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Autore: FRAMAR    21/08/2016    26 recensioni
Credevo nelle fiabe e con Alfio avevo trovato il principe azzurro, ma che delusione. Avevo chiuso con l'amore quando un giorno al semaforo... scopritelo voi stessi cosa è accaduto.
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Racconto dedicato ad Avery84, bravissima ragazza nonchè grande amica-
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Genere: Commedia, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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ESISTE L’AMORE VERO?




 
Questa è la storia di me, una ragazza che credeva l’amore fosse fantastico come la più fantastica delle fiabe. Dieci anni fa, quando la storia ebbe inizio, io ero già infatti una ragazza, anche se in famiglia  parlavano di me come della “bambina” e mi facevano portare i calzettoni. Leggevo romanzi d’amore e piangevo e gioivo sulle avventure dei protagonisti come lo conoscessi di persona. Sognavo l’abbandono totale, al punto che mi pareva strano come la gente dei romanzi potesse, nonostante l’amore, mangiare e dormire e andare a lavorare come niente fosse.  In fondo in fondo preferivo ancora le fiabe: almeno lì gli innamorati si limitavano a “vivere felici per sempre” e io potevo immaginarmeli abbracciati all’infinito senza che necessità corporali o lavorative li interrompessero o alterassero i loro discorso d’amore.

Con queste idee in testa conobbi Alfio. Mio padre faceva allora il capo giardiniere e sorvegliava la manutenzione del campo di golf presso il quale abitavamo. Andavo a scuola in bicicletta e avevo voluto fare anche l’Istituto tecnico, appoggiata in questo da mia madre che pensava lo studio potesse aprirmi le porte del golf come a una socia e non come a una dipendente. Alfio era un socio. Veniva a giocare un paio di volte alla settimana con gente più vecchia di lui. Lo conobbi in seguito a una protesta che rivolse alla direzione e per la quale mio padre fu convocato. Era successo che un cane, introdottosi  nel campo attraverso un buco fatto nella recinzione non si sa da chi, aveva stanato un coniglio selvatico. Il coniglio era scappato e nella traiettoria di fuga aveva urtato e fatto deviare la palla di uno degli amici di Alfio. Il problema stava nel fatto che non avrebbero dovuto esserci conigli. E tantomeno cani, nel campo da golf. La colpa era di mio padre che non aveva evidentemente tenuto sott’occhio a dovere la recinzione. Quando papà se ne andò a vedere il buco, accompagnato da uno dei ragazzi coglipalla io restai nei pressi del bar e ci restò anche Alfio. Me l’ero già sognato diverse volte quell’Aurelio lì, tanto appariva simile a uno degli eroi dei romanzi che leggevo: era altrettanto bello, aitante, e guidava una macchina lussuosa. Entrava nei sogni senza io volessi, peccato che proprio sembrava che il sogno fosse realtà e sentivo le sue braccia stringermi forte, che mi svegliava, chiamata da mia madre  e scoprivo che le braccia di Alfio  erano il lenzuolo attorcigliato intorno alle mie spalle.

“Mi dispiace per tuo padre”, fece Alfio quel giorno al bar. “Ho visto che c’è rimasto male. D’altra parte il mio principale ha voluto che protestassi. Per lui un coniglio in un campo di golf è peggio di una mosca nella minestra”.

Poi mi chiese che cosa bevessi. Io volevo essere all’altezza, avrei voluto nominare qualcosa di molto fine, di usuale fra la gente che gioca a golf, ma non sapevo che cosa potesse essere. Poi, siccome il giorno prima avevo sentito dire alla radio che il whisky si dovrebbe bere come aperitivo  chiesi un whisky. Alfio me lo portò di persona, e si sedette sul muretto della vasca dei papiri invitandomi a fare altrettanto. A me già pareva di vivere in un romanzo, e mi sedetti accanto a lui tirando su le gambe e ripiegandole incrociate sotto il corpo così come pochi giorni prima avevo visto fotografata su un giornale una cantante.

Alfio mi chiese un sacco di cose, alle quali risposi diligentemente. Quanto a me, non osavo chiedere. E poi che cosa?  Di lui mi interessava la persona fisica e quella era già lì, accanto a me, vestita con un bel paio di pantaloni di lino, una casacca pure di lino, un bel foulard al collo. Non mi importava, come poteva importare a lui, sapere che cosa faceva o parlare della vita al di fuori di noi.
Insomma, stavo sostanzialmente vivendo alla pagina ottantadue dell’ultimo libro vecchio che avevo letto e che si intitolava
“Appassionatamente noi”, pagina dove i protagonisti stavano per essere investiti da una frana ma non se ne accorgevano perché il loro amore era assai più travolgente.


“Posso invitarti a cena, una di queste sere?”, sentii Alfio dire ad un certo punto. Risposi di si pensando che a casa avrei detto di uscire con qualcuna delle mie compagne di scuola e accordandomi preventivamente con loro. Mi pareva una meraviglia che i miei sogni stessere davvero avverandosi: nessuna delle mie amiche era fortunata a tal modo: loro erano ancora lì che guardavano ai compagni di banco!

Risposi di si ad Alfio con la testa che mi girava per via di quel whisky bevuto a digiuno e una vaga nausea pressappoco all’altezza del cuore ma un po’ più in centro: non sapevo che rispondere “sì” all’invito di una cena potesse, in quanto a conseguenze, essere peggio che rispondere “sì” a quello di un matrimonio. Io non rinnego “tutto” di allora, intendiamoci, anzi, se riesco a escludere dalla mia memoria la fine dell’amore posso perfino ricordarlo con una sorta di struggente nostalgia. Ero proprio come strutto in balia do Alfio, cioè una sostanza sciolta  e ormai dimentica di ciò che era stata una volta, di ciò che era stata una volta, di ciò di cui aveva fatto parte. Non esistevano più famiglia, scuola, amiche per me, niente che non fosse l’amore di Alfio, per Alfio: vivevo la mia fantastica fiaba senza domani, senza ieri. Ci incontravamo in un appartamentino nei pressi del maneggio, appartamentino che era del principale di Alfio. Un unico locale ma molto grazioso, e io ne avevo fatto la mia casa. Nella mia casa vera invece, con i miei genitori, non facevo altro che dire bugie, una montagna di bugie, tanto alta da oscurare il sole. I miei pareva che non se ne accorgessero, non stavano neanche lì a verificare: credevano a tutte le scuse che apportavo per giustificare uscite e rientri, anche a quelle più inverosimile. Non li accuso:  constato, semplicemente.  Sono sicura che anche se avessero agito allora in un altro modo avrebbero ai miei occhi d’oggi sempre sbagliato. Io ero pronta a quel tempo a fuggire di casa, a uccidermi. Non ci son genitori che tengano, quando una ragazza di quindici anni, fatta come ero io, diventa strutto nelle mani di un uomo.

“Sei fatta deliziosamente”, diceva Alfio accarezzandomi, “sei un gioiellino. Anzi meglio: sei una pepita d’oro che vale da sola tutti i gioielli più elaborati del mondo…”.

La cosa più incredibile era che io continuavo a non sapere niente di lui, niente: nemmeno dove abitasse in città, che lavoro facesse. Ogni tanto Alfio, per la verità, accennava a qualcosa del suo lavoro, ai suoi rapporti con quel suo principale-amico che gli cedeva l’appartamentino, ero io a rifiutare questi discorsi che mi annoiavano: io volevo tacere oppure parlare di amore.

“Mi ami?”.

“Ti amo”.

“Ma quanto?”.

“Tanto”.

“Tanto quanto?”

“Tanto come di qui alla luna, tanto quant’è grande l’Oceano Atlantico… Oh insomma, tanto quanto un uomo può amare una donna, ecco”.
E’ evidente che la colpa di quanto successe in seguito fu anche mia date queste premesse, ma allora non mi sentivo disposta a riconoscerlo, allora mi sentii soltanto ingannata, tradita, vittima. Fu quando mio padre, una sera dopo cena ricordo, mi raccontò d’essere  al corrente della mia “tresca” (lo chiamò così, il mio fantastico amore!) con quell’individuo e disse d’essere andato a parlargli diffidandolo dal rivedermi, e disse che era sposato. Li per lì non ci credetti, e mi misi a piangere di rabbia, e accusai mio padre d’essere un egoista e bugiardo, dissi che lo faceva apposta a dire quelle cose, per invidia, perché non voleva io potessi essere felice. Mi sentivo umiliata e offesa e impotente nel torcermi davanti a lui che, serafico, continuava a fumare e dopo aver detto quello che aveva detto, a ritenere chiuso il discorso.

Infine tirò fuori di tasca un biglietto, me lo porse, “Questo è il suo indirizzo”, disse, “verifica tu se vuoi”. E aggiunse: Immaginavo bene che non te l’avesse detto, il farabutto”.

Stracciai il biglietto: Non volevo crederci, non volevo. Per giorni e giorni, dopo, feci la posta ad Alfio. L’aspettai al maneggio, al bar del golf, nella pinetina dove qualche volta, quando l’appartamento veniva usato dal legittimo proprietario, eravamo andati in macchina. Ma Alfio era sparito, volatizzato, non ce ne era più traccia. Superando la vergogna, chiesi di lui a tutti quanti  lo conoscevano. “Per favore, signor X, ha visto Alfio Sabatini?”. “Per favore, se lo vede, gli dice che ho bisogno di lui, sono Pepita…”.

La vergogna che ogni volta dovevo superare per chiedere era data da quanto aveva detto mio padre, dal fatto che Alfio fosse sposato. Cominciavo a crederci, la sua sparizione non faceva altro che invitarmi a crederci. Legata all’ambiente di provincia in cui vivevo,  ai margini di questa città si è già ampiamente in provincia, mi seccava gli altri dicessero: “Guarda corre dietro a un uomo sposato”. Abbandonata dal mio amore, lontana dal suo fuoco, stavo riprendendo  poco a poco coscienza delle cose intorno a me , pettegolezzi compresi: stavo “ristrutturandomi".

La vergogna era meno forte con i miei coetanei, i ragazzi coglipalla. “Corri ad avvisarmi se Alfio viene a giocare, mi raccomando, se non mi avvisi subito ti ammazzo…”.

La vergogna più forte fu quella subita con il portinaio della casa dove c’era l’appartamentino. “Per favore. Se viene il signor Sabatini…”. E il portinaio scuotendo la testa  : “Ma tuo padre lo sa che vai girando come una zingara a chiedere l’elemosina?”.

Ebbi più che mai urgenza di vedere Alfio quando m’accorsi di essere incinta. Desideravo terribilmente lui venisse e dicesse. “Ciao bimba, ho dovuto assentarmi per cause di lavoro ma adesso sono qui, lo vedi sono qui per sempre”.

“Papà sostiene che sei sposato”, gli avrei detto allora io, e lui avrebbe inarcato il sopracciglio destro, un modo di fare che aveva, tanto tenero e buffo. “Sposato? E con chi? Con te mia Pepita, io voglio sposarmi con te…”.

Allora gli avrei detto del bambino, e di come mi sentivo pienamente donna adesso, e merito suo. Mentre così così sognavo la realtà, i giorni incalzavano. Avevo stracciato il biglietto con l’indirizzo di città di Alfio e non avevo  coraggio a richiederlo a mio padre: avevo paura che lui mi vedesse il bambino attraverso i vestiti, attraverso la carne. Chiesi l’indirizzo alla direzione del golf e in bicicletta, un giorno, mi ci recai. Pedalai per mezz’ora, passai anche davanti alla mia scuola, e quando arrivai mi trovai proprio di fronte ad Alfio che usciva dal portone.

Ebbi subito, netta, la sensazione che non gli facesse piacere rivedermi nonostante il sorriso che buttò fuori, il suo  “Toh guarda chi si vede”, allegro. Prevenne quella che immaginava potesse essere la mia domanda. “Non son più venuto da quelle parti perché ho cambiato posto di lavoro… Ho smesso di fare il cavalier servente al mio principale, capisci? Basta con il maneggio, il golf, tutte quelle rotture di scatole. Certo è un peccato per il nostro appartamentino… Ricordi?”. Ammiccò, scrutandomi incerto.

“E’ vero che sei sposato?”, chiesi a bruciapelo, perché era la cosa che mi stava a cuore sapere, adesso.

“Cosa c’entra”, fece Alfio, “certo che sono sposato…”. Appoggiai la bicicletta al muro, mentre lui giocherellava con le chiavi della macchina.

“Io sono incinta”, dissi, ancora a bruciapelo perché anche questa era una cosa che mi stava a cuore di dire subito.

Imprecò. “Saliamo in macchina”, disse, e prima di salire guardò su, verso quelle che dovevano essere le finestre di casa sua.

“Come mai?”, chiese poi, mettendo in moto.

“Come, come mai?”

“Voglio dire, non ti eri premunita?”.

Lo guardai sbalordita.

“Cavolo! Hai sempre avuto l’aria così sicura di te stessa, sei venuta con me a momenti ancora prima che io te lo proponessi, sembravi così libera e poi… Mi caschi come l’asino dal pero! Almeno avvertimi prima no? Potevo stare attento io. Sai almeno dove andare, adesso?
Non lo sapevo. Sapevo che le donne abortivano, avevo il dubbio  anche mia madre l’avesse fatto una volta, ma non sapevo dove  bisognasse andare per farlo. Le accuse di Alfio, quel suo modo di parlare,  mi avvilivano. Io avevo semplicemente vissuto l’amore senza pensare a nient’altro. Già mi appariva prosaico mangiare con la stessa bocca adoperata per baciare figuriamoci come mi sarebbe apparsa l’organizzazione necessaria per non restare incinta! E adesso mi crollava tutto addosso: l’amore, il bambino, tutto. Adesso dovevo essere prosaica, eccome.

Alfio andava avanti a parlare. “I soldi, ti serviranno dei soldi. L’indirizzo potrei chiederlo alla nostra donna di servizio, quella abortisce a ogni pie sospinto e so che si confida con mia moglie… Facciamo così: io mi informo e poi ci vediamo, ti procuro tutto. Non dire niente a casa tua però, mi raccomando”.

E chi apriva bocca? Forse avrei potuto farlo con mia madre, dato il dubbio che avevo nei suoi confronti, ma non c’era fra noi abbastanza amicizia, abbastanza confidenza. Non aprii bocca, e nel pomeriggio di una domenica mi trovai in casa di una donna che mi fece qualcosa e poi disse che per il resto avrei dovuto arrangiarmi da sola, che mi sarei liberata nella notte stessa.

Mi arrangiai da sola infatti. Con tutta l’angoscia, l’ansia, la disperazione e la paura. Ma tutto finì tanto in fretta. Fu quella notte che io uscii  per sempre dai libri di fiabe e anche dai romanzi d’amore: fu quella notte che giurai che non avrei amato più.

Il tempo passò e portò via con sé il mio giuramento in un certo senso. Fu vero che non m’innamorai, ma quando venni ad abitare qui in città con mia mamma perché mio padre morì e presi a lavorare, andai con Fabio. Oh, ma sapevo quello che volevo ormai,  ero ben organizzata: il nostro far l’amore era una faccenda assolutamente sicura, assolutamente prosaica, assolutamente perfetta. Usavamo dell’amore come di altre cose della vita, era fine a se stesso come un buon piatto di pastasciutta. Ogni tanto Fabio ventilava pigramente l’ipotesi che potessimo sposarci. Io domandavo perché. Mi guardava perplesso: “Veramente non lo so”, rispondeva. E poi: “Ma sei per caso tu volessi un figlio e cose del genere?”.

Giravo la faccia, perché come un tempo con mio padre avevo avuto  l’impressione lui potesse vedermi il bambino dentro la pancia ora mi pareva che Fabio potesse vedere quel bambino di neanche quattro centimetri nei miei occhi. Ce l’avevo sempre lì, infatti. Quando si parlava di aborto mi dimostravo sempre contraria. Sapevo perfettamente che un’operazione del genere eseguita per benino in un ospedale non prevede che alla mancata madre si faccia vedere il feto come ti fanno vedere le tonsille tolte, ma avevo fatto mie le idee di Alfio: non si può essere incoscienti fino a quel punto! Bisogna, sempre, sapere quello che si fa e quello che ci si deve aspettare: bisogna prevenire, piuttosto che curare.

A causa di queste mie idee so che alcuni amici dicevano di me: “E’ fredda, acida, sta inzitellendosi …” E altri: “Strano, perché in fondo l’uomo ce l’ha, se la fa con Fabio…”.

Il fatto si è che un conto è avere un uomo e un conto è avere l’amore. A me questo mancava, ed è per questo che ogni tanto pensavo ad Alfio: buono o cattivo che fosse,  lui aveva rappresentato per me l’amore,  l’emozione dell’amore, insostituibili.

Così era la mia vita quando incontrai Gianni. E’ stato l’anno scorso, quando sono rimasta in città in Agosto, periodo di ferie, perché mia mamma era stata ricoverata in ospedale per una operazione. Mio fratello con sua moglie erano al mare, erano andati via anche  gli amici, tutta la gente che conoscevo. Perfino Fabio: “Sento un vago senso di colpa a lasciarti qui sola, ma sei tu che vuoi così…”

Veramente io non avrei voluto: dovevo, semplicemente, per via di mia madre. Ma non potevo coinvolgerlo  nel mio dovere.
“Figurati, non c’è problema. Avrò la città tutta per me”.

Quasi, infatti. Ci mettevo  dieci minuti per arrivare in macchina all’ospedale, contro la mezz’ora usuale e pazzi permettendo, s’intende, perché alcuni dei rimasti in città pensavano come me d’esserne  i padroni e spingevano questa loro convinzione sino a passare a semaforo rosso.

Gianni fu uno di questi: mi evitò per perizia, ma la sua macchina sbandò, si girò verso un albero del viale e ci si fermò contro.  Mi fermai anche io furiosa. “E’ passato col rosso!”, urlai all’uomo dolente che scese dall’Alfa contusa, lui mi guardò vacuo. “Ah si?”, fece.
“Sto andando all’ospedale, se vuole ce l’accompagno”, offrii, più mitemente possibile, tanto quel che era fatto era fatto. Lui non mi rispose, si chinò nell’interno della sua macchina, ne riuscì con una borraccia alla quale attinse. Poi me la porse. “Vuole? E’ Whisky irlandese. Va all’ospedale? Perché si è spaventata?”.

Gli spiegai perché ci andavo. Cioè, perché avrei dovuto andarci. In effetti per quel pomeriggio non ci andai per niente: restai con Gianni. Era un presentimento il mio? Non lo so, ma qualcosa mi tratteneva inesorabilmente lì, accanto a lui, appesa alla sua voce che enumerava i guai subiti dalla macchina. Lo accompagnai alla sua carrozzeria, aperta per  fortuna. Lo accompagnai ad assistere alla rimozione della macchina: lo accompagnai nel luogo dove si stava recando quando ebbe l’incidente. Poi lui disse: “Perché non ceniamo insieme? Mia moglie è al mare, e quando lei è via io non resisto al fascino di una pepita, se la trovo”.

L’avvertimento tempestivo ed esplicito, mi lasciò indifferente, non mi importava se era sposato, non per niente erano trascorsi dieci anni dalla mia storia con Alfio, ed io ero cambiata.  L’uomo mi piaceva, era il primo in quei dieci anni che mi piaceva così, d’istinto. Cosa mi importava se ci fosse o no una moglie? Io volevo soltanto amare, amare di nuovo e nonostante il giuramento di allora, amare in modo nuovo, sapendo quello che facevo e quello che mi aspettava. Non era difficile da immaginare ciò che mi aspettava: un giorno sarebbe tornata la moglie di Gianni e lui mi avrebbe detto: “Cara sarà un po’ difficile adesso…”, e io l’avrei perduto.

Dopo cena andammo in centro, lasciammo la mia macchina e ci mettemmo a camminare. E’ bello camminare, quando la città è stata evacuata dalle vacanze.  Gianni parlava e parlava, mi chiedeva un mucchio di cose: è incredibile quante cose ti chiedono gli uomini.  Io invece non chiesi niente perché non mi importava. Di lui mi interessava la persona fisica e quella era lì, accanto a me, vestita con un bel paio di pantaloni jeans, una camicia pure jeans. Ci lasciammo sul marciapiede, appoggiati alla colonna di un porticato, come due ragazzini.

“Dove possiamo andare?”, chiese Gianni, dopo.

“A casa mia”, offrii, “sono sola”.

Facemmo l’amore come se ci amassimo: fu molto bello, non ricordavo come potesse essere così bello, la cosa più bella del mondo. Da quel momento, praticamente, vivemmo insieme. Mia madre era sempre in ospedale, sua moglie sempre al mare. Eravamo liberi, io assai più di quanto avevo quindici anni, libera e consapevole, e con stupore mi accorgevo che la consapevolezza non toglieva niente al fascino di questo nuovo amore: anzi, lo faceva migliore. Quasi non osavo dirmelo ma spesso avevo la sensazione d’essere anche amata. Mi pareva che questa fosse per me una novità, non l’avevo mai avuta con Alfio, nonostante tutti i nostri colloqui d’amore.  I giorni passavano, e le notti pure. E più i giorni passavano e pure le notti più io mi sorprendevo a fare domande che riguardavano sua moglie.

“E’ bella?”

“Si certo”.

“Bionda?”.

“Bionda, si”.

“E come mai non vai mai a trovarla?”.

“Non ne ho voglia. Voglio stare con te”.

Tornavo al punto dolente: “E’ giovane tua moglie?”.

“Ma… sì”.

“Più di me?”.

Mi scoprivo civetterie inconsulte, gelosie inimmaginabili. E i giorni passavano: “Ma quand’è che torna, tua moglie”.

“Non lo so, non mi interessa”.

Tornò Fabio, prima. Mi telefonò dall’aeroporto. “Sono qui pieno di voglia di vederti. Stasera  va bene? Ho un mucchio di cose da raccontarti, ti ho portato anche un regalino”.

La sua voce mi sembrò quella di un estraneo, così quello che stava dicendo. “Stasera no”, mormorai, “ho un impegno”.

“Facciamo domani allora?”.

“Senti ti chiamerò io…”.

Rimandai quell’appuntamento il più a lungo possibile, poi quando non potetti più farne a meno, dissi a Fabio di Gianni. Fabio stette a osservarmi divertito. “Ho l’impressione tu l’abbia presa forte stavolta”, disse, “non ti ho mai visto così drammaticamente insicura”. Mi lasciò infine augurandomi “buon divertimento”.

Non mi divertivo affatto. Tornò a casa mia madre ed io non potetti più portarvi Gianni. Tornò mio fratello, tutti i miei amici, i conoscenti, tornarono tutti meno quella moglie nemica.

Ci incontravamo in macchina adesso, e io pensavo che lui non poteva portarmi a casa sua per timore che la moglie tornasse all’improvviso e questa constatazione mi avviliva, era come quando avevo scoperto che Alfio era sposato. Anche se di Gianni lo sapevo sin dal primo momento e non potevo sentirmi vittima di niente. Non gli chiedevo più di lei: sperando quasi, così di cancellarla  dalla nostra vita. “Vivo per te”, mi diceva Gianni, “ho conosciuto tante donne ma nessuna come te. Sono fortunato sì, sono proprio fortunato”.
L’estate stava finendo. “E tua moglie?”.

“Lascia perdere non voglio pensarci…”.

Morì quindi la madre di Gianni, investita da un’autobus.  “Vieni al funerale, ti prego.

“Io?...”.

“Tu, si, tu. Vieni per favore non lasciarmi solo”.

Il funerale partì dall’obitorio, c’era poca gente, qualche corona. Quella poca gente mi stringeva la mano, diceva “condoglianze”. A me, come mi avesse eletto a facente parte della famiglia! E Gianni mi teneva per un braccio quasi a confermarlo.  Quando tutto fu finito lui mi abbracciò, e in macchina, restò abbracciato a me. “Tienimi”, diceva, “tienimi forte. Mi sento orfano. Voglio essere il tuo bambino. Anzi, voglio un bambino  da te”.

Mi mancò il respiro e lui avvertì la mia tensione, alzò il viso dalla mia spalla, mi fissò. “Ho detto qualcosa che non dovevo?”. Era pallido, stanco, era il mio amore.

“No”, sospirai, “non particolarmente. Mi è passato  per la testa un ricordo ma adesso è andato via”.

Restò a fissarmi: “un ricordo di te o di me?”.

“Di me”.

“Hai già un bambino?”.

Mi fece quasi sorridere, per come lo disse. Allora gli raccontai la mia storia, così come l’ho raccontata  qui. E lui ascoltava, vicinissimo al mio viso, vicinissimo.

“Non voglio un bambino”, finii col dire, “io ti amo  ma con ragione adesso. Tu sei sposato ed è inutile disfare una famiglia per farne un’altra, e ammesso poi che tu voglia questo. D’altra parte non me la sento di allevare un bambino da sola…”.

Gianni mi lasciò andare, mise in moto senza parlare  mentre io cominciavo ad accusarmi in silenzio, a pensare di avergli fatto male e proprio nel momento in cui lui era più sincero e vulnerabile, nel giorno della morte di sua madre. Guidava piano, assorto, e io non chiedevo dove andasse, avrei voluto soltanto dicesse qualcosa.

“Dove andiamo?”, mi decisi a domandare infine.

“A casa”, rispose. “A casa mia, a casa nostra. Devo farti una confessione e penso che là mi sarà più facile”.

Ma io non avrei potuto sopportare un altro silenzio: “no, ti prego, dimmela subito. Io ti ho detto tutto…”.

Me lo disse subito. “Vedi”, cominciò, io ero prima di conoscerti quel che si dice un donnaiolo. Sai i donnaioli non sono da disprezzare, sono soltanto degli infelici che cercano disperatamente qualcosa che gli manca e che non trovano mai. Con tutte le donne che ho conosciuto ho sempre inventato di essere sposato per non correre rischi né assumere responsabilità, capisci? Anche con te l’ho fatto. Poi, quando ho cominciato a pentirmene, era troppo tardi per confessarti la verità, me ne vergognavo e non riuscivo a superare questa vergogna, temevo di apparire ai tuoi occhi l’idiota che in effetti sono… Speravo tu scoprissi la verità da sola, aspettavo la tua reazione per comportarmi di conseguenza. Sono un vigliacco, lo so.  Ma se tu te la senti di sposare un vigliacco, di avere un bambino da un vigliacco…”.

“Smettila”. Gli misi una mano sulla bocca. “Smettila di dire sciocchezze”, rincarai, “noi non siamo quello che crediamo di essere, ma quello che credono gli altri. E come puoi pensare che io ti creda un vigliacco? Io ti amo…”.

Il fatto era ed è semplicemente questo: io lo amo, e voglio avere un bambino da lui,  un bambino che cresca dentro di me, che possa crescere  fino alla sua misura massima, fino alla vita. Voglio un bambino che possa nascere. Perché l’amore mio e di Gianni, un amore cosciente, è pronto a dargli il lasciapassare.

A me piacciono le fiabe, lo avevo scritto vero? Ma soprattutto quando diventano realtà. A me piace la mia favola, la favola della mia vita. 
 

   
 
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