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Autore: berlinene    27/04/2009    6 recensioni
Ken Wakashimazu sta attraversando un periodo difficile, ha abbandonato la Nazionale per unirsi agli Yokohama Flügels. Ma un paio di incontri inaspettati gli faranno vedere le cose in una luce diversa…. La mia prima long (parola grossa, in realtà mi son fissata di dividerla in più capitoli ma il materiale è al solito scarso e scarno…) ovviamente tutta dedicata al mio personaggio preferito, preso in un momento difficile, con alle spalle una scelta che molti giudicano vile, e davanti grandi interrogativi.
Genere: Generale, Commedia, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Ed Warner/Ken Wakashimazu, Sorpresa, Yayoi Aoba/Amy
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Questa storia partecipa al Challenge I Parenti Poveri ovvero Quei Poveri Parenti su ELF.
È dedicata alla Kits che sbetazza, a Kara che leggerà NONOSTANTE Kennino, a Rel perché so che apprezza e a tutti coloro che leggeranno e seguiranno questa mia…

Come ogni sera, finiti gli allenamenti, Ken gettò, con un sospiro, il borsone in un angolo della stanza, in un altro la paccata di documenti da firmare che i dirigenti della società gli avevano dato proprio quel giorno, il cappellino sulla minuscola scrivania e, infine, se stesso sul letto - troppo piccolo: una specie di leitmotiv per un giapponese di un metro e ottantacinque.
Si sentiva stanco e svuotato, eppure quegli allenamenti “da professionista” erano niente in confronto alle sfacchinate col Mister Kira. O con Mikami.
Strinse i pugni pensando a Mikami. Dentro di sé, continuava a ripetersi che era tutta colpa di quell’uomo e della sua fissazione con Genzo… Non era scappato, non era fuggito perché aveva paura di confrontarsi con Wakabayashi. Se ne era andato perché il confronto non era leale. O meglio non era leale colui che era chiamato a giudicare. Mikami era ingiusto con lui. Profondamente ingiusto. E Ken non era tipo da ricorrere a mezzucci o minacce: era uno che cercava e voleva solo lo scontro leale, e se questo non ci poteva essere, Ken sgombrava il campo. E faceva posto a Genzo.
Il suo cuore sanguinava come i polsi del rivale nel vederlo giocare in quelle condizioni. Per quanto si sforzasse non riusciva a odiarlo, così come non riusciva a non ammirarlo e a non bramare un confronto equo con lui.
Ma con Mikami di mezzo questo non era possibile.
Eppure ogni sera i suoi compagni gli mancavano. Da morire.
Gli occhi gli si riempirono di lacrime.
Nella stanzetta asettica dove su ogni cosa, persino sulle lenzuola, spiccava lo stemma degli Yokohama Flügels, poteva anche piangere. Nessuno lo avrebbe preso in giro o gli avrebbe dato della femminuccia.
Nessuno lo avrebbe neanche consolato, però.
All’improvviso il cellulare squillò. Un numero strano.
“Pronto”.
“Ken, sono Takeshi. Non riattaccare”.
Seppur controvoglia, Ken obbedì. E stette ad ascoltare, tremante, mentre Sawada gli diceva che la mamma di Hyuga aveva avuto un malore ed era ricoverata all’ospedale di Tokio in gravissime condizioni.
“Noi, compreso Kojiro, siamo bloccati in Indonesia, so che sei impegnato con gli allenamenti ma…”
Certo che sarebbe andato.
Le lacrime gli rigavano copiose il viso, non solo per aver sentito la voce di Takeshi e, in lontananza, quella di altri compagni, come usciti dai suoi pensieri di poco prima, ma soprattutto per Kojiro e per sua madre. Quando in famiglia non tirava aria buona, casa Hyuga era sempre stato un porto sicuro. Nonostante avesse tanti figli e ancor più preoccupazioni, quella donna trovava sempre una parola dolce, un abbraccio e magari qualche leccornia per tirargli su il morale.
Era il momento di sdebitarsi.
Si vestì in tutta fretta, senza degnare del benché minimo sguardo la risma di documenti da firmare. Disse all’allenatore che aveva dei problemi di famiglia e che sarebbe tornato prima possibile. Il tono non ammetteva repliche e, comunque, Ken si dileguò a una velocità tale da non lasciare al mister il tempo per formularle.
A poche ore dalla telefonata di Takeshi, Ken era già di fronte all’ospedale. Il tempo di chiedere dove la signora Hyuga fosse ricoverata e presto si trovò davanti la madre del suo migliore amico.
Ebbe un brivido nel vederla inerte su quel lettino, piena di fili, macchinari e tubicini, brivido che si fece sudore gelido pensando alla già precaria situazione familiare di Kojiro. Pensò che i problemi che tutti in casa sua tendevano a farsi non fossero altro che grandissime cazzate, e si ripropose di organizzare al più presto una bella riunione di famiglia.
“Tu sei… Wakashimazu… Ken, ti chiami così vero?”
Una vocina sottile e melodiosa interruppe il suo flusso di coscienza. Si girò di scatto e si trovò davanti una faccia familiare, ma inaspettata.
“Sì, ciao” rispose Ken. “Tu invece sei la donna di Misugi’? Aspetta…”
“Yayoi. Yayoi Aoba” gli venne in aiuto lei sorridendo dolcemente.
“Sì, certo… scusami,” farfugliò Ken, sfregandosi imbarazzato la nuca, “è che non… non ti ci facevo… come…”
“Come mai sono qui?” fu di nuovo lei a completargli la frase. “Visto che né Kojiro né gli altri compagni potevano abbandonare il campionato, Jun ha chiesto a me di venire a dare una mano… Sai, studio per diventare infermiera e poi Jun mi ha raccontato la situazione in casa di Kojiro... è così triste, quei poveri bambini…”
Aveva gli occhi lucidi, le mani giunte e un tono un po’ melodrammatico, ma Ken sentiva chiaramente che la voce le vibrava di autentica partecipazione.
Per lui, abituato all’amicizia forte e sincera ma senza fronzoli di Hyuga, all’affetto intenso ma distaccato di sua madre e alla formalità di suo padre, l’empatia e la partecipazione di quella ragazza erano qualcosa di incredibile, che gli scaldò il cuore.
Trascorsero diverse ore insieme e Yayoi, che a dispetto dell’aria riservata aveva una discreta parlantina, lo aggiornò sia sulle condizioni della signora Hyuga, sia sul procedere del campionato in Indonesia, riuscendo tuttavia, con eleganza, a evitare qualsiasi accenno al suo abbandono, probabilmente per non metterlo in imbarazzo.
Ken, da parte sua, non era un gran chiacchierone ma in compenso era un buon ascoltatore e la voce sottile di Yayoi - poco più che un sussurro visto il luogo in cui si trovavano- unita alla la sua conversazione vivace ma sempre misurata, gli insinuò una strana calma, facendogli realizzare quanto fosse stanco e affamato.
Yayoi avrebbe atteso che passasse il dottore per chiedergli ulteriori spiegazioni, poi sarebbe andata a casa. Si dettero appuntamento per il mattino seguente.

In confronto all’interno dell’ospedale, illuminato a giorno da bianche luci al neon, il sentiero che riportava sulla via principale sembrava buio pesto, nonostante alcuni lampioni.
Ken fece appena in tempo a cogliere un movimento nell’oscurità, poi uno, due, tre pugni lo raggiunsero al volto e allo stomaco prima che il karateka in lui reagisse adeguatamente. La lotta si protrasse per un po’ e, nonostante la sua abilità, non riusciva ad aver ragione dell’avversario.
C’era qualcosa di familiare nel suo modo di combattere, si trovò a pensare Ken, riuscendo per un attimo a staccarsi per riprendere fiato. Fissò l’avversario, che adesso si trovava esattamente sotto il lampione, in piena luce. Si dispose a difendersi dal suo successivo attacco.
Ma l’altro non attaccò. Raddrizzò la schiena, dette una ravviata ai corti capelli neri, si asciugò una goccia di sangue dal labbro e sorrise.
“Non hai perso il tuo smalto, Ken”.
Il portiere si rilassò a sua volta ergendosi in tutta la sua altezza, quindici buoni centimetri più del suo avversario, e il movimento gli causò una fitta al fianco, dove l’altro l’aveva colpito piuttosto duramente. Sentiva pulsare anche lo zigomo destro.
“Chi diavolo sei? Che modi sono questi?”
“Andiamo bene, non mi riconosci nemmeno. E io che credevo di essere invisibile solo agli occhi di papà”.
“Kyo”.
“Presente. Come stai, fratellino?”

   
 
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