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Autore: thebrightstarofthewest    03/08/2016    4 recensioni
Bloccata in soffitta per una sfortunata serie di eventi, Patti ripercorre, grazie a delle foto, la sua storia con Bruce. Nel bene e nel male, nell'amicizia e nell'amore, nei litigi e nelle riappacificazioni.
Sì, sono tornata a scrivere di questi due, alla fine. Impossibile resistere.
"In quella foto c’era lei. Di spalle, girata verso l’obbiettivo, sorrideva, appena imbarazzata… conosceva quello scatto. Non si trattava di uno qualsiasi. No, quel ritratto lo aveva fatto Bruce. Il suo petto fu come riempito da una strana sensazione, un nodo a cui non riusciva a dare un nome: che fossero i ricordi? Quasi si commosse, in quella polverosa penombra. Si concesse di lasciare che quelle lontane memorie fluissero…"
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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2. A Sky Full of Stars
 

'Cause you're a sky, you're a sky full of stars,
I wanna die in your arms
'Cause you get lighter the more it gets dark
I'm gonna give you my heart


Casa Springsteen, New Jersey, 2015, ore 9:51
Patti si mise in ascolto, sperando di udire il ronzio familiare del motore dell'auto di Bruce, ma nessun suono incontrò le sue orecchie. Sospirò profondamente: d'altronde lo sapeva, ancora era troppo presto, ancora non sarebbe potuto arrivare. Cercò di sedersi più comodamente sul pavimento polveroso, ma una fitta di dolore lancinante alla caviglia le fece cambiare idea. Merda.
Non poteva far altro se non sfogliare tra le foto, ancora una volta. Stava cominciando a prenderci gusto, d'altra parte. Ne prese una tra le dita sottili, datata 1984, e che subito la fece scoppiare a ridere: era lei, che, con un'espressione buffa e sfrontata, indicava la propria maglietta, una sorta di sacco spiegazzato con stampate le parole
Broadway Motors sopra. Ricordava bene la storia di quella maglietta e, a dir la verità, era molto meno divertente di quanto spesso non raccontasse...

St. Paul, Minnesota, 1984
Una delle prime cose che i ragazzi della band le avevano detto era stata una sorta di affermazione al tempo stesso ironica e divertente, ma velata da un senso di inquietudine che Patti non riusciva proprio a scrollarsi di dosso. Forse lo percepiva solo lei ed, in fondo, forse non c’era ragione di preoccuparsi. Forse. Ciononostante, quelle parole continuavano a ronzarle per la testa, come un mantra, una preghiera, una voce ammonitrice che non la lasciava mai, mai andare.
“È inutile”, aveva esclamato Clarence, il sassofonista, alla prima cena di presentazione della band, ridendo con quella fila perfetta di denti bianchi, “Per quanto tu ci provi, non riuscirai mai a capire Bruce. Fidati, te lo dice uno che ha una più che abbondante esperienza in materia!”. Il resto della band aveva sghignazzato a sua volta, sbattendo i pugni sul tavolo ed bisbigliando in risposta altre battute di spirito.
Aveva imparato a conoscerli in fretta, i componenti della band, ed era felice, perché tutti le sembravano uomini gentili e simpatici; talvolta immaturi, certo, ed altrettanto impulsivi, ma non si sarebbe certo fatta fregare dai loro capricci. Ora che era parte del gruppo, si sarebbe fatta rispettare.
C’era Roy, pianista straordinariamente talentuoso, con il suo sguardo furbo e la sua incredibile premura, che talvolta sfociava quasi in un eccesso ingiustificato di timidezza; c’era Garry, bassista preciso ed ordinato, dallo humour inglese e compassato, talmente tanto in contrasto con l'attitudine sguaiata dei suoi colleghi da farla morire dal ridere; poi c’era Danny, all’organo Hammond… tipo strano, Dan. Sembrava perennemente perso nei propri pensieri e, quando scherzava, si faceva talmente serio che gli altri non riuscivano mai a capire dove volesse andare a parare. Però Patti doveva ammetterlo, Danny era stato infinitamente cortese, con lei: da quando avevano cominciato a provare per il tour, lui l’aveva presa sotto la sua ala protettrice, e le aveva spiegato come comportarsi, come pensare sul palco, come focalizzare la concentrazione, con una sintesi ed una chiarezza che spesso mancavano ai voli pindarici semi-filosofici di Bruce. C’era anche Max, il batterista, una forza della natura nel corpo di un ragioniere: se chiunque l’avesse sentito parlare senza sapere con chi aveva davanti, probabilmente avrebbe creduto di avere a che fare con un laureato ad Harvard, altro che rockstar! Lo stesso invece non si poteva dire di Clarence, che certo era nato per ricoprire quel ruolo: un immenso uomo di due metri, la pelle lucida come ebano, gli occhi come quelli di un leone, il suono del suo sax profondo ed oscuro come il cuore dell’Africa stessa. Era il partner perfetto sul palco, per Bruce. Con lui scherzava, correva, cantava… Erano così antitetici, uno di fianco all’altro, così diversi, il ragazzetto italo-americano bianco dalla mandibola pronunciata ed il grosso sciamano nero dall’aria mistica, da risultare irresistibili.
Infine c’era Nils, un chitarrista incredibilmente tecnico, che era entrato solo adesso nella band, come lei, per sostituire Steve. Sembrava in leggero imbarazzo, all’inizio, ma si era sbloccato in fretta e subito aveva cominciato a sentirsi parte della “gang”.
Forse per quello lui non fu turbato da quella frase, pronunciata così a cuor leggero da Clarence… O forse era perché lui ancora non aveva visto Bruce come aveva fatto lei: come un uomo forte che tentava di nascondere le proprie ferite, i propri difetti, le proprie debolezze. Come un uomo che, quando non era più capace di celare il dolore che un’infanzia difficile e un cuore capace di sin troppa empatia gli avevano procurato, abbassava lo sguardo e, insieme a quello, anche le proprie difese; Patti non riusciva a togliersi dalla mente quegli occhi tristi, quelle mani tremanti, quelle parole appena sussurrate con timore della notte in cui le aveva comunicato che la voleva nella band: quella sera aveva pensato, perlomeno, di aver compreso qualcosa di Bruce Springsteen, di aver fatto proprio qualcosa della sua anima.
Dunque, cosa significava quell’affermazione di Clarence? Che diamine voleva dire che nessuno poteva capire Bruce? Per Patti, a questo punto, non si trattava più neppure una questione di potere, ma di voler capirlo: quel che aveva intravisto in lui, quella tristezza, quella fiducia, quella complicità innata che c’era tra loro la portava a non arrendersi, ad andare avanti… A tentare di entrare in quella testa riccioluta così meravigliosamente complessa. Non sapeva bene che nome dare a quella sua attrazione nei confronti di quell’uomo… C’era qualcosa di… viscerale, in essa. Non pianificato. Lo guardava e sapeva di volersi prendere cura di lui, nonostante tutto, nonostante ancora avessero tanto da scoprire l’uno dell’altro.
Non voleva credere di non poter capirlo. Alla cena, aveva ingoiata quelle parole con un bicchiere di vino rosso, sorseggiato forse con troppa foga. Ciò aveva logicamente attirato su di sé gli sguardi dei ragazzi della band che l'avevano subito incitata, credendo si volesse divertire, forse sbronzare. Quella sera era tornata alla propria camera d’hotel barcollando appena, con Danny che la portava sottobraccio e commentava con sguardo impassibile il suo comportamento. Era sarcastico, questo Patti lo capiva… anche perché aveva la fama di essere stato un discreto fumatore d’erba, in gioventù.
Poi si era addormentata, con la mente piena di immagini, confusione, ma, soprattutto di domande. Aveva dovuto aspettare solo qualche giorno per comprendere, almeno in parte, quel che Clarence intendeva dire, quella sera. Aveva dovuto aspettare la mattina del primo concerto del tour, a St. Paul.
Per lei, si trattava di un insieme di emozioni strane, uniche… o, quantomeno, che non aveva mai provato prima: sapeva cosa erano le farfalle nello stomaco provocate dall’ebbrezza da palcoscenico, ma questa volta si trattava di qualcosa di incredibile. Stava per girare il mondo, cantando davanti a migliaia e migliaia di persone che la osservavano, che si aspettavano qualcosa da lei. E ciò, ovviamente, la innervosiva. Quella mattina si svegliò molto –troppo- presto, non per sua volontà, ma a causa di una forte nausea, provocatale proprio dalla tensione. Dio, quanto odiava essere così incerta, a volte: non aveva né la forza di rimettersi a dormire, né di alzarsi. Sospirò, affondando la testa rossa nel guanciale e rimase per qualche minuto così, abbracciata alle coperte. Doveva trattarsi di una visione affascinante, pensò, sorridendo con le labbra premute contro il cuscino: una donna spettinata, struccata, disperata, con occhiaie chilometriche che grugniva a letto. Un sogno, proprio… il miglior modo per conquistare un uomo.
Fu una sorpresa udire un bussare piuttosto concitato alla porta. Sussultando, alzò la testa, guardandosi intorno, spaesata: con gli occhi ancora appannati dal sonno, cercò di capire se quel suono potesse avere qualche altra origine. Quando questo si ripeté, ogni dubbio fugò: qualcuno stava davvero bussando alla porta.
“Arrivo!”, biascicò, cercando di schiarirsi la voce, che la mattina faceva di tutto per apparire il più mascolina possibile, “Un attimo!”. Controllò la sveglia sul comodino, per essere sicura di non aver preso un abbaglio: magari erano le tre del pomeriggio e lei neppure se ne era accorta. Eppure no, erano le sette e mezza. Ne era certa. Stringendosi nelle spalle, si alzò in piedi velocemente, cercando di distendere le pieghe della camicia da notte e si mise alla ricerca della vestaglia. Dove diamine poteva averla lasciata? Sulla poltrona non c'era...
Per la terza volta, udì il bussare alla porta, stavolta considerevolmente più deciso.
“Un attimo, ho detto!”, esclamò lei, nervosa. Alla fine praticamente inciampò sulla vestaglia che, a quanto pare, era caduta per terra insieme ad un altro mucchietto di vestiti. Imprecò e se la infilò, rassettandosi alla meno peggio la cascata di capelli rosso fuoco.
Aprì la porta proprio mentre Danny stava per bussare per la quarta volta. Lei strabuzzò gli occhi nel vederlo già vestito, ma decisamente disordinato e con la faccia di qualcuno che non ha la minima idea del perché si sia alzato dal letto.
“Dan...?”, mormorò lei, corrugando le sopracciglia, “Che diavolo succede? Perché sei qui?”.
L'uomo si limitò a rimanere inespressivo, arcuando appena un lato della bocca sottile. “Buongiorno anche a te”, bisbigliò a sua volta, chinando il capo, “Senti, il Boss vuole vederci tutti nella sua suite. Ha detto che ha un sacco di cose da comunicarci... Sembrava incazzato. Beh, no, forse incazzato no, ma sicuramente insonne. Il che lo rende potenzialmente doppiamente incazzato”. Come al solito, Patti non riusciva assolutamente a capire se stesse scherzando o fosse serio. All'inizio non aveva nemmeno capito che il Boss a cui faceva riferimento era Bruce: lei non lo chiamava mai con quel nomignolo ridicolo.
Si morse il labbro, perplessa. Bruce già sveglio a quell'ora? Le pareva del tutto impossibile, eppure... “Perché era arrabbiato?”, domandò.
Dan mosse le mani in un gesto vago di chi ne sapeva ben poco. “Quel ragazzo è molto pignolo. Ad un certo punto, mi sono adattato e ho smesso di fare domande... Di solito lo fanno incazzare ancora di più e la situazione diventa ingestibile”. I suoi occhi chiari sembravano essersi fissati in un punto indefinito del muro, come se, mentre parlava, gli fosse tornato alla memoria un evento che confermava perfettamente la sua affermazione.
“E io che pensavo tu fossi il piantagrane della band”, scherzò Patti.
Lui posò il proprio sguardo su di lei. “Lo sono, infatti”, confermò, piegando di lato il capo, “Ma soltanto quando si tratta di lanciare enormi casse sopra poliziotti ignari”. Qualcosa diceva a Patti che in quell'uscita dovesse esserci qualcosa di vero. Sorrise, divertita.
“Comunque”, continuò l'organista, scrutando all'improvviso il proprio orologio da polso, “Ti conviene sbrigarti, non ho alcuna voglia di beccarmi una bella ramanzina perché sono arrivato in ritardo. Già mi toccherà ascoltare i deliri filosofico-musicali di Bruce per chissà quanto tempo... Dai, preparati, ti aspetto qui”, concluse.
La donna rientrò nella stanza e corse verso la montagnola di vestiti abbandonati sulla moquette; ne estrasse una camicia leggera ed un paio di jeans attillati e si affrettò ad infilarseli, per poi precipitarsi nel bagno a truccarsi e pettinarsi: col mascara e la matita fece relativamente velocemente, ma lo stesso non poté dire dei suoi capelli. Erano un fottuto casino.
Mentre alla fioca luce dello specchio tentava di districare le ciocche di capelli che sembravano essersi fare di tutto per crearle problemi, rifletté su quel che le aveva appena comunicato Dan: che diamine poteva volere Bruce da loro, a quell'ora? Il concerto era alle porte, avrebbero dovuto riposare, non stressarsi... Era lui stesso che lo aveva detto!
Poi non riusciva a spiegarsi perché Bruce non fosse venuto personalmente a dirle della riunione, ma avesse mandato Danny: cercò di ricordare se nei giorni prima gli avesse fatto qualche torto o, comunque, avesse avuto un qualche atteggiamento che poteva averlo infastidito. Eppure no, non le veniva in mente un accidente. Anzi, ultimamente se la stavano passando alla grande: pian piano, si stavano conoscendo, stavano lasciando vedere alcune luci ed ombre l'uno all'altro, accettandole reciprocamente... come fanno tutti gli amici.
Non appena decise che sì, alla fin fine i suoi capelli non avevano un aspetto così drammatico, si mise un paio di stivaletti ed uscì correndo dalla stanza. Danny la squadrò.
“Uhm”, commentò, protendendo il labbro inferiore, “Pensavo ci avresti messo di più. E avresti avuto un aspetto peggiore. Andiamo”. E fece strada per il corridoio color cachi dell'hotel a cinque stelle in cui alloggiavano. Patti sorrise, scuotendo il capo ramato, ma in realtà era piuttosto tesa: non le pareva neppure che i suoi piedi toccassero terra. Le sembrava di volare, di vivere in una realtà senza sensazioni.
“Perché credi che Bruce non sia venuto a parlarmi di persona?”, domandò, ad un certo punto, interrompendo Danny, che nel frattempo stava facendo qualche considerazione tecnica sul nuovo arrangiamento di The River. Lui si fermò un istante, stringendo le labbra. Per una volta, Patti non ebbe dubbi: in quel momento Dan era serio.
“Patti”, disse, con voce ferma, ma che lasciava trapelare un certo calore, “Ci sono tante cose di Bruce che tenterai di capire, con gli anni. E che comunque non capirai. So che è... difficile, da accettare. Ma devi farlo e senza fare domande o commenti. No, non guardarmi in quel modo, sono sincero. Lascialo fare, lascialo sfogare. Se ha un capriccio, noi glielo lasciamo consumare fino alla fine, sorbendoci la sua rabbia. Ci siamo abituati così, in tanti anni di convivenza. Non voglio dire che Bruce sia uno psicopatico, anzi: è uno dei ragazzi più genuini che conosca. Ma quando si tratta di musica, lui si incazza: perché è la sua vocazione, il suo mestiere, la sua unica ragione di vita. E noi ingoiamo ogni ingiustizia... Di solito, quando si incazza, lavora meglio. Scrive di più, compone meglio... Quindi tanto vale lasciarlo fare, no?”. Le sorrise, cosa più unica che rara... Fu un istinto, quello di abbracciarlo forte.
“Va bene”, mormorò, staccandosi da lui, “Andiamo”.
In pochi minuti, dopo aver imboccato un corridoio particolarmente ampio e luminoso, arrivarono davanti alla stanza di Bruce, dove si trovavano già Nils -visibilmente nervoso-, Roy, Max e Clarence. Mancava solamente Garry.
“Bruce gli farà il culo”, mormorò a denti stretti Roy, lanciando un'occhiata carica di significato all'orologio da polso. Nessuno sembrava sentirsi a proprio agio e ciò non fece che acuire il nodo alla gola che Patti percepiva già da un po': d'altronde, se non riusciva a stare tranquillo e rilassato chi era nella band da anni, lei come poteva sentirsi?
Dopo qualche istante di silenzio tombale, la porta della stanza si spalancò con un tonfo che non lasciava presagire niente di buono. Uno dopo l'altro, con passo di chi stava andando in guerra contro la propria volontà, entrarono nella suite, senza neppure fiatare. Patti trovava la situazione al tempo stesso ridicola e fastidiosa: che bisogno poteva avere Bruce di trattarli in quella maniera? Ancora non le era chiaro e non ricordava di aver fatto niente di sbagliato. A maggior ragione, quella sorta di tortura psicologica la faceva imbestialire. Contenne la propria rabbia, mordendosi il labbro, e fece il proprio ingresso nella camera, a occhi bassi, andando a sedersi su un divanetto color crema. Bruce era davanti a lei, in piedi, con la chitarra acustica a tracolla, che osservava alcuni appunti incomprensibili scarabocchiati su un quaderno spalancato ai suoi piedi. Inizialmente, neppure osservò i nuovi arrivati, finché non si rese conto del “grande assente”.
“Dov'è Garry?”, domandò, a voce bassa, che cercava di mostrarsi disinteressata, fallendo miseramente. Tutti si strinsero nelle spalle, in risposta. Il volto di Bruce si rabbuiò un altro po'... come se già non sembrasse abbastanza arrabbiato.
“Bene, cazzi suoi. Se poi stasera fa qualche stronzata, spero abbia già una band di rimpiazzo dove andare”. Un gelido silenzio accolse quelle parole. Patti lanciò uno sguardo perplesso a Danny, dall'altra parte della stanza, come per domandargli se facesse sul serio, ma lui non diede segno di averla notata. Sembrava concentrato completamente su Bruce e quello che aveva da dire. Sospirando nervosamente, si costrinse a fare altrettanto.
“Vi ho chiamati qui”, cominciò lui, raccogliendo il quaderno dai propri piedi e sfogliandolo attentamente, “Perché stanotte non ho dormito e quindi ho pensato alle prove di ieri pomeriggio. Voglio dire, oggi dobbiamo iniziare il tour e noi davvero possiamo pensare di essere all'altezza della situazione suonando in quel mondo?”. Calcò le ultime parole come se fossero state bestemmie.
“Ieri avevi detto di essere soddisfatto”, commentò Patti, ma immediatamente si rese conto di avere gli sguardi preoccupati dell'intera band addosso, come se avesse appena recitato una preghiera a satana a voce alta, invece di esprimere la propria opinione. Bruce, però, parve non udirla.
Trapped, ad esempio. I cori, parliamone. Se non li sappiamo fare abbastanza alti e non siamo, quindi, capaci di cambiare il passo al brano, tanto vale non farlo. Se devo fare una cover, voglio che sia all'altezza dell'originale, non che ne sia la pallida copia”.
“A me piace”, rispose Patti, stringendosi nelle spalle. Ancora una volta, l'intera band la squadrò come se avesse appena giocato a saltare la corda su un campo minato.
“Interessante”, rispose Bruce, senza neppure degnarla di uno sguardo, “Ma non è a te che deve piacere, è solo me che deve convincere”. Quella constatazione glaciale non fece che incoraggiarla ad interromperlo per l'ennesima volta.
“Ed il pubblico, no?”, considerò, sistemandosi con un gesto forse sin troppo sfrontato la frangia rossa, “Sono loro che pagano il biglietto. È a loro che deve piacere”.
Colpito ed affondato. Bruce, infatti, non rispose, ma proseguì. “Per quanto riguarda Ramrod, invece, credo che...”. Non fece in tempo a concludere la frase, perché la porta si spalancò, sbattendo. Un Garry col ciuffo attaccato alla fronte per il sudore e la camicia chiazzata e spiegazzata fece il proprio ingresso, ansimante, borbottando qualcosa di poco chiaro. Aveva l'aria distrutta di chi non aveva chiuso occhio.
“Sei arrivato”, mormorò Bruce, squadrandolo, “Alla buon ora”. C'era un'indifferenza in quella voce profonda che fece montare su tutte le furie Patti. E quando lei si arrabbiava faceva ben poco per tenere a freno la lingua... problema che, a quel punto, si era già presentato. E la situazione non poteva che peggiorare.
“Bruce, io...”, blaterò incerto Garry, che sembrava alla ricerca delle parole giuste, “Ieri sera c'era la mia ragazza, Bruce. Io e lei abbiamo... Abbiamo fatto tardi. Stamani dopo... dopo che mi hai chiamato, noi... noi ci siamo riaddormentati, ecco”. Concluse, deglutendo. Patti provò compassione per lui. Era un ragazzo così gentile e ligio al dovere che non meritava quel trattamento soltanto per essersi concesso del tempo con la propria fidanzata.
Sul volto di Bruce si dipinse una sorta di ghigno, ma non c'era alcuna gentilezza in esso. “A me non frega un cazzo di chi c'era con te, ieri, Garry”, ribatté, con una mano davanti alla bocca, “Poteva esserci il papa, in camera con te, e comunque non mi importerebbe. Sei un fottuto professionista, amico. Lo sai, questo? Il basso non si suona da solo, sul palco”.
“Ma le prove di ieri sono andate bene, non capisco cosa...”, balbettò Garry, ma venne interrotto.
“Esatto, non capisci. È questo il punto. Non capisci che, per stare in questa band, bisogna farsi il culo. A prescindere da fidanzate, mogli e simili. Non capisci che...”.
“Lascialo in pace!”, gridò Patti, scattando in piedi, rossa in volto, una volta tanto, per la rabbia. Tutti ammutolirono, stupiti; a dirla tutta, lei non era meno scossa di loro. Aveva agito puramente d'impulso, senza riflettere. Dall'altro lato della stanza, Danny si passò una mano sul volto.
“Cosa hai detto?”, domandò Bruce, che per qualche istante non aveva saputo come controbattere.
Prendendo fiato e cercando di contenere un lieve tremore delle mani, Patti riprese a parlare: “Garry è tuo amico, Bruce. Ed è un collaboratore affidabile, premuroso e rispettoso. Perché lo torturi? Perché lo insulti? Cosa vuoi dimostrare? Di essere il Boss? Beh, non è questo il modo giusto, credimi”. Ecco, ci era andata giù pesante. Intravide Danny affondare sempre di più nella propria sedia... Si sarebbe voluto chiaramente seppellire.
“Ma chi ti credi di essere?”, domandò Bruce, con un tono strano, affettato, come distorto dalla rabbia. I suoi lineamenti si erano fatti contratti, seri, oscuri. “Credi di poter venire qui, nella mia band e fare la voce grossa? Per cosa, poi? Cosa te ne darebbe il diritto, sentiamo un po'”.
Patti si passò la lingua sulle labbra, alla ricerca di una risposta brillante da dare, ma non le venne in mente nulla. Vuoto assoluto. Le guance le bruciavano selvaggiamente.
“Esattamente, niente te ne dà il diritto. Niente, chiaro?”, proseguì lui, stringendo i denti, “Tu non sei niente senza questa band”. No. No. No, quello non doveva, non doveva dirlo.
“Non sei niente senza di me”, proseguì.
Quelle parole.
Quelle parole furono una coltellata.
Ripensò a tutte le volte che i suoi l'avevano pregata di tornare a casa, le avevano detto che poteva trovarsi un vero lavoro... Che non era niente, lei, nella musica, che non sarebbe mai stata nessuno. Era sempre stata una delusione per tutti, sempre... Sentì le mani tremare convulsamente e avrebbe voluto fermarle, avrebbe voluto essere forte... ma non ci riusciva.
La voce di Bruce si faceva sempre più austera. “Sono io che ti ho portato fuori da quella topaia che è Asbury Park e sono io che posso rispedirtici all'istante, il tour non è ancora iniziato e...”.
“Basta!”, gridò Patti, talmente forte da farsi male alle orecchie, e le sue unghie si conficcarono dolorosamente nel palmo chiuso delle sue mani, “Piantala, ti prego! Piantala!”.
Adesso piangeva e non avrebbe voluto: no, non avrebbe mai e poi mai desiderato che la band la vedesse in quelle condizioni. Era incapace di reagire, ferita e pronta ad essere colpita ancora. Come già era accaduto tante, troppe volte.
Non seppe bene come accadde: non seppe mai se fu la sua voce straziata, le sue lacrime, le sue iridi piene di ricordi dolorosi, ma d'un tratto l'espressione irata di Bruce mutò, dissipandosi completamente, e lasciando spazio a quello sguardo pieno di comprensione che Patti conosceva così bene. O, almeno, credeva di conoscere. Con gli occhi appannati dalle lacrime, lo vide farsi scuro in volto, ma per la consapevolezza: aveva capito quel che le aveva detto. Aveva capito di averle fatto del male... E la cosa sembrava quasi sconvolgerlo. E allora perché lo aveva fatto? Perché era andato a scoprire quel suo punto debole?
Boccheggiando, si protese in avanti, verso di lei, tendendole la mano. “Patti, io...”.
D'istinto, lei si scansò. “No!”, urlò, tirandosi indietro. Il resto della band assisteva alla scena, nel silenzio più completo. Nessuno faceva nulla.
Nell'ennesimo tentativo di scusarsi, cercò di afferrarle gentilmente il braccio, ma stavolta lei non poté sopportare l'idea di rimanere in quella stanza, dove si sentiva fragile ed osservata. Con uno scatto, superò Bruce, ed uscì velocemente dalla porta; correva. I piedi le dolevano, il cuore le batteva all'impazzata, le lacrime scivolavano giù, giù, giù... Sentì Bruce che chiamava il suo nome, poi svoltò l'angolo e non sentì più nulla se non i propri passi.

L'aria fuori sulla terrazza era quasi innaturalmente fredda. Accendersi una sigaretta fu praticamente un'impresa: dovette tentare di coprire l'accendino da ogni angolazione con mani e corpo, prima che il fuoco attecchisse. Inspirò a pieni polmoni il fumo, grigio, caldo, malinconicamente consolatore, e lasciò che le invadesse il corpo, per poi espellerlo.
Lo skyline di St. Paul lo riempì gli occhi verdi, in un insieme ordinato di enormi palazzi e grattacieli, grigi ed opprimenti, e alberi e parchi, particolarmente luminosi sotto la luce smorzata del sole coperto dalle nuvole.
Sospirò, domandandosi se avesse la cosa giusta... dopotutto, non avrebbe potuto rifiutare? Sì, avrebbe potuto declinare l'offerta di suonare con la E Street Band e continuare a collaborare con Bobby Bandiera, Southside Johnny e tutti gli altri, là, sulla East Coast. C'era sempre qualcuno alla ricerca di una voce come la sua, là.
Avrebbe potuto rifiutare, sì, ma la verità era ben differente: non si poteva dire di no alla musica di quell'uomo, come era impossibile girarsi indietro davanti a quel suo sorriso spontaneo e a quel suo cuore che, a volte, sembrava immenso. Ed allora, come poteva averle detto davvero delle cose del genere? Non era quello il Bruce che aveva conosciuto. Non era il Bruce con cui aveva ballato allo studio di registrazione o con cui aveva brindato. Era un altro individuo, con le stesse sembianze, ma incapace di controllare la propria rabbia, le proprie emozioni. Eppure... magari pensava davvero quello, di lei. Magari non era davvero gentile e buono come sembrava. No, no, no. Doveva esserlo. Doveva. Nel petto, un fuoco di cui non conosceva l'origine bruciava selvaggiamente. No, non era il fumo, era qualcosa di più profondo... E l'unico nome che le veniva in mente era il suo. Quello di quell'uomo così dannatamente complicato.
“Ehi”, mormorò sommessamente una voce alle sue spalle. La conosceva anche troppo bene, quella cazzo di voce. Era quella che voleva sentire, l'unica il cui suono sembrava curarle e carezzarle l'anima. Ma era anche quella con cui avrebbe voluto chiudere... almeno per un bel po'.
“Ehi”, ripeté Bruce, probabilmente convinto che lei non lo avesse udito. Non si era neppure girata. Non voleva dargli quella soddisfazione, no. Inspirò profondamente un'altra boccata di fumo.
“Ti va di parlare?”, le domandò, sempre alle sue spalle. Avrebbe voluto guardarlo dritto nei suoi grandi occhi marroni, perdervisi, non ritrovare mai più la strada di casa... ma no, non poteva dargliela sempre vinta. Tutti, nella band, gliela davano vinta e quello che ottenevano era la sua testardaggine eccessiva.
Alla fine, lui le si avvicinò, poggiando i gomiti sulla balaustra, sfiorando il suo braccio. Non lo guardò, ma un tremito le attraversò le membra, fugace. Bruce sospirò, abbassando il capo.
“Facciamo così”, esclamò, con un sorriso triste stampato sulle labbra, che Patti riuscì appena a intravedere, “Io parlo. Te, se vuoi, ascolti. Solo se vuoi, però... Dopo oggi, penso di non poterti imporre nulla. Non lo farei comunque, ma dopo come mi sono comportato, men che mai”.
Si interruppe, fissando un punto distante, di fronte a sé. Patti si concesse di osservarlo, di sfiorarlo con lo sguardo: aveva un profilo spigoloso, impreciso, eppure c'era qualcosa di così raro e straordinario, come una contrapposizione di dolore e fierezza, in quei lineamenti duri, di dolcezza e rabbia, in quegli occhi che forse avevano visto fin troppo e facevano di tutto per trovare un po' di innocenza, un rifugio da quel fuoco che gli bruciava dentro e che nessuno sembrava capace o intenzionato a spegnere.
Patti avrebbe voluto essere la mano che lo carezzava, l'acqua che gli dava sollievo, la luce che lo guidava, ma avrebbe voluto essere anche il pugno nello stomaco che lo risvegliava da quel torpore che si era creato da solo e da cui non pareva essere capace di svegliarsi. Lo vedeva solo lei? Solo lei riusciva a guardare aldilà di quell'apparente sicurezza spesso tradita da un sospiro di troppo?
“Lo so che non appena credi di conoscermi un po' meglio, ti deludo sempre”, sputò infine fuori Bruce, parlando fin troppo veloce, senza praticamente respirare, “Non avrei voluto dire le cose che ho detto, prima. Probabilmente non avrei nemmeno dovuto chiamarvi nella mia stanza, stamani”.
Patti portò per l'ennesima volta la sigaretta alle labbra sottili. “Probabilmente”, confermò.
“Ma di notte io non dormo”, continuò, stringendosi nelle ampie spalle, “E' una lunga storia, dubito che ti interessi. Però, ecco... Tendo a riflettere e, dopo aver riflettuto, penso, penso, penso, e poi di nuovo, in un infinito circolo vizioso, non riesco proprio a smettere di macinare pensieri. Stanotte mi sembrava che... che la band non fosse all'altezza. L'ho percepito, come un macigno sullo stomaco. E la mattina volevo parlarvi, volevo essere franco con voi, ma non maleducato... Non so perché finisco sempre per essere aggressivo, cattivo, quando vorrei essere chiaro. È tutta la vita che cerco di capire come raggiungere le cose per cui morirei e per cui ucciderei, come entrare in armonia con esse e creare il mio equilibrio... è tutta la vita che voglio raggiungere le persone, non perderle. Ma le perdo e basta, a quanto pare”. I suoi occhi si fecero così scuri che neppure le luci della città parevano riflettervisi, avviluppate da quel buio.
“So che giustamente non te ne frega un cazzo, e so cosa penserai: che so sempre e solo parlare di me”, proseguì, nonostante Patti facesse di tutto per dimostrarsi disinteressata -con scarsi risultati, dato che il cuore le batteva all'impazzata-, “Ma sai perché ho scritto e registrato Nebraska? Sai perché ho composto un album così... così oscuro, triste, frustrato? Perché ero... cazzo”, si morse la lingua, come se faticasse a parlare, “Perché ero depresso”, mormorò in un soffio, e la voce gli si ruppe. Il cuore di Patti cominciò a galoppare, sempre di più, e le raggiunse le orecchie, le tempie, gli occhi che le si riempivano di lacrime. Schiacciò la sigaretta sulla balaustra e buttò il mozzicone. Lo osservò cadere, cadere, cadere.
“Sì, depresso. Lo diresti mai? Il ragazzetto allegro di Hungry Heart era depresso. Lo sto dicendo ora a te, perché finora non ho avuto il coraggio di dirlo a nessun altro, neppure a Clarence o Steve. Quel ragazzetto prendeva la sua macchina polverosa ogni fottuta notte e la guidava fino alla casa della sua infanzia e lì parcheggiava e la osservava... Alla ricerca di cosa? Di una visione del passato? Della possibilità di avere un'infanzia? Di una ragione... di una ragione per rimanere aggrappato a una vita ed una pelle che non sentiva più sue da tempo?”, parlava liberamente, come se volesse togliersi dalle spalle tutti quei turbamenti che lo affliggevano, “Tutti si allontanavano da me. Le donne mi portavano a letto e poi mi salutavano non appena le cose si facevano serie; gli amici andavano e venivano, ma sembravano non esserci mai quando avevo bisogno di qualcuno; ed i miei erano lontani e non chiamavano quasi mai, perché in fondo, io sono quello famoso della famiglia, no? Quindi devo stare bene, no? Non c'è ragione per cui possa stare male...”. Si fermò, come se non riuscisse più a parlare. Forse un lato di Patti non avrebbe voluto, ma il suo cuore ebbe la meglio sulla sua mente: allungò una mano sottile, morbida e bianca e la infilò gentilmente in quella callosa, abbronzata e calda di Bruce. Erano così diverse, l'una dall'altra, sembravano lo Yin e lo Yang. Sorrise, al pensiero. Cosa diamine le stava succedendo?
“Va' avanti”, lo incoraggiò, con una dolcezza nella voce che non sapeva di avere, “A me interessa quello che hai da dire. Sempre”. Con l'altra mano, gli sfiorò il volto malamente rasato, assaporando con la punta delle dita quella pelle ruvida e tiepida.
Il sorriso che Bruce le regalò, in risposta, illuminò tutto quanto intorno. Il cielo, l'erba, i palazzi... Forse se lo stava solo immaginando, o forse, forse... Non riuscì a formulare alcun pensiero, perché fu avvolta dal profumo ormai così familiare del suo dopobarba. Erano così vicini... così vicini.
“Mi chiamano il Boss, ma non è vero”, proseguì lui, guardandola fissa negli occhi, muovendo le labbra lentamente, “Nebraska ne è la prova: quello era un richiamo, una richiesta d'aiuto, un disperato tentativo di trovare qualcuno... di avere qualcuno al mio fianco. Non sto cercando di giustificarmi, sia chiaro: nessun fatto può giustificare i miei cambi d'umore. Niente può giustificare l'averti fatto piangere, l'averti ferita. È soltanto che... Io non sono capace di essere il Boss, Patti. Ecco, l'ho detto. Io ho bisogno degli altri. Ho bisogno di qualcuno che mi guardi le spalle... ed invece cosa faccio? Allontano tutto. E per cosa? Per la musica? Per le mie parole? Valgono l'abbraccio di un amico? Il bacio di una donna che ti ama? Valgono...”.
Patti non lo lasciò finire. Ogni parola le era rimbombata nel petto, sotto forma di battito del suo cuore, ed alla fine aveva ceduto alle sue emozioni: lo abbracciò di getto, circondandogli il collo con le braccia e intrecciando le dita nei suoi riccioli castani. Inspirò a pieni polmoni il suo profumo.
Lui rispose con trasporto alla stretta, tenendola tra le sua braccia: poteva sentire i suoi muscoli tesi nel tenerla vicina a sé, mentre poggiava il capo nell'incavo del suo collo. Si sentì protetta. Si sentì parte di qualcosa, qualcosa che non conosceva, ma che aveva un sapore intenso, dolce. Speciale.
“Scusa”, mormorò lui, la voce ovattata, “Scusami”.
Lei rafforzò la stretta. “Scuse accettate”, bisbigliò, “Ma non osare minimamente fare qualcosa del genere o insultarmi, ché mi incazzo davvero”.
Fu una sensazione incredibilmente piacevole udire la sua risata così vicina. Sembrava la melodia di una canzone così bella da non poter essere scritta.
“Ed è meglio non fare incazzare Patti Scialfa, lo so”, confermò lui, scherzoso. Lei fece un passo indietro, staccandosi dall'abbraccio, e lo guardò: la bocca carnosa schiusa in un sorriso, gli occhi lucidi nuovamente ricolmi di scintille e i capelli scompigliati.
“Questo è il Bruce che conosco”, commentò, riprendendogli la mano, “E di cui sono fiera di essere non solo collega, ma soprattutto amica”. Sapeva che era ciò che Bruce aveva bisogno di sentirsi confermare e voleva essere chiara con lui. Non aveva alcuna intenzione di fare come gli altri della band, che si tappavano la bocca, pur di vederlo comporre bene. Non erano cattivi, lo sapeva... Avevano solo un modo diverso di intendere l'amicizia: lei voleva che Bruce stesse bene. Il resto veniva dopo. Largamente dopo, a dirla proprio tutta.
Dopo qualche istante in cui rimasero ad osservarsi, sfiorati dolcemente dalla brezza, Patti decise di togliersi un dubbio. “Perché hai mandato Danny a chiamarmi, stamani? Voglio dire... non potevi venire tu? Non capisco”. Scrollò le spalle, interrogativa.
D'improvviso, Bruce parve vagamente imbarazzato. Si passò una mano sulla nuca, assumendo un'espressione buffa che poteva significare tutto o niente.
“Ecco, io...”, biascicò incerto, poi si passò la lingua sulle labbra e alzò il dito indice, come se si stesse convincendo da solo a fare la cosa giusta. Patti lo osservava, divertita. Le fece cenno di aspettare, poi rientrò nell'hotel; dopo qualche minuto tornò, con una valigia in mano. Lei lo fissò, piuttosto perplessa.
“Ho paura a chiedere cosa possa esserci dentro”, esclamò, dandogli un buffetto.
“Volevo fosse una sorpresa, per questo ho mandato Danny a chiamarti. Avevo intenzione di dartela nella mia stanza, una volta rimasti noi due”. Bruce si chinò ed aprì il bagaglio, stando ben attento, con fare scherzoso, a non far vedere alla donna quel che ne stava estraendo. La osservò malizioso. Fin troppo malizioso. Che diamine stava combinando?
“Chiudi gli occhi”, le disse, con un sogghigno che le faceva venire una gran voglia di prenderlo a schiaffi. E lo aveva già fatto, quindi sapeva di poter tranquillamente bissare.
“Devo proprio...?”, chiese, incrociando le braccia. Ammiccando, lui le fece capire che sì, doveva proprio. Maledetto. Patti chiuse gli occhi, sospirando, pronta a chissà quale scherzo infantile.
Sentì Bruce che si rialzava e le si avvicinava, finché non le disse che poteva finalmente guardare... E, da principio, non comprese affatto ciò che vide.
“Una maglietta da uomo con scritto sopra Broadway Motors?”, domandò, strizzando appena gli occhi, “Molto... interessante, ecco”.
“La maglietta è mia, in realtà”, aggiunse Bruce, stringendosi nelle spalle, “Ed adesso è tua”.
Patti non poté evitare di scoppiare a ridere. “Cosa?!?”, esclamò, incredula.
“Beh, ecco”, tentò di spiegarsi lui, “Tu sei una donna”.
“Molto acuto”, controbatté lei, che ormai aveva male alla pancia a forza di ridere.
“No, nel senso...”, cercò di difendersi lui, incespicando malamente sulle parole, “Il punto è... tu ti vesti molto bene. E tendi ad essere... parecchio sexy, diciamo”.
Lei non sapeva più cosa dirgli. Era una conversazione troppo surreale per essere vera. “E quindi...?”.
“E quindi...”, proseguì Bruce, impacciato, “Non vorrei che la gente... insomma, che loro... che prestassero solo attenzione a te, quando siamo sul palcoscenico”, concluse.
“Praticamente”, constatò sarcastica, ponendo le mani sui fianchi, “Non vuoi che ti rubi i riflettori”. Inarcò entrambe le sopracciglia, punzecchiandolo.
Lui alzò le mani, agitandole scompostamente. Era così imbranato, certe volte. “No, no, solo che... Dai, insomma, prendi questa fottuta maglietta ed infilatela!”, esclamò, passandosi le dita callose tra i capelli e alzando gli occhi al cielo.
“Ehi”, lo rimbeccò lei, facendogli la linguaccia, “Non c'è ragione di alzare la voce, cowboy!”.
Lui rise. “Mettitela e basta”, ripeté, sogghignando.
La maglia aveva un aspetto... vissuto. Patti non era neppure del tutto certa che fosse pulita e, anzi, a giudicare dall'odore, sembrava essere stata usata di recente. Riluttante, se la fece passare sulla testa e poi per le braccia, cercando di non inspirarne l'aroma. Quando finalmente la ebbe indosso, cercò di infilarla alla meno peggio nel pantaloni, sperando che, in quel modo, avrebbe avuto un aspetto vagamente femminile. Speranza ovviamente vana.
Bruce si stava visibilmente contenendo dallo scoppiare in una risata fragorosa e, per tutta risposta, lei lo fulminò con gli occhi smeraldo. “Non ti provare neppure a ridere”, intimò, protendendo l'indice verso il suo petto, “E' stata una tua idea”.
“Appunto”, confermò lui, “Ed è stata davvero un'idea geniale”. La luce del sole smorzata dalle nubi grige si appoggiava così dolcemente sui suoi lineamenti... Si piegò nuovamente sulla valigia e ne estrasse una polaroid, che impugnò con convinzione. Patti strabuzzò gli occhi e, inarcando le sopracciglia, si mise subito sulla difensiva.
“Non ci pensare neppure”, lo minacciò.
“Dai, soltanto una foto...”, la pregò Bruce, facendole gli occhi dolci. In quegli occhi castani le pareva di poter scorgere l'infinità dell'universo, un cielo pieno di stelle... la semplicità di un uomo che voleva rimediare ai propri errori. Patti imprecò: certe volte era davvero impossibile resistergli. Fece la linguaccia ed indicò la maglietta, mentre la macchina fotografica catturava quel momento. Risero in coro, subito dopo, nell'osservarla, con una consapevolezza nel cuore: una giornata così turbolenta non l'avrebbero mai dimenticata.

 

Casa Springsteen, New Jersey, 2015, ore 9:56
Il ricordo fece scuotere a Patti la testa rossa: quanto erano giovani, all'epoca. Due bombe sempre pronte ad esplodere, due cuori troppo affamati per non scontrarsi, ma anche troppo selvaggi e romantici per non entrare in sintonia. La loro sintonia era stata spontanea, ma quante problematiche si erano interposte tra loro: il loro orgoglio, la musica, la testardaggine... Avrebbero potuto evitare tanto dolore, ma non ne erano stati capaci. Avevano dovuto corrersi dietro per anni, sfiorandosi senza prendersi mai, ferendosi senza curarsi, e solo alla fine avevano capito. Ma quella era un'altra storia.
L'ennesima fitta alla caviglia la distolse dai propri pensieri... sperava davvero Bruce fosse nelle vicinanze, perché altrimenti era destinata a rimanere intrappolata in quella fottuta soffitta. Certo, poi magari avrebbero litigato. Ma mentre prendeva in mano la foto seguente, Patti rifletté su un dato oggettivo: alla fine, ogni loro scontro, si concludeva con più lati positivi che negativi. E, magari, anche una maglietta
Broadway Motors. Ma quella era tutt'altra questione.


Angolo dell'autrice:
Con un po' di ritardo, alla fine sono riuscita ad aggiornare. Perdonatemi, ma tra iscrizione all'università, eventi musicale ed estate in generale, non ho proprio avuto tempo. Inoltre, nonostante avessi un'idea piuttosto nitida di quel che volevo scrivere, il capitolo continuava sostanzialmente a lievitare sotto le mie dita: più scrivevo, più mi sentivo di aggiungere dettagli al capitolo... che infatti è infinito.
Nel prossimo episodio -che tra l'altro presenta una sorpresina che mi è balzata alla mente l'altra sera- dubito davvero che scriverò così tanto, ma non so comunque quando aggiornerò, dato che mi aspettano un paio di settimane in Sardegna. Ad ogni modo, non disperate se non mi vedete aggiornare (... sì, posso già immaginare la disperazione... molto credibile...) ed a presto.
Un ringraziamento speciale a Sabrina (sempre presente per i miei sfoghi di fangirl... ehi, tra l'altro ho trovato altri aneddoti in interviste che ho intenzione di usare!) e Merenwen, che è sempre pronta a recensire.
A presto (si spera!),

Elisa xx

  
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