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Autore: _Pulse_    26/04/2009    7 recensioni
Giocherellavo con le chiavi nella tasca dei jeans guardando per terra con il sorriso sulle labbra, pensando alla conversazione con il mio fratellino, quando mi ritrovai direttamente sulla moquette rossa del corridoio, culo a terra e vista offuscata da un’ombra su di me. Quell’ombra era sicuramente di un ragazzo: aveva jeans extra-large, maglietta bianca e un cappellino, anch’esso bianco, che gli copriva la faccia. Se lo tirò su e solo allora capii due cose: la prima, che la dea bendata aveva visto chissà che cosa in me tanto da premiarmi; e per seconda, realizzai che avevo di fronte Tom Kaulitz. Proprio lui, in carne ed ossa, il chitarrista dei Tokio Hotel. Non potevo credere ai miei occhi. Pensai di strofinarli, ma la mia coscienza intervenne: No, non farlo Ary, poi si sbava il trucco. Non li strofinai più, ma in compenso li chiusi e li riaprii più volte: non cambiò nulla. Era la realtà, la pura e così irreale realtà. Avevo avuto un contatto fisico (e anche abbastanza violento) con il ragazzo dei miei sogni, il ragazzo irraggiungibile, il ragazzo di cui ero follemente innamorata in tutti i miei strani sogni. Proprio lui.
Era davanti a me e mi guardava.
«Ahio», dissi toccandomi infondo alla schiena, distogliendo per poche frazioni di secondo lo sguardo dal suo viso.
Genere: Triste, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri, Bill Kaulitz, Georg Listing, Gustav Schäfer, Tom Kaulitz
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Sogno che è Realtà'
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Nota: Questa FF (con le lettere maiuscole) è la prima e la più importante che io abbia mai scritto in vita mia, l'unica a cui tengo così tanto, perchè è cresciuta con me, mi ha aiutata in molti momenti difficili, assorbendo tutta la negatività in queste pagine, in modo molto alleggerito però. Quindi, mi piacerebbe molto che tante persone lascino qualcosa di proprio (un commento, positivo o negativo non importa - le critiche fanno crescere ^^ - una parola). 
Ringrazio tutti in anticipo e anche tutte le persone che mi hanno sostenuta e incoraggiata a continuare a scrivere.
Come al solito, ricordo che i TH non mi appartengono e tutto quello che scrivo è frutto della mia fantasia, anche se un briciolo di realtà c'è, la mia.
Grazie a tutti di cuore!! Un bacio, Ary.
P.S. Ah, buona lettura, ovviamente!! ^^

***




A Davide, che, pur non sapendolo,

mi rende fiera di lui ogni giorno e mi

rende felice di averlo come fratello.
«Perché le cose belle possono finire,
ma non lasceranno mai il tuo cuore.»
















Runnin’ through the monsoon, beyond the world, to the end of time, where the rain won’t hurt
Fighting the storm, into the blue
And when I lose myself, I’ll think of you
Together we’ll be running somewhere new
Through the monsoon, just me and you…

 

Monsoon – Tokio Hotel

 

 

Tutto, in principio, successe dopo un concerto dei magnifici Tokio Hotel.

Io e Antonia, la mia migliore amica, ritornammo in hotel, per passare la notte.

«Oh Ary! Sono così felice! Non ci posso ancora credere... siamo in Germania e abbiamo visto i Tokio Hotel!»

Stava ancora sognando. Stava ancora viaggiando con la mente a quando il suo sguardo e quello di Bill si erano incontrati, mentre le fans scatenate cantavano in coro con lui Spring Nicht, con il vento sparato nei capelli.

Anto si era in un certo senso innamorata di Bill dal primo momento che l’aveva visto, anche se era il suo opposto.

Io, invece, ero pazza per Tom. Mi piaceva il suo look, anche se non mi sarei mai vestita così, mi piacevano i suoi dreads, il suo piercing al labbro, come suonava la chitarra, sembrava un angelo quando la suonava. Anche se odiavo il suo comportamento con le ragazze. Comunque, c’era qualcosa in lui che mi attraeva, non sapevo cosa, però c’era.

Quella sera, io e Tom non ci eravamo neanche scambiati uno sguardo, al contrario di Bill e Anto, niente, il nulla.

Mentre Anto continuava a parlare non la ascoltavo neanche, ed ero realista sul fatto che il concerto fosse finito e il sogno con lui. Chissà quando, dove e come li avrei rivisti. Forse ancora, forse mai più da così vicino.

«Ma... Ary? Mi stai ascoltando?»

«Uhm? Cosa? Scusa, stavo pensando.»

«E a cosa?»

«Niente, niente.»

«Ok, come vuoi.»

«Ti dispiace se vado una attimo fuori?» indicai la porta, guardando Anto.

«No, vai. Io sto qui.»

«Ok.» Mi alzai dal letto velocemente, come se volessi scappare via, scappare dalla realtà.

Uscii dalla camera, dovevo riflettere: la fine del concerto aveva lasciato un gran vuoto dentro di me. C’era stato talmente tanto casino, talmente tanta gioia, che ora sentivo come un grande silenzio, una grande malinconia, e non mi piaceva sentirmi così. Non era nella mia natura.

Sapete quando non vi manca niente, avete tutto ciò che desiderate, però vi sentite quel vuoto dentro di voi, come se mancasse qualcosa. Qualcosa che non sai cos’è, però c’è. Che nervoso, odiavo non sapere le cose.

Tirai fuori dalla tasca il mio cellulare e composi a memoria il numero di mio fratello, poi me lo portai all’orecchio.

«Pronto?», disse con la voce impastata dal sonno.

«Ciao Davide, scusa, dormivi?»

«Sì, ma non fa niente. Che cosa c’è?»

«In verità niente, avevo solo voglia di sentirti.»

«Ah, bene. Com’è andato il concerto?»

«Benissimo, è stato mitico! Però non ci voglio pensare.»

«È già finito, eh?»

«Esatto. Ho atteso per mesi questo momento e adesso… è finito. Che tristezza.»

«Vedrai, ci saranno altre occasioni.»

«La prossima volta vieni pure tu?»

«Dovrai farmi il lavaggio del cervello prima che io vada di mia spontanea volontà in mezzo a tutta quella massa di ormoni femminili impazziti.»

«Ma io ci tengo, sei il mio fratellino!»

«Appunto per questo dovresti tenermi al sicuro!»

«Va bè, lasciamo perdere, va’», risi. «Tu e la tua testardaggine.»

«Ho preso da qualcuno», si lasciò andare ad uno sbadiglio.

«Sarà meglio che te ne torni a letto, prima che ti addormenti con il telefono in mano.»

«Forse hai ragione. Notte.»

«Notte fratellino, ti voglio bene.»

«Anch’io.»

Giocherellavo con le chiavi nella tasca dei jeans guardando per terra con il sorriso sulle labbra, pensando alla conversazione con il mio fratellino, quando mi ritrovai direttamente sulla moquette rossa del corridoio, culo a terra e vista offuscata da un’ombra su di me. Quell’ombra era sicuramente di un ragazzo: aveva jeans extra-large, maglietta bianca e un cappellino, anch’esso bianco, che gli copriva la faccia. Se lo tirò su e solo allora capii due cose: la prima, che la dea bendata aveva visto chissà che cosa in me tanto da premiarmi; e per seconda, realizzai che avevo di fronte Tom Kaulitz. Proprio lui, in carne ed ossa, il chitarrista dei Tokio Hotel. Non potevo credere ai miei occhi. Pensai di strofinarli, ma la mia coscienza intervenne: No, non farlo Ary, poi si sbava il trucco. Non li strofinai più, ma in compenso li chiusi e li riaprii più volte: non cambiò nulla. Era la realtà, la pura e così irreale realtà. Avevo avuto un contatto fisico (e anche abbastanza violento) con il ragazzo dei miei sogni, il ragazzo irraggiungibile, il ragazzo di cui ero follemente innamorata in tutti i miei strani sogni. Proprio lui.

Era davanti a me e mi guardava.

«Ahio», dissi toccandomi infondo alla schiena, distogliendo per poche frazioni di secondo lo sguardo dal suo viso.

«Scusa! Ti sei fatta male?» La sua voce sembrava così… irreale.

Stavo iniziando a capire ciò che era successo: io e Tom arrivavamo da due lati opposti del corridoio e, essendo distratti e assorti nei nostri pensieri, ci eravamo scontrati, e visto che io ero abbastanza fragile in confronto a lui, ero caduta rovinosamente a terra. Pensai che forse avevo fatto una figuraccia e subito la mia faccia avvampò di calore.

Sembrava preoccupato: ero caduta in modo così rovinoso? Mi sembrava di avere tutte le ossa al loro posto, era il cervello che si era spappolato del tutto. Mi porse la mano e i miei muscoli agirono tutti in sincronia, ma non ricordavo di aver pensato di farlo, forse non ce n’era stato nemmeno il tempo. La presi e mi alzai.

«Grazie», sussurrai a occhi bassi.

Lui non mi aveva ancora lasciato la mano e sperai fortemente che non lo facesse per il resto della mia vita, ma sfortunatamente se ne accorse e la lasciò in fretta per ficcarla nella tasca dei jeans.

Alzai lo sguardo e notai che i suoi occhi non aspettavano altro che ficcarsi nei miei, così accettai la sfida: ci guardammo negli occhi e nemmeno due secondi dopo scoppiammo a ridere, però avevo notato il castano splendente dei suoi occhi, nelle foto dei giornali non sembravano così belli. Riuscivo anche a vedere i miei occhi riflessi nei suoi, avevo una stana sensazione. Qualcosa di insolito, che non avevo mai provato.

«Ti sei fatta male?»

«No, tranquillo, non mi sono fatta niente. Tu?»

«Non ti preoccupare, io sto bene… mai stato meglio», sorrise dolcemente. Aveva un sorriso da togliere il fiato, sperai soltanto di riuscire a respirare almeno per non morirgli di fronte.

«Come ti chiami?»

«Arianna.» Gli porsi la mano mettendo tutta me stessa in un sorriso; avrei fatto di tutto per toccarlo di nuovo, ancora non sapevo che cosa sarebbe successo di lì a poco.

«Io sono Tom», disse stringendomi la mano. Aveva una presa forte, decisa.

Dicevano che si capiva com’era fatta una persona dalla stretta di mano, ma era vero? Beh, io avevo capito che era davvero bello!

«Beh, lo sapevo già», dissi ridacchiando, cercando di trattenermi, ma mi liberai subito quando anche lui scoppiò a ridere.

In un modo o nell’altro, ancora dovevo capire come ci eravamo arrivati, Tom mi propose di andare al bar con lui, a bere qualcosa, e io avevo accettato, ovviamente.

Andammo giù al bar dell’albergo, ci misimo di fronte al bancone e lui ordinò due birre, senza chiedere nulla.

«No scusa, per me un Bacardi alla pesca», lo corressi. Il barista sorrise e andò a prendere le altre ordinazioni. Guardai Tom e sorrisi dicendo: «Non mi piace la birra.»

Ci scambiammo un sorriso e senza che il tempo per me trascorresse arrivarono il Bacardi e la birra, mentre parlavamo della mia nazionalità.

«Ah, sei italiana! Ecco perché avevi un accento diverso», disse bevendo dalla sua bottiglia.

«Ed è buono o cattivo avere un accento diverso?», chiesi.

Giravo la bottiglia fredda del Bacardi tra le mani sudate e avevo sempre paura di fare un danno facendola cadere, facendo un’altra figuraccia, ma non riuscivo a stare tranquilla.

«Beh, penso sia… buono. Ho conosciuto poche persone straniere che parlavano bene il tedesco, ciò voleva dire che dovevo parlare in inglese, cosa che non mi va molto di fare. È bello, lo parli bene.»

«Grazie. Ho… ho imparato da piccola; sai, mio padre è tedesco.»

«Ah, ora si spiega. E poi?»

Lo guardai frastornata. Ero già ubriaca? Impossibile!

«E poi cosa, scusa?»

«Che altro mi racconti di te?»

Il suo sorriso toglieva davvero fiato e non riuscivo a concentrarmi su cosa dire, potevo anche fare la figura della scema con la bocca aperta e la bavetta che scendeva, tanto non me ne sarei mai accorta.

«Di me, ormai, non c’è più niente da dire. Voi fan sapete sempre tutto e a volte è preoccupante! Eri al concerto di stasera, vero?»

Annuii con la testa, sorridendo. Si ricordava di me tra tutte le ragazze che c’erano!

«Che memoria! Eravamo in tante!»

«No, è che…», indicò la fascia che avevo annodato intorno al passante dei jeans. «C’è la data di oggi.»

Rimasi quasi a bocca aperta, rendendomi conto di quanto fossi cretina, forse Anto aveva davvero ragione, quando me lo diceva.

Sorrise, bevve ancora un sorso. Così seguii il suo esempio e bevvi pure io. Volevo solo affogarmi nella mia vergogna.

Tom poggiò la bottiglia vuota sul bancone, attirando la mia attenzione, ma poi i miei occhi si persero letteralmente nei suoi.

«Sai, non è facile vivere questa vita; certo, ti diverti un sacco e fai cose che nessun altro potrebbe mai fare, però…» Lo guardai senza il magico sorriso che avevo prima. Anche Tom era serio, continuò: «Tutti pretendono sempre il massimo da te, stai lontano per molto tempo dalle persone a cui vuoi bene, i nostri genitori, gli amici, e, a volte, ti senti solo anche se sei con molta gente. Ed è anche difficile trovare... beh, l’anima gemella, dopotutto siamo giovani e non curare questo aspetto per noi è una perdita; anche se abbiamo molte fan, quando le incontriamo e ci dicono ti amo non sappiamo mai se è vero oppure solo perché ora siamo famosi.»

Sul fatto dell’amore vero ero d’accordo. Secondo me, di quei tempi, l’amore vero veniva sempre messo in dubbio, o perfino bestemmiato.

«Sai che penso?»

«No, ancora non sono in grado di leggere nel pensiero, ahimé. Che pensi?»

Mi scappò un sorriso e abbassai lo sguardo per non incrociare i suoi occhi e arrossire inevitabilmente.

«Beh, penso che comunque questo è il tuo lavoro. Come tutti ce l’hanno, tu hai il tuo e queste sono anche le responsabilità che ne derivano. Insomma, non è che fai l’artista, suoni, ti giri tutto il mondo, hai milioni di fan, e poi non devi pagare niente tu. Devi fare qualche sacrificio, come tutti tra l’altro. Anzi, tu sei fortunato. Pensa a stare tutto il giorno dietro una scrivania! Che palle. Io non ce la farei proprio!»

I nostri sguardi si incontrarono di nuovo e sorrisimo. Lui annuì guardando la sua bottiglia di vetro verde ormai vuota.

«Perché annuisci?», gli chiesi incuriosita, poggiandomi con le braccia al bancone.

«Stavo pensando che sei forte, davvero. Mi piaci, sì.» Mi guardò negli occhi, io tentai di fuggire, ma ormai era troppo tardi. Solo lui era in grado di salvarmi da sé stesso, infatti lo fece, con una domanda: «A cosa stavi pensando quando ci siamo scontrati?»

Dentro feci un sospiro di sollievo e presi la bottiglia del Bacardi, ne lessi gli ingredienti mentre rispondevo.

«Oh, bella domanda. Probabilmente avevo la testa fra le nuvole, come sempre. Me lo dicono tutti quanti…››

Sì, avevo la testa fra le nuvole, vero, ma avevo tralasciato il fatto che tra le nuvole con me c’erano quattro angeli tedeschi… e mio fratello. Che strana combinazione di persone.

Pensai di rifargli la domanda, chiedendogli: «E tu?» Ero davvero curiosa, ma non aprii bocca perché non volevo fare la figura dell’impicciona. E poi non mi avrebbe fatta parlare comunque.

«Ah, come mio fratello! Sempre distratto… Va bè, ma lui è un caso a parte.»

Sorrisi alla sua battutina contro il povero Bill che si era trovato nel mezzo del discorso così, senza un motivo valido, solo per una battuta del suo fratello gemello.

«Scusa, posso chiederti una cosa?», mi chiese.

Io annuii, bevendo l’ultimo sorso dalla mia bottiglia. Di domande lui ne aveva, il ciò voleva dire che avrei sentito solo la mia insulsa voce, ma pur di stare con lui avrei parlato solo io per l’eternità, c’era qualcosa che mi incatenava alla sedia accanto alla sua, al mio braccio che sfiorava il suo provocandomi dei brividi, ai suoi occhi e al suo profumo.

«Quanti anni hai?»

Appoggiai la bottiglia sul bancone in silenzio, mi si erano spenti gli occhi: non sapevo se mentire sulla mia età o no. Ci riflessi un po’ su e poi dissi, a bassa voce, come per rinnegarli, come per non farli sentire a nessuno, con quell’accenno di amarezza nella voce: «Quasi quindici.»

In quel momento avrei tanto voluto essere più grande di due o tre anni.

«Che cosa?» Tom era rimasto senza parole.

Mi guardai e poi guardai quel magnifico ragazzo accanto a me. «Eh… faccio quindici anni a novembre. Però molti mi dicono che sembro più grande. Perché lo volevi sapere?»

«Non lo so, così.»

Aveva cercato la via di fuga più breve, ne ero certa, ma non ci badai troppo e ci scherzai su: «Ah, è un buon segno non sapere perché si fanno le domande?»

Alzò di poco le mani: «Boh, dipende dai punti di vista.»

«Eh, certo.» Risimo ancora, instancabili di essere felici.

Mi accorsi che era tardissimo e che avevo lasciato Antonia in stanza da sola. Il pensiero della mia migliore amica mi catapultò di nuovo nel mondo reale e le catene alla sedia si volatilizzarono e fui libera, anche se ancora prigioniera. Anche Tom si era accorto dell’orario e della mia finta voglia di andarmene, e allora, senza paura di fare la figura dello sfrontato, mi chiese: «Mi dai il tuo numero?»

Mi girai e lo guardai negli occhi: stava scherzando? Certo, per lui era normale chiedere i numeri alle ragazze, ma pure a una senza carta d’identità? Cosa voleva, un’amichetta del cuore italiana bionda e con gli occhi azzurri? Però, nonostante reputavo la sua capacità di incantare il sesso femminile, soprattutto, con i suoi dolci occhi e quel sorriso da favola, non corretta, ero contenta che me lo avesse chiesto, magari un giorno mi avrebbe richiamata e solo per il gusto di parlare un po’ ci saremmo rivisti.

«Se non vuoi darmelo tranquilla, non c’è problema», disse stringendosi nelle spalle.

Mi ero fatta così tanti film che l’avevo lasciato senza una risposta. Mi ripresi come se qualcuno mi avesse tirato un ceffone dall’interno e balbettai: «No, no, se lo vuoi te lo do... il numero.»

Sul suo viso notai un senso di compiacimento quando salvò il mio numero sul suo cellulare, per altro uguale a quello avevo sempre desiderato. Avrei voluto allungare il collo per vedere con che nome l’aveva memorizzato, ma il suo sguardo di sottecchi mi impedì, quindi la mia fantasia ebbe libero sfogo: La quindicenne bionda? Occhi azzurri? Magari mi avrebbe chiamata semplicemente Arianna. Se proprio volevo che mi andasse di lusso Ary, come mi chiamavano un po’ tutti.

Il mio cellulare improvvisamente vibrò nella tasca e la nuvoletta su cui mi ero adagiata scomparve facendomi cadere per l’ennesima volta nel presente. Lo tirai fuori e vidi il simbolino dei messaggi sulla schermata. Aprii il messaggio e lo lessi a bassa voce: «Ciao, sono Tom, lo sai che hai degli occhi bellissimi?»

Ok, dovevo per forza essermi addormentata da un pezzo, probabilmente ascoltando parlare Anto del concerto, perché quello non poteva essere altro che un sogno. Molto realistico, ma pur sempre un sogno.

Alzai lo sguardo e mi tremarono le mani vedendo il suo sorriso che spazzava via la mia ipotesi del sogno.

«Tu?», balbettai indicando il suo cellulare e poi il mio.

«Si, io», rise di gusto e io mi sentii un’emerita cretina, non era proprio la mia serata.

Possibile? Mandandomi quel messaggio mi aveva automaticamen-te dato il suo numero e questo non era da lui. Di solito, da quello che sapevo, non dava mai il suo numero di cellulare alle fan. Mi chiesi perché io fossi diversa dalle altre. Perché a me quel trattamento speciale? Che cosa aveva visto di differente in me?

«Mi piacerebbe leggerti nel pensiero, a volte è come se ti perdessi in delle riflessioni che ti risucchiano da tutto il resto», disse.

Mi scrollai di dosso tutte quelle domande prettamente inutili in quel momento e sorrisi, avrei avuto tutta la notte per pensarci, anche perché sapevo che non sarei riuscita a dormire comunque.

«Sì, mi piace pensare. Comunque grazie per il complimento. Ora è meglio che vada, è tardi.»

Se fossi stata da sola mi sarei tirata un ceffone in fronte. Che voleva dire che era tardi? Che ero una bambina e che dovevo andare a nanna presto? Pensai ad Anto e le mie gambe si diedero una mossa e si spinsero giù dallo sgabello.

«Di già?», mi chiese Tom.

«Mi credi una bambina?» Le parole mi uscirono da sole, il che mi fece dubitare che il mio cervello esistesse ancora.

Scese anche lui dallo sgabello e mi raggiunse: «Mmm, no.»

«Bene», sfiatai. «Allora sì, di già.»

«Ok, ti accompagno.»

A metà rampa di scale, quando credevo che lui non mi avrebbe accompagnata veramente, mi girai e mi ritrovai con il viso a pochi centimetri dal suo petto. Alzai la testa per vederlo negli occhi, e lo trovai umiliante, mi sentivo come un nano di fronte a un gigante.

«Senti… Sei molto carino, ma non credo di aver bisogno della scorta», dissi a malincuore. Meglio un taglio netto, pensai, ma non lo volevo davvero. «Non serve, sul serio.»

«Scusami, ma credo di non poterne fare a meno: la natura di gentleman non si nasconde. E poi sono testardo, dovresti saperlo. Se dico una cosa la faccio.»

«Ok, ok!», tesi le mani avanti. «Mi arrendo.»

Mi sorrise e mi diede una spintarella sul braccio, per farmi continuare a camminare, solo che era al mio fianco; riuscivo a sentire il suo braccio sfiorare il mio e mi sentivo bene a quel contatto.

Ormai eravamo arrivati davanti alla mia porta e ci guardavamo negli occhi.

«Io sono arrivata.»

«Sei sicura? Camera centododici?»

«Si, fidati. Questa è la mia camera, numero centododici. Perché, la tua è la numero 483?»

«Pessima battuta», disse disapprovando, ma sorridendo.

«Sì, hai ragione, era pessima, ma almeno potevi far finta!»

«Ah, ah, ah… che ridere.»

«Sei proprio… mm, quando fai così.»

«Non ho bisogno che tu censuri gli insulti», disse divertito.

«Non era un insulto!»

«E allora cos’era?»

«Non so, ti lascio la libera interpretazione.»

«Ok, grazie. No, comunque c’era che… volevo stare ancora con te», proseguì scatenandomi dentro i cori di Hip-hip… Urrà! con tanto di cheerleaders e pom-pom. C’era solo da capire se stava dicendo la verità oppure scherzava.

«Uh, ma che carino… purtroppo devo andare», dissi facendo tutta la scena.

«No, prima di andare, posso dirti una cosa?», gli chiesi fermandomi di fronte a lui.

«Sì, che cosa?»

«Ti ricordi quando hai detto: Penso che di me, ormai, non ci sia più niente da dire… Voi fan sapete sempre tutto

«Sì, mi ricordo.»

«Ecco. Secondo me non è così: non penso tu sia il Tom che descrivono i giornali. E comunque una persona non si può mai sapere chi è, non si finisce mai di conoscerla veramente. Ti sembra solo di conoscerla, però se ci fai caso… non la conosci affatto.» Lo guardai e sorrisi. Lui, senza fiatare si avvicinò a me. Gli occhi di Tom mi guardavano da vicino, c’era una distanza paurosa tra i nostri occhi. Riuscivo a vedere ogni singola sfumatura del castano chiaro, ogni singolo sentimento che traspariva da quella fonte di emozioni. Il cuore mi accelerò quando si avvicinò ancora. Mi tolse una ciglia dalla guancia, dopodichè si allontanò di colpo, tornando indietro.

Fece per andarsene, girandosi, lasciandomi completamente con il fiato ancora sospeso e una grande confusione in testa.

«Sì, la penso uguale a te, ma è difficile conoscere una persona, ci vuole tempo e voglia. Sembra che sto mondo non abbia né tempo né voglia.»

Aveva fatto solo qualche passo, ma parlava con me senza nemmeno guardarmi, era forte come tipo. L’irraggiungibile.

«Hai ragione, ma non tutti nel mondo sono così. Sempre meglio provarci», dissi raggiungendolo.

Lui si girò e mi guardò negli occhi: «Però ci sono i pro e contro nel conoscere altra gente. A volte sarebbe molto meglio non conoscere certe persone, fidati.»

«Mi fido, ma mica tutte.»

Mi ritrovai ancora nei suoi occhi, come un pesce spaesato in troppo blu. Ingoiai della saliva e sentii ancora il mio corpo desideroso di contatto fisico con lui prendere il sopravvento sul mio povero cervello: mi avvicinai timida (un briciolo di cervello ancora c’era) e gli diedi un bacio, sulle labbra.

Gli avevo rubato un bacio, d’altronde mi piaceva, non potevo farci niente. Mi staccai e sorrisi; facendomi fare i salti di gioia, anche lui sorrise.

«Se vuoi continuiamo a parlarne domani, che ne dici?», gli proposi.

«Ok, con molto piacere. È bello parlare con te, sei molto più grande e più matura di quanto sembri.»

Lo ringraziai con un sorriso ed entrai in camera.

Tom si girò e andò verso la sua camera, sorridendo. Attraversò il corridoio, arrivò alla camera di Georg ed entrò, raggiante. Dentro trovò anche Gustav.

«Eccoti! Finalmente! Ma dov’eri andato a finire?!», urlò Georg.

«Ehi, calmati! Ero al bar. Oh, ho conosciuto una… voi non ve la immaginate neanche!»

«Ma che novità. Sai che lo dici più o meno tutte le sere? Comunque, te la sarai già fatta, immagino.»

Tom sorrise, indicandolo: «Eh no! È su questo che ti sbagli! Mi ha baciato lei. Capito la ragazza? Prima fa tutta la disinteressata, poi fa l’intraprendente…»

«Guarda, il tuo tipo.»

«A proposito, dov’è Bill?», chiese.

«È uscito poco fa», rispose Gustav.

«Va bè, glielo racconterò domani.»

Tom si buttò sul letto, pensandomi. Anche se voleva, non poteva non pensarmi, lo avevo proprio conquistato.

«Comunque. Non era quell’intraprendenza… come posso dire, aggressiva. Era tutta tenera, quasi tremava. Abbiamo parlato un po’, sembra così diversa dalle altre», disse. «Mah, non lo so.»

 

Chiusi la porta dietro di me e mi ci appoggiai, chiudendo gli occhi e pensando e ripensando a quella magica sera. Dopo un bel po’ mi accorsi che Antonia non c’era. Non rimasi molto tempo a riflettere a dove potesse essere andata, infatti riuscivo solo a pensare e a ripensare al nostro bacio, come un registratore andavo avanti e indietro e lo guardavo da ogni angolatura. Mi aveva proprio presa.

 

Verso le due di notte, mi svegliai con il rumore dei pugni sulla porta. Sobbalzai dallo spavento e ci misi un po’ prima di connettere che veramente qualcuno stava per sfondarmi la porta dalla forza utilizzata. Mi alzai grattandomi la nuca, non mi ero nemmeno cambiata ed ero ancora in jeans e canottiera. Pensai che forse era Anto, che si era decisa a tornare. Ma con mia grande sorpresa vidi Tom, appoggiato con un braccio alla parete.

«E tu che ci fai qui? Guarda che se ti ha dato fastidio il bacio…»

Tom sorrise e non mi lasciò dire altro: mi baciò, spingendomi dentro in camera. Mi prese il viso fra le mani e infilò le dita tra i miei capelli, inclinandomi la testa verso l’alto mentre mi baciava con una passione che non mi sarei mai immaginata.

Gli misi le mani sul petto e mi staccai. Lo guardai negli occhi: «Che cosa vuoi?»

Tom si mise una mano sul cappello, mentre io andavo verso il bagno.

«Ti devo parlare», disse chiudendo la porta alle sue spalle.

Non sapevo che saltare addosso ad una persona e baciarla in quel modo fosse un modo per dire che si voleva parlare.

Accesi la luce del bagno e mi coprii la faccia con le mani. Finalmente riuscii ad aprire gli occhi: mi vidi allo specchio. Avevo dei capelli da far paura, così me li appiattii un po’.

«E proprio adesso dovevi parlarmi? Non potevi aspettare domani? Anche se… è come se fosse già domani.»

«No, non potevo.»

Mi feci una coda con le mani, cercando ispirazione dallo specchio. Decisi di lasciare i capelli sciolti.

«Ok, sentiamo. Che mi devi dire?»

Mi guardai ancora nello specchio e tutto quello che successe dopo, accadde in un attimo.

Era arrivato silenzioso, non l’avevo nemmeno visto entrare. Non avrei mai immaginato che potesse succedere, non così presto, o forse si. Forse era quello che volevo anche io, ma non lo volevo ammettere.

Le braccia di Tom mi cinsero il bacino, in un atto protettivo, amorevole, come se volesse legarmi a sé. Alzai lo sguardo sullo specchio: vidi Tom dietro di me, la testa appoggiata alla mia spalla, lo sguardo basso, sfuggente, perso.

«Sai, sono stato bene stasera… e così, mi chiedevo: Perché finire? La notte è ancora lunga.»

Non dissi niente. Primo, non sapevo cosa dire; secondo, tanto qualsiasi cosa avessi detto, non sarebbe cambiato niente; e terzo, ero rimasta pietrificata.

Non sapevo cosa stesse accadendo lì, in quel momento, una cosa strana, sicuramente. In quegli attimi fuggenti che non tornavano indietro, che non si potevano fermare.

Il corpo di Tom premeva dolcemente contro il mio, era piacevole, però non riuscivo ancora a capirne il  significato, forse per il sonno, ma non lo capivo, anche se dentro me lo sentivo che sarebbe successo qualcosa che avrebbe cambiato tutta la mia vita.

Tom scostò i capelli dalla mia nuca, e pian piano cominciò a baciarmi il collo, lievemente, come se avesse timore della mia reazione.

Io mi irrigidii, qualcosa di strano, qualcosa di maledettamente dolce mi scendeva giù nelle viscere, non riuscivo a contrastarlo, non potevo, forse non volevo.

Tom continuò a donarmi quei lievi baci, le morbide labbra che premevano contro il mio collo, quella parte così sensibile di me, che non potevo non lasciarmi andare, era impossibile.

Alzò di poco le mani, dal bacino salì su piano, sullo stomaco, con calma, caldamente, voleva che gli manifestassi un segnale, ma dentro di lui capiva, lo sapeva, sapeva quello che provavo e quello che volevo.

Spostai la testa verso sinistra, Tom mi scostò i capelli dalla parte destra, dolcemente, e affondò le proprie labbra nel mio collo.

Chiusi gli occhi, ero in paradiso, non mi importava più cosa fosse giusto e cosa sbagliato, non mi importava se avevo solo quattordici anni e lui diciotto.

Stava succedendo qualcosa, ne ero certa.

Tom mi accarezzò i capelli, un movimento circolare, da far impazzire, da far girare la testa, non riuscivo a sottrarmi, era come essere sotto l’effetto di una magia, di un sortilegio, le quali redini erano in mano di Tom.

I baci ora lievi, ora più profondi, fecero scattare qualcosa dentro Tom. Che si fosse reso conto di quello che stavamo per fare?

Io non volevo più tirarmi indietro. Mi girai, aprii gli occhi e li fissai dentro quelli di Tom.

Entrambi trattemmo il respiro. Il tempo sembrava svanito. Ci fissammo immobili per diversi ed eterni secondi, gli occhi persi l’uno dentro l’altra, persi dentro qualcosa più grande di noi, qualcosa di incomprensibile, come quell’incomprensibile attrazione che provavamo entrambi l’uno verso l’altra. Non ci conoscevamo neanche, forse un po’, e comunque c’era quell’attrazione tra di noi, che ci faceva impazzire.

I nostri sguardi si fecero vaghi, confusi, futili. Si avvicinò a me, appoggiò le labbra sull’angolo sinistro della mia bocca: «Posso?»

Sorrisi e lo prese come un sì.

Io mugolai, ma non ci feci troppo caso. Baciarlo, baciarci, mi piaceva, mi piaceva maledettamente; continuavo a baciare quelle labbra così irraggiungibili e finalmente lì, che baciavano le mie.

Spinsi la lingua fra i denti di Tom. Lui schiuse docilmente la bocca, contento della mia prima mossa. Era così dolce, così violento. Non sarei mai riuscita a saperlo con certezza, era così vero che non riuscivo a capirne il senso.

Incontrai la lingua di Tom. Un colpo al cuore, un pugno al cervello, mi si strinse lo stomaco: la mia mente si aprì al desiderio, e solo l’istinto era in grado di guidarmi verso quel viaggio, verso quel vento impetuoso, attraverso quel monsone dalla meta ignota.

Era un bacio di lingue in lotta, una battaglia in cui non ci sarebbero stati né vinti né vincitori, ma nemmeno arresi. Un bacio profondo, magnifico.

Tom si staccò dal bacio, lasciandomi una sensazione di solitudine immensa, eppure era lì, di fronte a me, che mi guardava negli occhi. Mi prese le mani, le strinse, io chiusi gli occhi. Ero sua, solamente sua.

Tom mi spinse piano contro la parete, sentii le piastrelle fredde dietro di me, continuò a stringermi le mani.

Ormai non saremmo più scappati dalla notte, da quello che sarebbe successo, lo sapevamo entrambi.

Le portò ai lati della testa, contro il muro, le mantenne ferme con decisa dolcezza, incominciò a baciarmi il collo, affondando le morbide labbra contro la mia pelle, nuvola contro nuvola, soffici labbra contro soffice corpo; non resistevo, mi abbandonai alla dolce stretta di Tom. La sua lingua studiò ogni singolo millimetro di me, del mio collo, di quella fonte di piacere.

Aprii gli occhi: riuscivo a vedermi riflessa nello specchio davanti a me, io, io e Tom di spalle, Tom, appoggiato su di me, le sue spalle e i miei occhi, sembrava che sorridessero. Era un sogno dal quale non volevo svegliarmi. Dalle mie labbra sfuggì un ansito, ero preda, preda di me stessa, preda dell’amore, preda del fuoco.

Tom riuscì ad avvertirlo, sapeva cosa sarebbe successo. Confusamente mi strinse a sé, io ricambiai, disperatamente persa dentro di lui. Tom mi strinse piano le mani. Faceva tutto, mi accarezzava, mi stringeva, con una delicatezza impressionante, come se fossi di vetro, fragile, che si poteva rompere al minimo contatto brusco.

Senza una parola ricominciò a baciarmi e, senza accorgercene, fummo davanti al letto, il mio letto. Ci sdraiammo assieme, senza smettere di baciarci, senza interrompere quello che per me era uno squarcio di paradiso, senza una parola.

Tom era sopra di me, lentamente mi tirò su la canottiera, le dita che non volevano smettere di tremare, una lentezza esasperante, ma proprio non ci riusciva, era come bloccato, le fiamme lo stavano divorando. Aveva paura di ferirmi, aveva paura di fare qualcosa di sbagliato e che quel momento si rovinasse, come un vetro rovinato da una crepa.

Un po’ di paura ce l’avevo, infondo sarebbe stata la mia prima volta, e come tutte le ragazze normali provavo quel nodo allo stomaco e quella strana sensazione di imbarazzo.

Sorrisi e gli accarezzai la guancia, portando le sue labbra vicine alle mie, in un bacio.

Tom rise appena e fu come se tutti i dubbi, tutte le ansie si volatilizzassero nel nulla. Mi tolse del tutto la canottiera e in quel momento il mio corpo apparve privo di difese sotto le dita di Tom. Anche lì, movimenti circolari, eccitanti, innocentemente provocatori, maledettamente veri, maledettamente ardenti.

Non era che l’inizio della corsa, la notte scappava, e io avrei voluto tanto fermarla, avrei dato qualsiasi cosa.

Tom si chinò sul mio petto, assaporò ogni suo millimetro, assaggiò ogni piccola parte di me, con calma, con tenerezza.

Scese più giù, sul bacino, vedeva la mia pelle ricoperta dai brividi. Quella stanza era così piccola per le nostre emozioni, così grande per sfogare la passione.

Mi baciava, ad intervalli regolari tornava su, mi donava il sapore della sua pelle calda, e io non ero più in me. Slacciò il primo bottone dei miei jeans, con il cuore in gola, sopraffatto dal persistente timore, dalla paura, dall’amore stesso. Aveva paura di amare come non aveva mai amato prima d’ora. Anche per lui era la prima volta che provava questo sentimento nella sua manifesta-zione più vera, più pura. Amare una persona non per il solo fatto di sesso, ma per qualcosa di più, qualcosa di più innocente, di più profondo. O almeno… ancora non sapeva che era così.

Un groppo in gola, il cuore che scoppiava nella cassa toracica, un’emozione indescrivibile.

Non sapevo per quanto tempo fosse durato, però poi crollammo sfiniti fianco a fianco, con il petto che si alzava e si abbassava velocemente.

Dopo un po’, pian piano Tom si avvicinò, mi abbracciò e mi strinse a sé. Fui confortata da quell’abbraccio, chiusi gli occhi e mi lasciai andare alla dolce stretta di Tom. I nostri caldi corpi erano ancora vicini e rimasero così per alcuni secondi.

Nonostante fosse già l’alba, ci addormentammo così, l’una aggrappata all’altro, come se avessimo paura di perderci, perderci nel nostro stesso amore.

   
 
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