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Autore: Phae    03/09/2016    7 recensioni
"Antropofobìa s. f. [comp. di antropo- e fobia]. – In psicopatologia, morbosa sensazione di angoscia che insorge in alcuni individui in mezzo alla folla o in presenza di altre persone."
La paura ha gli occhi di tutti gli uomini della terra e non c'è scampo, non c'è fuga, non riesce più a rinchiudersi nella sua mente e nemmeno il legame ionico ha più un significato.
C'è solo il dolore che gli scava con gli artigli da dentro il petto e che continua ben dopo che le nuove ferite si sono rimarginate.
AU Teen!lock, Sherlock!centric
~Prima classificata al contest "Phobos e Deimos" indetto da meryl watase sul forum di EFP~
Genere: Angst, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Jim Moriarty, John Watson, Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
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The world is full of obvious things
which nobody by any chance ever observes

ovvero sia:

Il mondo è pieno di cose ovvie
che nessuno mai osserva

Sir A. Conan Doyle, The hound of the Baskervilles


 
Prologo


Osservare lo stato di decomposizione del passerotto abbandonato in giardino, nessuno lo fa (Sherlock lo fa).
Osservare il guizzo dei muscoli durante una corsa, nessuno lo fa (Sherlock lo fa: gastrocnemio, soleo, peroneo lungo, quadricipite femorale, glutei, bicipite femorale, semitendinoso, semimembranoso1).
Osservare le reazioni facciali come conseguenza a un'emozione, nessuno lo fa (Sherlock lo fa, eppure non capisce).


Sherlock ha otto anni e se fosse un bambino come tutti gli altri gli piacerebbe dire di essere felice, ma la felicità è una di quelle poche, pochissime cose -emozioni, sensazioni, principalmente- che Sherlock non può facilmente osservare e che dunque non comprende. È molto frustrante, per lui, non comprendere qualcosa, perciò ha relegato tutto in una piccola stanza dentro alla sua testa.
I bambini di solito non hanno stanze nella testa, Sherlock non lo sapeva ma ha imparato: l'ha raccontato alla maestra un giorno, e si è sentito orgoglioso. Poi si è ritrovato in chiuso in una stanza -reale, questa volta- con un sacco di persone a fargli domande, a chiedergli se sentisse delle voci, se vedesse cose che non c'erano.
Imparare è facile, imparare va bene, imparare è una cosa che Sherlock può fare: ha imparato a fingere di non avere niente nella testa, e col tempo ha imparato anche che parlare il meno possibile è anche meglio.


Non parlare per giorni non va bene: è un'altra delle cose che Sherlock ha imparato. L'ha fatto una volta, non ha parlato per quasi due settimane, era un esperimento, e in ogni caso parlare con gli altri bambini non l'aveva mai fatto sentire bene, quindi perché sprecarsi?
Quella volta è rimasto chiuso in molte più stanze per molto più tempo, e hanno iniziato a dargli delle pastiglie colorate (principio: anilina. Derivato: prometazina, facile2) che Sherlock nasconde sotto la lingua ogni volta e che poi raccoglie diligentemente in una piccola scatola nascosta sotto al materasso (potrebbero tornare utili). Fingere: un'altra cosa che ha imparato presto.


Le cose che Sherlock non capisce di solito sono quelle per cui suo fratello Mycroft lo prende in giro. Mycroft capisce tutto, è più grande, ed è intelligente. Lui è stupido.
Glielo dice Mycroft, e Sherlock ci crede. È vero, dopotutto ci sono tutte quelle stupide emozioni che lui non riesce mai a decodificare. Mycroft ci riesce, Sherlock no. (Premessa, causa, conseguenza).
 
**

Sherlock ha tredici anni, e ha imparato a non fidarsi di suo fratello. Ha imparato a non fidarsi di nessuno, per la verità.
Ha chiesto ai suoi genitori di smettere di andare a scuola, e ha provato a spiegare loro il perché (esposizione della tesi, dimostrazione: semplice, lineare). Sua madre ha pianto, e non gli ha parlato per una settimana. Suo padre prima ha urlato, poi l'ha picchiato, poi gli ha detto che non l'avrebbe mai voluto come figlio.
Che nessuno lo vorrebbe mai come figlio.
Sherlock non piange, non grida, non si scosta. Registra e assimila (contusione al braccio destro, attesa comparsa di lividi sul polso sinistro, taglio sullo zigomo, viscosità del sangue: regolare, probabile necessità di medicare: fatto), con una presa di coscienza che farebbe rabbrividire qualunque adulto e gelare ogni bambino.
Il dolore è facile, il dolore Sherlock lo può capire (esperienza sensoriale ed emozionale spiacevole associata a danno tissutale, in atto o potenziale, o descritta in termini di danno3, lo sa perché ha imparato a memoria più o meno tutti i libri nello studio di suo padre, un pomeriggio. Si annoiava). Capisce anche che non gli piace, che fa male, che non provare dolore è meglio che provarlo.
Perciò comincia ad evitare suo padre, e ad evitare tutti quelli che a scuola si comportano esattamente come lui. Non sono pochi.
Gli ci vuole un po' di tempo, a Sherlock, per capire che le probabilità che le persone gli facciano del male aumentano esponenzialmente ogni volta che apre bocca. Così ritorna a tacere.
 
**

A sedici anni, Sherlock decide che non vale la pena tacere.

 
Atto primo

È un giorno d'autunno come un altro alla Barts. Piove. Sicuramente, a Sherlock questo non interessa più di tanto. È diventato un diciottenne allampanato, troppo alto e troppo magro, troppo tutto.
Troppo alti e appuntiti i suoi zigomi, troppo bianca la sua pelle, così chiara che se volesse scomparire dal mondo potrebbe semplicemente nascondersi tra le lenzuola e nessuno lo noterebbe. Non sembra nemmeno umano, forse.
Questo glielo dicono in tanti, ma sono anni che non ha più importanza.
Fa freddo però, quel freddo pungente e fastidioso, questo Sherlock riesce ancora a sentirlo.
È assorto nella lettura di uno dei suoi manuali di chimica, in un angolo della biblioteca del college. Avvolto in un maglione scuro decisamente troppo grande per lui, se ne sta appollaiato su una sedia con solo il naso a spuntare dalla stoffa e quegli occhi grigi taglienti come lame.
Li sente arrivare.
Sa che sono loro, se lo aspettava. Sono così prevedibili.
Non ha più senso scappare, è da quando ha messo piede in quella scuola che Sherlock ci prova. Ce la mette tutta a scomparire, lui vuole solo studiare quello che deve e andarsene, andarsene via da casa sua, da quel posto odioso, da quella vita miserevole.
Ma non basta.
Ha paura, Sherlock. Terrore puro che gli gela le vene, sente il sudore freddo lungo la schiena.
Si concentra, rilegge per l'ennesima volta la stessa frase.

Il legame ionico è un legame chimico di natura elettrostatica che si forma quando gli atomi possiedono un'elevata differenza di elettronegatività, ovvero una bassa energia di ionizzazione e un'alta affinità elettronica4.

Questo è facile, questo Sherlock lo può capire.Le persone, quelle no. Quelle non le capisce.
L'incomprensione genera paura, e la paura genera terrore.
Terrore che gli facciano male, perchè gliene hanno fatto sempre, per tutta la vita, e ogni volta che si sforzava di adattarsi, che provava ad essere come gli altri, lo stanavano sempre, e il male e l'umiliazione aumentavano a dismisura. Sherlock si è chiesto perchè, e si è anche dato una risposta: fingere va bene finchè qualcuno non ti scopre (ipotesi, esperimento, conclusione: positivo).
E lui è sempre stato un bravo attore, ma non in quelle occasioni.
Per questo non si muove, cerca di calmare il respiro e aspetta.
“Ehi, freak5!”

Il legame ionico è un legame chimico di natura elettrostatica...

“Com'è che oggi non scappi, geniaccio?”

che si forma quando gli atomi possiedono un'elevata differenza di elettronegatività...

“Non parli nemmeno ora?”
“Dio, che noia Jim”
Gli scappa. Questione di un istante. Non se ne accorge nemmeno Sherlock, potrebbe benissimo averlo pensato e basta. Ma non l'ha fatto. Non doveva, diamine se non doveva.
Si affretta a rinchiudersi in un'ala ben protetta del suo palazzo mentale, dove può sentirsi al sicuro e continuare a leggere il suo manuale di chimica. Dove può rimangiarsi quella spudorata emissione di fiato.

...ovvero una bassa energia di ionizzazione...

Il primo colpo arriva quasi inaspettato. Sherlock non se lo aspetta. Chiude gli occhi, confuso, e fa per alzarsi ma traballa sui suoi piedi. Cerca di contenere il battito del suo cuore ma non ci riesce, e per un attimo ha il terrore che Jim possa esserne infastidito e che cerchi di fermare anche quello, anche il suo battito.

...e un'alta affinità elettronica.

Il secondo colpo è più forte, fa più male, Sherlock lo classifica come un sei nella sua personale scala del dolore (noioso, ma necessario), le sue dita sottili si bagnano di rosso lì dove i suoi capelli gli si sono appiccicati alla fronte.

...Il legame ionico è un legame...è un legame...

Sherlock quasi urla a questo punto, ma non per il dolore. No, è qualcosa di peggio. I contorni del suo palazzo mentale si stanno sgretolando, è la paura che si porta dentro e che ha gli occhi di Jim Moriarty, e di suo padre, e di sua madre, e di suo fratello, e del bambino che in seconda elementare gli ha buttato l'astuccio nel cestino, del ragazzino che in seconda media ha pisciato sui suoi jeans durante ginnastica e lui è dovuto tornare a casa coi pantaloncini, della maestra che non gli ha creduto, di quelli che gli nascondono il cibo in mensa e lui alla fine ha smesso di mangiare, di quelli che sono entrati nella sua stanza mettendo tutto in disordine e gli hanno rotto tutti i vetrini e quella volta sì che si è arrabbiato, ma non è servito. La paura ha gli occhi di tutti gli uomini della terra e non c'è scampo, non c'è fuga, non riesce più a rinchiudersi nella sua mente e nemmeno il legame ionico ha più un significato.
C'è solo il dolore che gli scava con gli artigli da dentro il petto e che continua ben dopo che le nuove ferite si sono rimarginate.

 
Atto secondo

Quando viene a sapere che gli avrebbero assegnato un compagno di stanza, Sherlock fa esperienza di una vasta gamma di pulsioni e le sviluppa nel seguente modo: lancia oggetti per la stanza, rompe una lampada e il vetro (conseguenza: Mycroft è costretto a risarcire la scuola. Irrilevante), non parla per due giorni (fase numero 1: rabbia); si sente mancare il respiro a intervalli regolari, percepito tremore alle mani simile a quello successivo all'assunzione di una soluzione al 7% di cocaina, ma non altrettanto piacevole (fase numero 2: terrore); si nasconde sotto alle coperte e non ne esce per diciassette ore (fase numero 3: negazione); chiama Mycroft (“Queste erano le condizioni, dannazione, io devo stare solo!” “Mi dispiace, fratellino, ma io non posso farci proprio niente. Mamma sarà contenta che tu abbia la possibilità di affinare le tue abilità sociali, glielo dirò” ovvero sia fase numero 4: ricerca del colpevole).
La fase numero 5 (rassegnazione) coincide e si conclude nello specifico con l'acquisto di un barattolo di vernice nera. E per un po' la questione può dirsi chiusa.


John Watson non è un ragazzo che si fa intimidire facilmente, ma quando entra nella sua nuova stanza con un sorriso a trentadue denti sul volto e un “Ciao, io sono John!” ancora poggiato tra la sua lingua e le labbra, la voce gli muore in gola nel momento in cui si ritrova a fissare una linea, larga almeno tre centimetri e tracciata con estrema meticolosità, che separa alla perfezione le due metà della camera.
Sherlock se ne sta seduto sul letto, guardingo e parzialmente immerso tra le lenzuola con il chiaro intento di nascondersi tra la stoffa. Il cuore gli batte forte nel petto e si aspetta una sfuriata da un momento all'altro, ma questa non arriva.
“Perchè?” sono le uniche parole che John pronuncia.
Sherlock lo osserva: un metro e settanta (basso), capelli color sabbia, occhi blu (troppo blu, irrilevante, cancellare), piastrine militari al collo (non sue, ovviamente, troppo giovane. Padre, presumibilmente, morto in guerra di recente), vestiti ben tenuti ma vecchi di qualche anno (difficoltà economiche, può permettersi la Barts solo con una borsa di studio). Noioso. Risposta non necessaria.
John sospira ma non dice niente, non si arrabbia, poggia solo il borsone a terra (nello spazio assegnatogli, nota Sherlock).
“Beh, io sono John. John Watson” tende una mano, senza valicare la linea. Sherlock non si alza per prenderla.
John sorride (zygomaticus major e zygomaticus minor6) , e quella curva così inusuale per Sherlock -rivolta a lui, nello specifico- non svanisce quando il nuovo arrivato si dirige in bagno per farsi una doccia. “Posso?” chiede solo. Sherlock socchiude solo lentamente gli occhi e John sparisce dietro alla porta.
Da quando ne riemerge, con solo un asciugamano avvolto attorno alla vita e i capelli umidi (fisico scolpito, rugby?), non pronuncia più una sola parola.
Sherlock gliene è grato, e si rifugia nel suo palazzo mentale a cercare di ricostruire i suoi spazi e i suoi silenzi, i ricci scuri che gli cadono scomposti sulla fronte. Percepisce il respiro di John, il battito del suo cuore ad una velocità così diversa dalla sua, pensa che deve sforzarsi, cercare di sopportarlo, abituarsi alla presenza di un altro o sarà sempre più difficile.
“Sherlock. È il mio nome” sussurra ad un certo punto, mentre sente il respiro di John farsi più pesante. Non può giurarci, ma gli pare di percepirlo sorridere.
 
**

Durante la notte Sherlock urla (prevedibile), si sente addosso la presenza dell'altro anche se con un barlume di ragione si rende conto che John è sveglio, lo ascolta, ma è ancora nel suo letto (2,13 metri di distanza da lui. 2,14, forse. Approssimazione). Si sente soffocare, come se una peso infinito si fosse costituito in prossimità del suo petto e non vi fosse modo di spostarlo. Trema, probabilmente (attacco di panico, sintomi riconosciuti), ma non riesce ad alzarsi per andare via, uscire da quella stanza e da quella scuola. Forse dovrebbe considerare l'ipotesi di smettere di dormire (esperimenti necessari).
Percepisce un movimento alla sua destra e sbarra gli occhi, senza riuscire ad articolare un suono. Sente un fruscio, il rumore di una porta aperta e poi chiusa, e poi il silenzio (apporto di ossigeno aumentato drasticamente negli ultimi secondi. Conclusione: John è uscito).
Un pensiero: il sonno della ragione genera mostri7.
**

Non parlano di quello che è successo né il giorno dopo, né i giorni successivi. Non parlano e basta, a dire la verità. John capisce, e si adegua. Non valica mai il confine e resta nel suo spazio, senza fare domande. Sherlock si chiede perchè non abbia ancora chiesto di cambiare stanza, ma in fondo non vuole davvero conoscere la risposta.
Arrivano a stabilire un loro confuso e precario equilibrio: John lascia la stanza nelle notti difficili, Sherlock impara a gestire meglio quelle facili. Lascia la finestra aperta, anche se fa freddo (l'aria fresca aiuta a pensare), si schiaccia contro il muro e riesce a contenere i tremori. Non il battito del cuore, quello mai, ma ci sta lavorando.
Il biondo gli porta del cibo ogni tanto, quando Sherlock dimentica di mangiare, e lo lascia sulla scrivania, collocata in un punto che entrambi sono arrivati a considerare come terra di nessuno, la zona di tregua. Bandiera bianca per entrambi.
Ogni tanto Sherlock lo accetta, ogni tanto no.
Smette di lamentarsi con Mycroft, probabilmente spera di riuscire ad abituarsi alla presenza del suo nuovo compagno di stanza (conseguenza sperata: gestire meglio le relazioni con gli altri. Conseguenza unica e effettiva: gestire meglio la relazione con John, anche senza parole), e si stupisce perchè la speranza è una delle tante cose che ha accantonato da qualche parte nella sua mente molto tempo prima.
John si interroga spesso su di lui, Sherlock lo percepisce chiaramente. È facile da dedurre (noioso), ma per qualche ragione non se ne stanca. È buono con lui, non si lamenta, non lo picchia, non gli fa del male, non lo caccia. Non distrugge il suo microscopio e non getta via con poche remore i suoi esperimenti. Si limita a guardarli in cagnesco, ogni tanto.
Una sera John prova a chiedergli perché ha paura di attraversare la linea. Sherlock vorrebbe rispondergli che non è la linea che gli fa paura, anzi la linea è una cosa sicura, è calcolabile, quantificabile, gestibile. Vorrebbe dirgli che è tutto ciò che sta dall'altra parte a fargli paura. Che l'unica cosa che è abbastanza sicuro di sostenere è la loro terra di nessuno.
Sherlock vorrebbe dirgli tutte queste cose ma non lo fa. La mattina dopo, prima di uscire per andare a lezione, lascia sulla scrivania il Manuale statistico dei disturbi mentali che ha preso dalla biblioteca, aperto sul disturbo antisociale di personalità. Di fianco, a matita, scrive: sociopatico iperattivo.
John legge: sociopatico iperattivo, e smette di fare domande. Nel pomeriggio, il libro scompare, e al suo posto compaiono dei vetrini nuovi e una lente d'ingrandimento in vetro (reazione: indefinita. Qualcosa di bello. Ricalcolare. Reazione: costosi. John non può permetterseli. Ringraziare John?).
Sherlock non lo sa. E tutto sommato, per una volta va bene così.

 
Atto terzo

Sherlock se la porta in giro ovunque quella lente, riprende ad osservare le cose. Osservare è una cosa che sa fare bene. Osservare a Sherlock piace.
Si chiede se piaccia anche a John, ma poi scaccia il pensiero. Nemmeno parlano, in fondo (Irrilevante, per davvero).
Sherlock è quasi felice, la presenza di John in qualche modo ha fatto placare i suoi consueti aguzzini e lui quasi fa fatica a credere a questa serenità.
E abbassa la guardia, come uno stupido. Come uno qualunque.
È sera, e John non c'è. Si allena, quella sera, o almeno così Sherlock ha dedotto. È stato facile, naturalmente.
Il moro torna dalla biblioteca, con calma, non ha bisogno di arrivare presto e varcare subito il confine, perchè John non c'è. Può soffermarsi sulla linea con più calma, sbiadirla un poco nell'atto di camminarci sopra.
Lo sorprendono per le scale, Sherlock è così sovrappensiero che se ne accorge tardi, e si morde forte il labbro fino a farlo sanguinare per quella mancanza.
Corre, non sta fermo questa volta ma corre, il cappotto che indossa un po' lo intralcia ma lui conosce la strada. Corre giù per le scale, in direzione opposta, attraverso il corridoio e verso la sua stanza. Basta arrivarci, basta chiudersi dentro, respirare.
Ma non ci arriva, le sue gambe sono lunghe, ma troppo magre (non ha mangiato nemmeno oggi), il respiro un po' gli manca. Inciampa, cade, c'è il bagno prima della sua stanza.
Si sente afferrare, buttare dentro in malo modo. Si rannicchia in un angolo, cerca di nascondersi dentro alla sua testa (passa più in fretta, dentro alla sua testa) ma non ce la fa.
Jim lo guarda. Gli altri ridono. È troppo vicino, troppo, ruba la sua aria e il suo spazio e Sherlock vorrebbe scomparire ma non può.
“Ti sei fatto un amico, geniaccio? Non ti ha detto che andartene in giro da solo è pericoloso?”
L'ultima parola Jim la fa ruotare tra i denti con poca grazia, ci gioca, è divertito, quasi eccitato.
Sherlock non ascolta, pensa a John, pensa che potrebbe aiutarlo, è sempre stato così gentile con lui, allora prova a chiamarlo ma la voce non esce. Ha ancora in mano la lente, e la stringe più forte, come un talismano, come se lui potesse sentire.
Jim se ne accorge e ride, ride sguaiatamente (repellente).
“Posso toccarti, Sherlock?” non è una domanda. Gli prende la mano, la stringe, la allarga. Sherlock trema a quel contatto, cerca di ritrarsi, Moriarty è così viscido e sbagliato e troppo, troppo, troppo vicino.
Gli prende la lente, gliela ruba.
“No!” Prova a riprendersela, ma Jim è più veloce, lo spinge indietro. Contro il muro freddo.
“Un regalo Sherlock? Davvero?”
Gli stringe ancora la mano mentre gli strappa via il cappotto, gli sfiora il collo con le dita.
Sherlock vorrebbe vomitare perchè ha capito, ha compreso che questo è un nuovo modo di fargli violenza e lui rivorrebbe i pugni e gli schiaffi perchè niente, davvero niente è peggio di questo, peggio di Moriarty che lo stringe, lo abbraccia, le mani sul suo addome, sotto alla camicia.
Non fa altro, non lo tocca in nessun altro modo, continua solo a stringerlo e a respirargli addosso mentre Sherlock scalcia, cerca di allontanarlo ma dannazione, è davvero troppo magro, troppo debole. Inutile.
Quando se ne vanno, Sherlock ha quasi smesso di respirare. Sicuramente ha smesso di protestare, il respiro corto, troppo corto.
Jim gli lancia contro la lente con mala grazia, e quella rimbalza per un attimo sul pavimento, poi si infrange.
Come Sherlock, come i mille pezzetti in cui si è ridotto, come un vetro infranto che non ritornerà mai come prima perchè non è più utile a nessuno, nemmeno a se stesso.
Si stringe le ginocchia, le lacrime che sarebbe una benedizione se scendessero ma non scendono, nemmeno una.
Un sussurro, continuato. Per la prima volta.
“John...”
**

Quando John lo trova, qualche ora dopo, Sherlock non si è mosso. Continua nel suo sussurro, ma riesce a dedurre John. E questa è una buona cosa (È tornato più tardi, a giudicare dal profumo probabilmente era con una ragazza, non l'ha trovato in camera, si è preoccupato, l'ha cercato. Causa, conseguenza).
John lo prende per un braccio, lo sostiene, lo porta in camera e poi a letto. Non gli chiede come sta, non fa domande inutili, non ne hanno bisogno. Lo tocca, ma il suo tocco è leggero e preoccupato, come se stesse cercando di sfiorarlo il meno possibile. Di turbarlo il meno possibile. 
Valica la linea per accompagnarlo a letto. È la prima volta.
A Sherlock non dà fastidio. In mano stringe ancora le schegge della lente che gli hanno ferito il palmo. Schiude le dita come un fiore acerbo che si ostina a sbocciare, con un po' di riluttanza, e gliele allunga.
 
John le guarda, e capisce, sembra triste.
“John.”
Ora è sorpreso, John, quasi sorride. Anzi sì, sorride ( zygomaticus major e zygomaticus minor). A Sherlock piace quando John sorride.
Cerca il suo tocco, in qualche modo. Ed è una novità, in ogni senso. La mano di John è liscia, grande e confortevole ed è qualcosa che Sherlock non conosce, ma che può osservare. E imparare.
“Di cosa hai paura?”
Respiro. Respirare.
“Di quello che c'è oltre la linea”
“E adesso che sono da questa parte, con te?”
“Adesso va bene”
John tace per qualche istante, come per cercare le parole giuste.
“Io ho paura del silenzio” è un attimo, la confessione di un istante.
Sherlock sbatte le palpebre, confuso.
“Io ti ho portato la tua paura”
C'è rimorso, nelle parole di Sherlock. Rabbia, forse. Mortificazione. Scuse.
John sorride, John non smette mai di sorridere. Nessuno lo osserva (Sherlock lo fa).
“Per vincere la paura devi diventare paura. Devi bearti delle paure degli altri, Sherlock. E gli uomini temono soprattutto quello che non vedono”
Gli afferra la mano di nuovo, riporta le dita lì dove c'erano quelle di Moriarty. Sherlock trema per un'istante, è John ma fa paura comunque.
Il biondo annuisce. “Senti come il terrore annebbia i tuoi sensi. Apprezza il suo potere di distorcere e di tenere a freno. E convinciti che questo potere può essere tuo. Abbraccia la tua peggiore paura!”
Sherlock ci prova. Il tocco di John è caldo, e dolce. Fa paura ma è così assolutamente essenziale. Potrebbe volerne di più. Potrebbe apprezzarlo, accettarlo, forse cercarlo. Potrebbe? Non lo sa in realtà.
Alza le dita, le poggia sul volto di John che non si scosta. Percorre con lentezza esasperante la sua mascella, le sue guance, costringe la mano su quel viso e il cuore batte forte. Serra gli occhi, dischiude un po' le labbra, incerto, ma procede.
“Sì, così! Diventa una cosa sola con l'oscurità. Focalizza! Domina i sensi”.
Sherlock lo fa. Non è facile. Forse non lo sarà mai, facile. Facile è una di quelle parole che non capisce.
Facile quanto? Facile in che modo? Facile non è quantificabile.
“Non è facile, Sherlock. Ma va bene”
E allora lui decide che potrebbe anche riprendere a respirare.

 
Epilogo

Osservare lo stato di decomposizione del passerotto abbandonato in giardino, nessuno lo fa (Sherlock lo fa ancora. John a volte lo accompagna).
Osservare il guizzo dei muscoli durante una corsa, nessuno lo fa (Sherlock lo fa ancora: gastrocnemio, soleo, peroneo lungo, quadricipite femorale, muscoli glutei, bicipite femorale, semitendinoso, semimembranoso. John a volte gli ricorda i nomi dei muscoli, quando li dimentica).
Osservare le reazioni facciali come conseguenza a un'emozione, nessuno lo fa (Sherlock lo fa ancora, non capisce sempre, ma sta imparando.).








Note al testo:

Antropofobìa s. f. [comp. di antropo- e fobia]. – In psicopatologia, morbosa sensazione di angoscia che insorge in alcuni individui in mezzo alla folla o in presenza di altre persone.
 
1Nomi non scientifici di alcuni dei muscoli coinvolti nella corsa.
2Non sono assolutamente un'esperta, perciò ho fatto una piccola ricerca e ho trovato che il principio di uno dei primi antipsicotici era appunto l'anilina, da cui si ricavava la prometazina.
3Definizione della IASP (International Association for the Study of Pain)
4Wikipedia, pura wikipedia (avvalorata dai residui di conoscenza di chimica del liceo)
5Nella serie, il sergente Donovan chiama Sherlock così. Nella traduzione italiana è diventato “geniaccio”, ma il significato vero è proprio si avvicina di più a “.strambo” o addirittura “mostro”.
6Solite ricerchine: nomi scientifici di due dei muscoli coinvolti nell'atto del sorridere. Nello specifico, quelli che sollevano gli zigomi.
7Titolo di un'acquaforte di Goya.

Note dell'autrice:
Questa è la prima volta che faccio un tentativo di Sherlock!centric così elaborato. Non mi sono sentita di segnalare la storia come OOC perchè dopo tutto si tratta di una Teen!lock, ed è verosimile supporre che il carattere di Sherlock, con tutte le sue sfaccettature e complessita, non sia ancora quello che poi avrà nella sua vita di adulto.
Questa storia è stata scritta per il concorso "Phobos e Deimos" indetto da meryl watase sul forum di EFP: ho scelto una fobia, su cui avrei dovuto costruire la storia (antropofobia, come avrete ampiamente capito) e una citazione. Tra le tante proposte, io ho scelto la celeberrima citazione da Batman Begins che ho poi riadattato e rielaborato in base ai miei scopi ed esigenze, e che ho fatto dire a John nella parte conclusiva dell'atto terzo (ma avrete capito anche questo).
Per quanto riguarda il pairing di questa storia, e la relazione tra Sherlock e John... io sono un'inguaribile fan della Johnlock, ma questa volta non ho scritto in funzione di questo loro ipotetico rapporto, ma concentrandomi sul fatto che John è, e di fatto resta, l'unica presenza costante e insostituibile nella vita di Sherlock. Arriva in punta di piedi, lo fa con poca arroganza, e diventa totalizzante.
Così è qui, con uno Sherlock che come al solito si definisce sociopatico ma vorrebbe semplicemente capire con più facilità il resto del mondo. E John diventa il suo contatto con la realtà, la sola cosa importante. Potete vederci dello slash, potete non vederlo. 
Va bene così, questa volta era tutto tranne che essenziale.
Un abbraccio, e alla prossima

Phae

P.s. Come sempre, 
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