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Autore: shezza    05/08/2016    1 recensioni
Ci troviamo nel non molto lontano futuro in cui è ambientata la 5x04, e Castiel si ritrova a confrontarsi con quei sentimenti a cui non si è ancora totalmente abituato.
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“Non dormi, Cas?” chiese, strofinandosi il viso con fare nervoso.
“Non ci riesco.” rispose Castiel.
Era buio, ma riuscì a cogliere l’espressione dura e tesa del suo volto. Gli occhi di Dean erano stanchi, spenti, e marcati da visibili occhiaie violacee, segno di tante notti insonni; era come se avessero passato troppo tempo a vedere solo cose orribili, dolore, morte. Così anche il suo viso che, pur essendo di una bellezza naturale e disarmante, era segnato dal dolore e dalla stanchezza.
“Non riesci a dormire perché sei strafatto o sei solo agitato per domani?”
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Castiel, Dean Winchester
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Quinta stagione, Nel futuro
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Note: i momenti di noia o di assenza da internet mi hanno portato a vagare in cartelle e documenti abbandonati nel mio computer, e ora ho ripescato questa one shot risalente al lontano 2014 che non avevo mai postato... ho semplicemente scritto qualcosa sulla mia puntata preferita della mia stagione preferita di supernatural e con la mia coppia preferita (e quindi non potevo non postarla!) 
ringraziate soprattutto hemwings perché sto postando tutto ciò dopo tanto tempo solo grazie a lei 
purtroppo i destiel sono molto angsty e implicitissimi (mi dispiace) ma spero comunque che questa piccola cosa vi piaccia... buona lettura!


 


Don't ever change.


Era una notte silenziosa al Camp Chitaqua.
In una delle tante capanne di legno del campo, quella che si distingueva dalle altre per una tenda di perline colorate appesa alla porta, Castiel non riusciva a prendere sonno.
Stava sdraiato sul suo letto, le mani dietro la testa e gli occhi fissi al soffitto, al fianco di una donna di cui non ricordava nemmeno il nome che dormiva tranquillamente appoggiata sul suo petto nudo.
Non capiva esattamente quali fossero i pensieri che gli impedivano il sonno -erano tanti quelli che affollavano la sua mente, tutti aggrovigliati e senza un filo logico tra loro, pensieri irrazionali e disconnessi, immagini e ricordi annebbiati-, o forse era solo il caldo che gli rendeva appiccicosa la pelle e sudata la fronte, o forse l’ansia per il giorno dopo e il pensiero fisso che probabilmente quella sarebbe stata la sua ultima notte sulla Terra. Ma più pensava, -più rievocava i fantasmi del suo passato, le persone che aveva amato e che aveva perso per sempre, le morti a cui aveva assistito, il dolore che aveva provato-, e peggio sarebbe stato per lui; così, cercando di interrompere quel continuo martellare di pensieri nella sua testa, Castiel sbuffò e si alzò lentamente, spostando la bionda più in là sul letto attento a non svegliarla.
Quando si rizzò in piedi la testa iniziò a girare vorticosamente, in sincronia con il pavimento sotto i suoi piedi. Barcollò fino al tavolo e prese il bicchiere che vi era poggiato, portandoselo velocemente alle labbra. Bevve le poche gocce di liquido trasparente che vi erano rimaste sul fondo come se non avesse bevuto per giorni interi, ma poi la sua gola secca arse ancora di più per effetto dell’alcool.
Cercò un’altra bottiglia nella dispensa, ma quelle che trovò erano tutte vuote.
Castiel da un paio di anni a quella parte aveva scoperto che bere qualche bicchiere di gin -e anche farsi qualche canna- aiutava a frenare i pensieri che occupavano fin troppo la sua mente, e ad affievolire quei sentimenti che non si era ancora abituato a provare da quando era diventato umano. Lo aiutava a dimenticare, a sentire un po’ più leggero il peso di quella guerra che, ormai ne era consapevole e si era rassegnato, avevano già perso.
Voleva semplicemente vivere al meglio i suoi ultimi giorni da umano prima di morire. Forse era quello il motivo per cui quella notte era andato a letto con la biondina -qual era il suo nome? Johanna? Jena?-, eppure i pensieri erano ancora lì, e lo tormentavano, e non riuscivano a fargli prendere sonno.
Con la testa ancora pulsante dal mal di testa, Castiel raggiunse il bagno, un sudicio spazio di due metri quadrati che sapeva solo di umido e di muffa. Aprì il rubinetto e si sciacquò il viso con un getto d’acqua gelida, per lavare via il sudore e schiarirsi la mente; per fortuna era buio, e non riusciva a scorgere il suo viso riflesso sullo specchio. Vi avrebbe visto un uomo sulla quarantina dall’aspetto sciupato e provato dagli anni, e dagli occhi blu, una volta luminosi e pieni di energia, ora vuoti e spenti; la barba incolta sulle guance e sul mento a dargli un aspetto ancora più invecchiato e i capelli sporchi che ricadevano sulla sua fronte.
Erano cambiate tante cose in lui, in così poco tempo.
Castiel si asciugò il viso e, tornato in camera, indossò la prima camicia che gli capitò sotto gli occhi. Non appena scostò la tenda per uscire, quella tintinnò, ondeggiando delicatamente al suo tocco e facendo svegliare la donna che giaceva sul suo letto. Quella borbottando si mise lentamente a sedere e poi scrutò Castiel nell’oscurità.
“Dove stai andando?”
“Hey… Jean.” Esitò. “A prendere un po’ d’aria.”
“Jenny.” rispose la bionda con una nota di delusione nella voce e di disprezzo allo stesso tempo.
Jenny, giusto.
“Mi dispiace” si scusò lui, anche se non si sentiva così in colpa.
“Vattene.”
Succedeva sempre così.
Passava la notte con qualcuno e poi finiva per essere cacciato via, persino dalla sua stessa casa. Anche se casa non era esattamente il termine adatto per descrivere l’abitazione in cui era costretto a vivere.
Una volta fuori Castiel iniziò a camminare tra le baracche, stringendosi nella camicia leggera che indossava.
Non faceva particolarmente freddo, anzi l’aria era afosa e il caldo soffocante. Forse era solo l’ansia che lo rendeva così tremante e freddoloso.
Il campo era stranamente silenzioso quella notte, e l’atmosfera quieta: non un grillo, un fruscio di foglie, un insetto o un cane randagio sembravano dare segno di vita. Solo il suono della terra secca che Castiel calpestava ad ogni suo passo. Aveva ormai raggiunto il confine del campo, recintato da un’alta e resistente rete, quando si accorse che non era il solo a non essere riuscito ad addormentarsi.
Una figura stava curva su se stessa, appoggiata su quelli che a Castiel sembravano i resti della vecchia Impala.
Fu Dean il primo a prendere parola.
“Non dormi, Cas?” chiese, strofinandosi il viso con fare nervoso.
“Non ci riesco.” rispose Castiel.
Era buio, ma riuscì a cogliere l’espressione dura e tesa del suo volto. Gli occhi di Dean erano stanchi, spenti, e marcati da visibili occhiaie violacee, segno di tante notti insonni; era come se avessero passato troppo tempo a vedere solo cose orribili, dolore, morte. Così anche il suo viso che, pur essendo di una bellezza naturale e disarmante, era segnato dal dolore e dalla stanchezza.
“Non riesci a dormire perché sei strafatto o sei solo agitato per domani?”
Castiel rimase in silenzio, ormai abituato alla freddezza del cacciatore.
Da quando aveva realizzato che Sam, incastrato nel suo stesso corpo insieme a Lucifero, se n’era andato per sempre, si era chiuso nella sua bolla di freddezza e indifferenza, capace solo di dare ordini su ordini, e combattere nella speranza di trovare nuovi sopravvissuti tra i croats, e uccidere se necessario.
Perché Sam era tutto ciò che aveva, e gli era stato portato via per sempre. Era forte, Sam, deciso e risoluto nel suo piano di incastrare Lucifero e di salvare il mondo dall’apocalisse, ma era stato sopraffatto ed aveva fallito. E anche Castiel, o almeno quello di una volta, ormai non c’era più; perché il Castiel che Dean si ritrovava a guardare negli occhi in quel momento era solo un drogato, un miserabile e inutile essere umano che era caduto e sprofondato tra i vizi dell’alcool, delle donne e della droga.
Poiché non aveva più alcuna possibilità di recuperare quelle che una volta erano le persone più importanti della sua vita, la sua famiglia, Dean aveva deciso di farsi avanti. Messi da parte il rimorso e il dolore, aveva deciso di uccidere Lucifero, anche a costo della vita. Avrebbe posto fine a tutto quanto, pur sapendo che avrebbe dovuto farlo già tempo prima.
“Hai la Colt?” chiese Castiel, interrompendo per un attimo i pensieri ininterrotti di Dean.
Il leader infilò la mano nella tasca posteriore dei suoi jeans e ne tirò fuori una vecchia pistola argentata.
“È tutto pronto per domani. Chuck ha già preparato le jeep, partiamo all’alba.”
“E come pensi di farcela?”
Dean lo guardò dritto negli occhi. Tirò un angolo della bocca in un principio di sorriso, lasciandosi poi sfuggire una risatina acida e sprezzante. “Tu non ti fidi di me.”
Castiel rimase sorpreso da quell’affermazione. Pensò al loro primo incontro, a tutto quello che avevano passato insieme, a tutte le volte in cui era stato Dean a non fidarsi di lui, a mettere in dubbio la sua parola.
“Penso solo che sia una mossa suicida, e anche stupida oserei dire. Sono anni che stiamo dietro a Lucifero, e sai bene che non sarà un’impresa facile.”
“Pensi che non sappia dei rischi che corriamo? Pensi che non abbia idea di cosa ci sia là fuori, oltre a tutti quei maledetti croats e ai demoni? Ora che ho trovato la Colt e ho l’occasione di uccidere quel figlio di puttana non mi tirerò certo indietro.” La sua voce si era alzata notevolmente di tono: era quasi aggressivo, arrabbiato, il modo con cui si rivolgeva all’uomo che gli stava di fronte.
Castiel sapeva già dove sarebbe andato a finire il discorso.
“Non farò come te. Non mi rassegnerò alla fine, non me ne starò impalato a guardare tutti morire, consapevole che la colpa è solo mia. Ho già perso Sam una volta, ho perso anche te, non voglio perdere ciò che rimane di tutti gli altri.”
“Lo sai che non puoi salvare tutti.”
“Sai cosa, Castiel?" disse Dean ignorandolo, e l’uomo di fronte a lui sentì il cuore sobbalzare a sentire il suo nome pronunciato per intero, dopo così tanto tempo. Per anni è sempre stato solo Cas, così come aveva preso l’abitudine di chiamarlo Dean. Castiel è il nome dell’angelo del Signore, del soldato, del guerriero celeste che combatteva per il bene dell’umanità. Gli ricordava ciò che era stato e ciò che avrebbe voluto dimenticare per sempre. Non guardò negli occhi Dean mentre lui ricominciava a parlare, la voce diventata ad un tratto molto più tranquilla, così spaventosamente pacata e tranquilla.
“Il fatto è che sei inutile. Ma va bene così, perché anch’io sono inutile. Dopotutto è colpa mia se siamo qui, giusto? Sono io che ho cominciato tutto questo, sono io che non sono riuscito ad impedire a Sam di lasciare il suo corpo a quel figlio di puttana, sono io che sto fallendo nel salvare il mondo da tutta questa merda, dal casino che ho combinato. Ma tu…” e puntò i suoi occhi verdi e freddi in quelli di Castiel, le cui iridi blu erano ormai quasi del tutto inghiottite come buchi neri dalle pupille dilatate, sputando parole acide che sperava gli facessero solamente del male. “…Tu non sei nemmeno un uomo. Sei solo una creatura incastrata in un corpo che non è tuo. E non hai mai saputo cosa significhi soffrire per davvero, o sbagliare e sentire i sensi di colpa divorarti lo stomaco, o sentirti così piccolo di fronte al mondo da sperare di non essere mai nato. Sei stato un grande amico Cas, te lo dico sinceramente, mi hai sempre aiutato nei momenti più difficili. Ma ora tutto ciò che riesci a fare è distruggerti lentamente imbottendoti di tutta quella merda e guardare in silenzio i tuoi compagni morire.”
Fece una lunga pausa, e quando riprese a parlare Castiel notò che la sua voce si era fatta più flebile, tremante. “Ma in fondo è colpa mia anche se sei diventato questo, no?”
Castiel non riuscì a dire una sola parola.
Pensava ad altre conversazioni simili che aveva avuto con Dean, al fatto che riusciva sempre, in qualche modo, a ferire i suoi sentimenti. Ricordava quella sera in cui gli disse che gli sembrava sempre così felice, "anche quando il mondo sta andando letteralmente a puttane".
Ma il fatto è che non era per niente felice.
Gli faceva schifo essere umano. Gli faceva schifo sentire quel vuoto fastidioso allo stomaco per la fame ma non avere abbastanza cibo da soddisfarla completamente. O dormire un sonno agitato dagli incubi e dalle immagini di un passato ormai lontano e irraggiungibile, ma che erano sempre presenti, a ricordargli costantemente ciò che era un tempo. Gli faceva schifo essere bloccato in un corpo che non era suo, e sfruttarlo nel peggiore dei modi perché era l'unica cosa che gli era rimasta da fare.
Eppure alla fine Dean aveva ragione. Era un essere inutile -non aveva i suoi poteri, e nemmeno le sue ali, e come faceva senza le sue ali?- ma non poteva sapere quanto anche lui avesse sofferto.
Dean non aveva perso la sua Grazia per sempre, non aveva idea del dolore che aveva provato quando le sue ali si erano staccate dal suo corpo -da quello del povero Jimmy Novak, in realtà-, e non sentiva il costante bruciore alle scapole a ricordarglielo ogni giorno. Aveva sofferto quando ha dovuto lasciare i suoi fratelli e abbracciare una vita del tutto nuova, del tutto estranea a lui, e soffriva anche in quel momento, guardando il passato con disgusto e rimorso allo stesso tempo o al pensiero di deludere il suo migliore amico -ma lo è ancora, dopotutto, il suo migliore amico?
Castiel continuò a non dire una parola.
Sentiva gli occhi lucidi e le lacrime premere sulle sue ciglia. Ed era una sensazione così spiacevole, che avrebbe voluto semplicemente non provare più niente perché tutte quelle emozioni, tutte insieme, erano troppo. E poi non aveva mai pianto, né quando era un angelo -perché non era in grado di provare sentimenti del genere- né da umano, ma forse solo perché era troppo fatto per riuscire a sentire qualcosa.
Eppure sentiva così tanto pungere gli occhi, ferito dalle parole di Dean, che fu tentato di scoppiare a piangere davanti a lui come un bambino, o di chiedergli in ginocchio perdono per essere stato così stupido.
Ma non l’avrebbe fatto. Alzò solo gli occhi verso quel cielo grigio e senza stelle, ricacciando le lacrime indietro e cercando di sembrare felice, mentre sforzava un sorriso e gli diceva: “Ti piace sempre dare giudizi su di me.”
Furono avvolti dal silenzio per lunghissimi minuti, e Dean rimase immobile finché non decise di allontanarsi a passo spedito verso la sua capanna, dopo aver oltrepassato Castiel con una spallata.
Rimasto solo, controllò le tasche dei suoi pantaloni, sperando di trovarvi un flacone arancione pieno di pillole bianche. Ne prese un paio senza neanche guardare e se le ficcò in bocca, nella speranza di non riuscire davvero a sentire più niente e di dimenticare tutto quanto.


“Non cambiare mai.”
  
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