Questa storia partecipa al
Challenge I
Parenti Poveri ovvero
Quei Poveri Parenti su ELF.
È dedicata alla Kits che sbetazza, a Kara che
leggerà NONOSTANTE Kennino, a Rel perché so che
apprezza e a tutti coloro che leggeranno e seguiranno questa
mia…
Come
ogni sera, finiti gli allenamenti, Ken gettò, con un
sospiro, il borsone in un angolo della stanza, in un altro la paccata
di
documenti da firmare che i dirigenti della società gli
avevano dato proprio
quel giorno, il cappellino sulla minuscola scrivania e, infine, se
stesso sul
letto - troppo piccolo: una specie di leitmotiv per un giapponese di un
metro e
ottantacinque.
Si sentiva stanco e svuotato, eppure quegli allenamenti “da
professionista” erano niente in confronto alle sfacchinate
col Mister Kira. O
con Mikami.
Strinse i pugni pensando a Mikami. Dentro di sé, continuava
a ripetersi che era tutta colpa di quell’uomo e della sua
fissazione con Genzo…
Non era scappato, non era fuggito perché aveva paura di
confrontarsi con
Wakabayashi. Se ne era andato perché il confronto non era
leale. O meglio non
era leale colui che era chiamato a giudicare. Mikami era ingiusto con
lui.
Profondamente ingiusto. E Ken non era tipo da ricorrere a mezzucci o
minacce:
era uno che cercava e voleva solo lo scontro leale, e
se questo non ci
poteva essere, Ken sgombrava il campo. E faceva posto a Genzo.
Il suo cuore sanguinava come i polsi del
rivale nel vederlo giocare in quelle condizioni. Per
quanto si
sforzasse non riusciva a odiarlo, così
come non riusciva a non ammirarlo e a non bramare un confronto equo con
lui.
Ma con Mikami di mezzo questo non era possibile.
Eppure ogni sera i suoi compagni gli mancavano. Da morire.
Gli occhi gli si riempirono di lacrime.
Nella stanzetta asettica dove su ogni cosa, persino sulle
lenzuola, spiccava lo stemma degli Yokohama Flügels, poteva anche piangere. Nessuno lo
avrebbe preso in giro o gli
avrebbe dato della femminuccia.
Nessuno lo avrebbe neanche consolato, però.
All’improvviso il cellulare squillò. Un numero
strano.
“Pronto”.
“Ken, sono Takeshi. Non riattaccare”.
Seppur controvoglia, Ken obbedì. E stette ad ascoltare,
tremante, mentre Sawada gli diceva che la mamma di Hyuga aveva avuto un
malore
ed era ricoverata all’ospedale di Tokio
in gravissime condizioni.
“Noi, compreso Kojiro, siamo bloccati in Indonesia, so che
sei impegnato con gli allenamenti ma…”
Certo che sarebbe andato.
Le lacrime gli rigavano copiose il viso, non solo per aver
sentito la voce di Takeshi e, in lontananza, quella di altri compagni,
come
usciti dai suoi pensieri di poco prima, ma soprattutto per Kojiro e per
sua
madre. Quando in famiglia non tirava aria buona, casa Hyuga era sempre
stato un
porto sicuro. Nonostante avesse tanti figli e ancor più
preoccupazioni, quella
donna trovava sempre una parola dolce, un abbraccio e magari qualche
leccornia
per tirargli su il morale.
Era il momento di sdebitarsi.
Si vestì in tutta fretta, senza degnare del
benché minimo
sguardo la risma di documenti da firmare. Disse
all’allenatore che aveva dei
problemi di famiglia e che sarebbe tornato prima possibile. Il tono non
ammetteva repliche e, comunque, Ken si dileguò a una
velocità tale da non
lasciare al mister il tempo per formularle.
A poche ore dalla telefonata di Takeshi, Ken era già di
fronte all’ospedale. Il tempo di chiedere dove
Ebbe un brivido nel vederla inerte su quel lettino, piena di
fili, macchinari e tubicini, brivido che si fece sudore gelido pensando
alla
già precaria situazione familiare di Kojiro.
Pensò che i problemi che tutti in
casa sua tendevano a farsi non fossero altro che
grandissime cazzate, e
si ripropose di organizzare al più presto una bella riunione
di famiglia.
“Tu sei… Wakashimazu… Ken, ti chiami
così vero?”
Una vocina sottile e melodiosa interruppe il suo flusso di
coscienza. Si girò di scatto e si trovò davanti
una faccia familiare, ma
inaspettata.
“Sì, ciao” rispose Ken. “Tu
invece sei la donna di Misugi’?
Aspetta…”
“Yayoi. Yayoi Aoba” gli venne in aiuto lei
sorridendo
dolcemente.
“Sì, certo… scusami,”
farfugliò Ken, sfregandosi imbarazzato
la nuca, “è che non… non ti ci
facevo… come…”
“Come mai sono qui?” fu di nuovo lei a completargli
la
frase. “Visto che né Kojiro né gli
altri compagni potevano abbandonare il
campionato, Jun ha chiesto a me di venire a dare una mano…
Sai, studio
per diventare infermiera e poi Jun mi ha raccontato la situazione in
casa di
Kojiro... è così triste, quei poveri
bambini…”
Aveva gli occhi lucidi, le mani giunte e un tono un po’
melodrammatico, ma Ken sentiva chiaramente che la voce le vibrava di
autentica
partecipazione.
Per lui, abituato all’amicizia forte e sincera ma senza
fronzoli di Hyuga, all’affetto intenso ma distaccato di sua
madre e alla
formalità di suo padre, l’empatia e la
partecipazione di quella ragazza erano
qualcosa di incredibile, che gli scaldò il cuore.
Trascorsero diverse ore insieme e Yayoi, che a dispetto
dell’aria riservata aveva una discreta parlantina, lo
aggiornò sia sulle
condizioni della signora Hyuga, sia sul procedere del campionato in
Indonesia,
riuscendo tuttavia, con eleganza, a evitare qualsiasi accenno al suo
abbandono,
probabilmente per non metterlo in imbarazzo.
Ken, da parte sua, non era un gran chiacchierone ma in
compenso era un buon ascoltatore e la voce sottile di Yayoi -
poco più
che un sussurro visto il luogo in cui si trovavano- unita alla la sua
conversazione vivace ma sempre misurata, gli insinuò una
strana calma,
facendogli realizzare quanto fosse stanco e affamato.
Yayoi avrebbe atteso che passasse il dottore per chiedergli
ulteriori spiegazioni, poi sarebbe andata a casa. Si dettero
appuntamento per
il mattino seguente.
In
confronto all’interno dell’ospedale, illuminato a
giorno
da bianche luci al neon, il sentiero che riportava sulla via principale
sembrava
buio pesto, nonostante alcuni lampioni.
Ken fece appena in tempo a cogliere un movimento
nell’oscurità, poi uno, due, tre pugni lo
raggiunsero al volto e allo stomaco
prima che il karateka in lui reagisse adeguatamente. La lotta si
protrasse per
un po’ e, nonostante la sua abilità, non riusciva
ad aver ragione dell’avversario.
C’era qualcosa di familiare nel suo modo di combattere, si
trovò a pensare Ken, riuscendo per un attimo a staccarsi per
riprendere fiato.
Fissò l’avversario, che adesso si trovava
esattamente sotto il lampione, in
piena luce. Si dispose a difendersi dal suo successivo attacco.
Ma l’altro non attaccò. Raddrizzò la
schiena, dette una
ravviata ai corti capelli neri, si asciugò una goccia di
sangue dal labbro e
sorrise.
“Non hai perso il tuo smalto, Ken”.
Il portiere si rilassò a sua volta ergendosi in tutta la sua
altezza, quindici buoni centimetri più del suo avversario, e il movimento gli causò
una fitta al
fianco, dove l’altro l’aveva colpito piuttosto
duramente. Sentiva pulsare anche
lo zigomo destro.
“Chi diavolo sei? Che modi sono questi?”
“Andiamo bene, non mi riconosci nemmeno. E io che credevo di
essere invisibile solo agli occhi di papà”.
“Kyo”.
“Presente. Come stai, fratellino?”