ospedale.

"Oh" mi limito a pronunciare con un sussulto incontrollato, mentre il ricordo della sua parte in questa specie di spettacolo malato inizia a farsi strada dentro di me in modo sempre più prepotente, sgomitando ogni altro pensiero. "Io... Beh, grazie."

"Beh, grazie? Sul serio?" mi riprende, scimmiottando, insieme alla mia voce, anche altri versetti precedentemente usciti dalla mia bocca e facendomi immediatamente sbuffare.

"TI ringrazio per quello che hai fatto. Infinitamente. Mi hai salvato da morte certa" riprendo allora a parlare stizzita, ascoltando con attenzione la mia voce monocorde e controllata, mentre i suoi occhi non smettono un secondo di studiarmi con interesse. "Ma non ho bisogno della tua pietà, quindi preferirei che entrambi tornassimo alle nostre vite. Grazie per la visita, grazie per l'interessamento, ma ora vorrei che tu te ne andassi, per favore."

"Devi essere incredibilmente forte o incredibilmente ingenua per pensare che, dopo tutto questo, la tua vita rimarrà la stessa."

Questa volta, il suo volto ha totalmente perso l'ombra di quel mezzo sorriso che prima lo colorava, seppur di poco. Ora i suoi occhi sono serissimi e, nonostante il colore chiaro, così scuri da sembrare neri.

"Non ho bisogno di uno psicologo, né tantomeno dei pareri non richiesti di una persona che non conosco e che spera di riuscire a psicoanalizzarmi" rispondo con falsa indifferenza. Eppure, nonostante la mia voce ostenti sicurezza, dentro di me vorrei urlare, piangere, fare tutte quelle cose che qualsiasi persona normale, nella mia situazione, avrebbe già dovuto fare.

La mia risposta sembra suscitare il suo divertimento, lasciandomi stranita per la velocità dei suoi cambi d'umore così frequenti. Si alza in piedi con grazia, la testa alta e fiera come quella di un leone, e, lentamente, si dirige verso di me, bloccandosi a circa un metro di distanza. Ora che è più vicino, posso notare quanto la sua altezza mi sovrasti e, soprattutto, quanto sia magro: le braccia, lasciate scoperte dalle maniche corte, sono sottili, con le vene in rilievo che le percorrono fino alle mani grandi, mentre le gambe sono troppo magre per i suoi jeans scuri e le guance, leggermente scavate, creano delle ombre leggere sotto i suoi zigomi.

"Sai, c'è un dubbio che mi stuzzica il cervello da qualche ora" inizia a parlare, socchiudendo appena gli occhi chiari. "Insomma, perché una ragazza come te avrebbe dovuto trovarsi in un parco del genere di notte, se non per seguire una richiesta? È improbabile, dato che vi eravate abbastanza inoltrati, che lui ti abbia trascinata di peso e, anche se ti avesse aggredita lì, questo non spiega il perché ti ci trovassi."

Da questa distanza, posso finalmente definire il colore dei suoi occhi: una tonalità che varia fra l'azzurro e il verde acqua e che mai ho visto in nessun'altro. Un colore tanto bello quanto inquietante.

"Quindi ecco la domanda: tu lo conoscevi" termina, appoggiandosi al letto dietro di sé e incrociando le braccia al petto. Nonostante l'abbia presentata come una domanda, il suo tono è tutt'altro che interrogativo, come se una mia risposta affermativa fosse solo la prova del nove per confermare le sue sicurezze.

Sto perdendo la calma, me ne rendo conto perfettamente. Il nervosismo sta prendendo il controllo dei miei pensieri, mentre i miei gesti sono soffocati dalla rabbia, rigidi e veloci. Nonostante questo, però, lui sorride fastidiosamente, come se io fossi il suo spettacolino preferito, un burattino che si sta esibendo esclusivamente per il suo divertimento.

"E tu? Non c'è nessuna ragione che giustifichi la tua presenza lì, in quel momento. Proprio come ti sei premurosamente sentito in dovere di puntualizzare, ci eravamo inoltrati troppo ed è improbabile che tu mi abbia sentito urlare dalla strada."

Lui butta fuori il respiro velocemente in quella che capisco essere una piccola risata, anche se non riesco a dire se la situazione lo diverta sul serio o se stia solo ostentando sicurezza. "Molto furba, ma non si risponde a una domanda con un'altra domanda, è maleducazione" se ne esce allora, inclinando la testa da un lato come un cane. Sì, proprio come un fottuto cane che non capisce.

"Perché, entrare in una stanza senza bussare mentre una ragazza si sta cambiando e assillarla con domande inopportune e fastidiose non equivale, nel tuo vocabolario, a maleducazione?"

Mentre pronuncio queste parole, mi avvicino inconsapevolmente con passi piccoli e lenti, ignorando il dolore alle gambe, che ancora mi sorprende come se i pugni li stessi ricevendo ora, e alzando la testa per riuscire a guardarlo negli occhi e dimostrargli che, nonostante tutto quello che è successo, non mi intimorisce affatto. Lui, man mano che io avanzo, si allontana sempre di più, indietreggiando verso la porta a ritmo dei miei passi. Non riesco leggere alcuna emozione sul suo viso oltre a quella maschera di indifferenza, ma la sua ritirata mi fa capire una cosa in più su di lui: non ama la troppa vicinanza, anche se non so se sia la mia in particolare ad infastidirlo o se sia un rifiuto che riguardi in generale ogni persona.

"Sai, Cara non ti si addice come nome. Ti starebbe meglio, non so, un nome tipo Cass" pronuncia, continuando a battere in ritirata verso la porta. "Cara è una ragazza tranquilla, che fa danza classica e suona il pianoforte. Cass si fa quasi ammazzare in un parco per motivi di vendetta personale."

Mi blocco. Già la sua precedente affermazione aveva fatto annidare in me diversi dubbi, ma ora capisco che le alternative possono essere soltanto due: o è incredibilmente intelligente o sa qualcosa che non dovrebbe sapere. E, per quanto mi infastidisca anche solo ipotizzarlo, l'espressione compiaciuta che gli si dipinge sul viso in risposta al mio stupore mi rende più facile pensare che sia la prima. Inoltre, io non ricordo assolutamente di aver mai conosciuto o anche solo visto questo ragazzo, quindi non avrebbe senso pensare che sappia. L'unica cosa che non riesco proprio a capire, però, è il motivo di questo suo fastidioso interessamento nei miei confronti.

Prima che io possa anche solo chiedergli spiegazioni, però, la porta si apre proprio dietro di lui, che si scosta velocemente per far entrare mio padre. Quest'ultimo indirizza immediatamente il suo sguardo verso il ragazzo, ma, al contrario di quanto pensassi e forse sperassi, non con diffidenza o dubbio; appena i loro occhi si incontrano, infatti, un sorriso di gratitudine nasce in modo spontaneo sul viso dell'uomo che mi ha cresciuta, lasciandomi basita: deve esserselo lavorato per bene prima che mi svegliassi, raccontandogli del suo eroico gesto nei miei confronti.

"Andiamo, Cara, dobbiamo andare alla stazione di polizia. Mangerai il tuo panino in macchina."

Annuisco con veemenza, seguendolo fuori da quella stanza che spero di non rivedere mai più, oltre questi corridoi così soffocanti, al di là di questo insopportabile odore di disinfettante, così forte che sembra che i muri ne siano impregnati. E, soprattutto, lontano dalle domande incomprensibili di quel ragazzo così strano, di cui mi rendo conto solo ora di non conoscere nemmeno il nome.

  
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