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Autore: Bad Devil    09/09/2016    0 recensioni
Aveva sentito Jonathan imprecare nel tentativo di liberarsi, impossibilitato a riuscirci per una mera carenza di forza fisica rispetto al compagno sopra di lui. Aveva rantolato disperatamente in cerca di ossigeno, serrando la presa delle unghie sulla polso dell’altro, ora con le mani intorno alla sua gola.
Edward ci aveva messo poco per decidere che Mark era una priorità, ora.
[Scriddler / RiddleCrow ]
[AU - Parte della raccolta "Riddler's Box of Memories"]
Genere: Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi, Slash | Personaggi: L'Enigmista, Scarecrow
Note: AU, Raccolta, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
- Questa storia fa parte della serie 'Riddler's Box of Memories'
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Titolo: “Like a man”
Autore: Cadaveria Ragnarsson
Fandom: Batman
Personaggi: Jonathan "Scarecrow" Crane; Edward "Riddler" Nygma; Mary Keeny; Edwin Nashton
Pairing: Scriddler / RiddleCrow
Genere: Angst; Introspettivo; Drammatico
Rating: R
Avvertimenti: Tematiche delicate; Violenza; Omofobia; Slash; Menzione di OCD (Disturbo Ossessivo Compulsivo)
Disclaimer: I personaggi presenti in questa storia non sono reali, né di mia proprietà. Inoltre sono maggiorenni. Non ho nessun diritto legale su di loro a differenza degli autori e, dalla pubblicazione di questo scritto, non vi ricavo un benché minimo centesimo.

Note: Questa storia fa parte della raccolta "Riddler's Box of Memories", concettualmente basata sull'idea di Edward e Jonathan cresciuti insieme, prima di diventare i villains di Gotham.



Like a man


Edward Nashton era un ragazzo noto, nella sua impopolarità.

Lui era Riddle, il nerd fissato con gli indovinelli.

Massimo punteggio ad ogni test o interrogazione, piuttosto carente in educazione fisica, irritante all’inverosimile e totalmente incapace di tenere la bocca chiusa per un periodo superiore ai due minuti. Non faticava troppo per ottenere i propri voti, studiava a mala pena quanto richiesto dagli insegnanti, avendo appreso quelle nozioni con largo anticipo rispetto i compagni di classe, risparmiando quel tempo per portarsi avanti e studiare materie più complesse e largamente più avanzate rispetto al programma impostogli.

Scarsamente veniva interpellato dagli insegnanti in classe, non di loro spontanea volontà, almeno. Più volte Edward aveva risposto a domande postegli con una preparazione superiore a quella aspettata, altre invece, si era limitato a criticare con sprezzo l’imprecisione di alcune loro spiegazioni, arrivando persino a correggerle. Dire che Edward facesse qualcosa per farsi apprezzare dagli altri era uno scherzo stupido e di cattivo gusto: lui era irritante, semplicemente. Ogni volta che qualcuno provava ad approcciarlo, la sua prima mossa era quella di imporre la propria superiorità intellettiva, umiliando il proprio interlocutore e obbligandolo a tacere per averlo messo in condizione di non saper replicare. Col tempo tale comportamento aveva generato un astio generale nei suoi confronti e, con esso, anche le prime ostilità.

I soprannomi con coi era conosciuto a scuola erano spesso fortemente dispregiativi e date le sue maniere raffinate e spesso fraintendibili, faggot* vinceva su tutti.

Fag per gli amici, e lui, di amici, ne aveva anche troppi.

Nonostante la scarsa pazienza, il ragazzo era da sempre stato in grado di presagire quando una situazione sarebbe degenerata e di conseguenza aveva imparato, nel tempo, a capire quando fosse il caso di mordersi la lingua e ingoiare le dure parole degli altri per evitare un pestaggio.

Quella però, non era un’opzione valida, al momento.

Si era rialzato da terra rapidamente, sputando saliva e sangue, tastandosi poi il labbro dolorante con il dorso della mano. Aveva imparato ad incassare un pugno, in quello era bravo, ormai, ma saper come affrontare un pestaggio era ancora al di fuori della sua portata. Il suo sguardo si spostava da Sean a Erik, entrambi di fronte a lui e pronti ad attaccare ancora, mentre dietro di lui Jonathan era già a terra, troneggiato da Mark che non aveva perso un solo istante di tempo per afferrarlo per i capelli e colpirlo al viso più volte.

La loro rabbia era... comprensibile, tutto sommato.

Per quanto Edward si fosse sempre guadagnato l’odio dei compagni per non aver mai passato le risposte dei test, Jonathan aveva avuto la brillante idea di fornirle sbagliate, facendo crollare drammaticamente la media già misera di tutti e tre che, dopo averlo pestato per quasi un anno, avevano sperato nel suo sincero aiuto.

Una cosa simile non sarebbe passata impunita, Edward lo aveva avvisato, ma Spooky si era limitato a ridere, dicendo che ne sarebbe valsa la pena, anche a costo di dover sputare qualche dente. Ora gli restava solo da sperare di avere abbastanza soldi per il dentista.

Non che avrebbe fatto molta differenza, comunque. Per un motivo o per l’altro, un giorno, sarebbero finiti nella medesima situazione, avevano solo anticipato i tempi. Aveva sentito Jonathan imprecare nel tentativo di liberarsi, impossibilitato a riuscirci per una mera carenza di forza fisica rispetto al compagno sopra di lui. Aveva rantolato disperatamente in cerca di ossigeno, serrando la presa delle unghie sulla polso dell’altro, ora con le mani intorno alla sua gola.

Edward ci aveva messo poco per decidere che Mark era una priorità, ora.

Voltandosi verso di lui, gli arrivò con un calcio al costato, forte a sufficienza per sbilanciarlo e fargli lasciare la presa sul collo di Jonathan.

Non doveva toccarlo.

Nessuno doveva toccarlo.

Sean lo prese per un braccio e lo buttò a terra immediatamente dopo quel gesto, ma Crane ebbe modo di rialzarsi appena in tempo per prendersi un pugno in pieno viso e cadere all’indietro contro il muro alle sue spalle. Edward aveva reagito alla presa del biondo, arrivandogli al volto con un destro, ma Erik, più veloce, gli aveva mozzato il respiro colpendolo allo stomaco.

Non v’era modo che ne uscissero sulle loro gambe dopo quello che Jonathan aveva fatto.

Edward venne afferrato per i capelli, costretto in ginocchio e poi a terra, con un piede che gli premeva la testa contro il duro e sudicio asfalto della terrazza, volto a imporgli la volontà dei suoi assalitori.

“Sei morto, Nashton!” disse, premendo con più forza il suo viso a terra.
“Dovevi andartene quando ne hai auto l’occasione.”

Il rosso digrignò i denti ma non rispose, cercando di guardare come il fidanzato se la stesse cavando contro gli altri due. Tutto ciò che poté vedere fu il formarsi di una piccola pozza di sangue tra le gambe dell’altro.
Scalpitò per liberarsi; gli costò molta difficoltà e dolore. Il viso aveva grattato sul pavimento irregolare della terrazza nel tentativo di sottrarsi al peso del piede dell’altro. Quando alla fine riuscì nel suo intendo di sbilanciarlo, potersi rialzare per raggiungere il ragazzo fu il suo primo obiettivo.

Affrontarli non era un’opzione almeno tanto quanto abbandonare Jonathan non lo era stata, quando con fare minaccioso e parole offensive quei tre li avevano raggiunti sul terrazzo della scuola e accerchiati.
Jonathan era stato il primo a scagliarsi contro di loro, non appena fiutato il pericolo. Era bastato vedere Edward spinto da parte e con forza contro il muro, per farlo partire deciso a pugno chiuso contro il volto di Mark. Purtroppo, però, quello era stato l’unico colpo ben assestato che il ragazzo era stato in grado di sferrare, prima di essere atterrato e colpito più volte al viso e al costato.

Edward si impose di respirare. Doveva pensare.

Analizzò rapidamente la situazione: uno a terra, Mark a un metro, l’altro a meno. Colpì con una gomitata al volto quest’ultimo, afferrando poi il polso di Spooky e iniziando a correre verso le scale del terrazzo, unica via di fuga.

Jonathan aveva barcollato alla sua stretta, ma prontamente lo aveva seguito nella corsa riuscendo a strattonare via la propria maglia dalla mano di Mark, che subito lo aveva afferrato.
Corsero a perdifiato per le scale, raggiungendo ben presto il corridoio del terzo piano dell’edificio scolastico. Edward era veloce, ma nonostante i colpi già incassati Jonathan riusciva a stargli dietro a velocità costante, facendo del proprio meglio per schivare e non farsi rallentare dagli altri studenti presenti.

La mente era vuota, incapace di formulare qualcosa che fosse anche simile ad un pensiero coerente. Si premette una mano contro il volto sanguinante, sentendo il calore scivolargli tra le dita e sgocciolare ulteriormente sulla maglia e in terra, incapace di fare altro da seguire Edward lungo il corridoio ormai al termine.

“Di qua!” gli aveva detto il rosso trascinandolo verso la rampa di scale principale, scendendo ancora.

Alle loro spalle Mark gridava di fermarsi, che li avrebbe ammazzati, froci figli di puttana, ma era veloce, a pochi metri da loro e con la mano protesa per afferrare in qualunque momento i capelli di Jonathan.
Questi, tirato da Edward, fu costretto a saltare tre gradini insieme, rischiando quasi di scivolare all’impatto con il pavimento. Non perse tempo e con l’aiuto del braccio libero si rialzò, scattando ancora in avanti e riguadagnando subito il terreno perso.

Il trambusto aveva attirato l’attenzione di molti studenti di altre classi e qualche insegnante, ma a nulla valsero i loro richiami. Non c’era modo che uno di loro riuscisse a convincere chiunque dei cinque a fermarsi e Edward, sicuramente, non sarebbe stato il primo.

Un posto sicuro, continuava a ripetersi a mente, trovandosi ben presto la risposta a pochi metri.

Non era troppo sicuro, ma sarebbe stato efficace allo scopo: un bagno.

Con uno scatto deviò all’interno della stanza sulla destra, trascinando Jon con sé con uno strattone.

“TIENILA!” Gli aveva gridato, dopo aver chiuso la porta con un calcio.

Spooky aveva agito come ordinato, ponendosi con la schiena contro la superficie e facendo del proprio meglio per far leva con una gamba contro il lavandino. Ben presto arrivò il primo spintone contro la porta, al quale quasi finì in terra. Resistette ancora, ringhiando e facendo più forza contro di essa, mentre Edward a poco da lui trascinava l’armadietto presente all’interno della stanza per fermare la porta definitivamente.

Non perse tempo a spostarlo perfettamente, avvicinandolo quanto sufficiente per poterlo ribaltare con una spinta e farlo incastrare tra la porta e il muretto che riempiva lo spazio vuoto sotto i lavandini, ringraziando la prontezza di riflessi di Spooky nel riuscire a togliersi appena in tempo.
I battiti sulla porta era forti, incessanti, così come gli spergiuri di Mark e degli altri.
Tutto tremava sotto i loro colpi, ma l’armadietto non avrebbe ceduto, lasciando la porta serrata e dando loro il tempo di pensare a un piano di riserva.
La finestra, però, non era un’idea considerabile; bloccata da una grata di metallo e bloccandoli all’interno della stanza vuota.

Jonathan si aggrappò al bordo del lavandino, ormai sul punto di cedere. La scarica di adrenalina che nella fuga lo aveva raggiunto era giunta al termine, lasciandolo con le ginocchia molli e pronte ad abbandonarlo da un momento all’altro.
Il respiro era affannato, rapido, il battito del suo cuore eccessivamente elevato.

Ne varrà la pena!” gli fece eco Edward, ricordando le sue parole di poche ore prime, mostrando un tono di voce più alterato di quanto onestamente lui non fosse. Jonathan alzò lo sguardo allo specchio, ancora trafelato, ignorando il proprio riflesso per volgere lo sguardo al fidanzato e accertarsi delle sue condizioni.

Non sembrava stare troppo bene, ma forse era ridotto meglio di lui e questo lo rincuorò. Edward si era lasciato scivolare contro il muro, esausto, reggendosi il volto graffiato con una mano. Un angolo della sua bocca sanguinava ancora e sui vestiti in disordine vi erano ancora i segni delle mani dei loro inseguitori, ma tutto sommato sembrava stare meglio di altre volte in cui lo aveva visto in condizioni simili ma per mano altrui.

Jonathan, al contrario, era un disastro: il naso gli sanguinava ancora copiosamente, così come il labbro, creando lungo la sua pelle sottili rivoli cremisi, che sporcarono sulla loro via persino i suoi abiti e il pavimento. La maglia aveva una manica strappata e i capelli erano arruffati e fuori controllo.

Si premette nuovamente la mano contro il volto e sospirò, cercando con lo sguardo le salviette usa e getta per asciugarsi le mani. Ne trovò un paio, ma ben presto realizzò fossero le ultime.

“Merda.”

Ne porse una Edward che quasi gliela strappò dalle mani, premendosela poi con forza contro la guancia sfregiata.

“Un po’ ti odio.” Gli disse alzando lo sguardo per incontrare i suoi occhi azzurri.

Jonathan sorrise e prese posto al suo fianco, gemendo obbligato a reggersi il costato, premendo la propria salvietta contro il naso nell’inutile tentativo di fermare quella perdita di sangue.

“Non mi pento di nulla.” Disse sincero, ripensando ancora una volta a tutti i motivi che l’avevano spinto a desiderare ardentemente vendetta.

Se l’erano cercata, Sean ed Erik, nel momento esatto in cui avevano deciso di prendere le parti di Mark e sostenerlo nel tormentarlo. Se l’erano guadagnata con ogni frocio, scarecrow, slender con cui l’avevano appellato; con ogni pugno con cui l’avevano colpito; con ogni sguardo male intenzionato rivolto all’indirizzo di Edward.

Per ogni volta che avevano insinuato che fossero una coppia di froci.

Ad ogni respiro, da un anno a questa parte.

“Se la sono cercata.”

Edward non disse nulla, alzando lo sguardo verso l’armadio che ancora tremava contro i colpi dei tre, ma che per nulla al mondo dava l’idea di star per cedere. Jonathan gli aveva passato un braccio intorno alle spalle solo per poterlo attirare a sé senza che potesse ritrarsi, poggiando la fronte contro la sua tempia in un gesto d’affetto.

Quando la situazione si era fatta difficile, a Edward era stata data l’occasione di andarsene, ma lui non l’aveva nemmeno considerata, prendendo le sue parti e finendo coinvolto in quel pestaggio.

Jonathan non l’aveva dimenticato.

“Stai bene?” Gli chiese, ma Edward distolse lo sguardo, pretendendo di essere arrabbiato.

“Stai zitto.”

“Stai bene.”
Asserì di rimando, posandogli un bacio sulla guancia e facendo del proprio meglio per non ascoltare gli insulti e le minacce che provenivano dal corridoio.
Presto, però, si udì anche la voce autoritaria di una donna.


*


Nel giro di un’ora vennero convocati tutti e cinque nell’ufficio della preside dell’istituto, accompagnati dalla vicepreside e altri due insegnanti, in attesa di spiegazioni per quel comportamento oltraggioso e fuori controllo.

Sotto le continue pressioni della donna, Edward venne forzato a dare la propria versione dei fatti.

Parlò di giustizia, spiegando cosa avesse causato una reazione così spropositata da parte dei compagni che, in silenzio, non provarono nemmeno a negare i fatti.
Erik, Sean e Mark vennero sospesi immediatamente e fatti sedere in fondo alla stanza in attesa che i loro genitori venissero convocati ed informati dei fatti. Jonathan ed Edward, però, non sarebbero stati da meno, ora anche loro in attesa dell’arrivo dei familiari.

La prima ad arrivare fu Mary Keeny, indispettita dalla sola idea che suo nipote stesse causando problemi, seguita una decina di minuti dopo dalle madri dei tre ragazzi e infine dal signor Nashton, stanco dal turno di lavoro della notte precedente.

Dovettero spiegare nuovamente la situazione e, sebbene il tono della preside lasciasse presagire una certa morbidezza sul trattare il caso dei due ragazzi, la bisnonna di Jon sembrava tutto fuorché propensa al passare sopra la questione.

“Credevo di averti insegnato a non mentire, Johnny.” Aveva detto guardandolo dall’alto in basso, elegantissima nel suo lungo abito nero.
Lui non proferì parola, chinando la testa intimorito dalla sola idea di come la donna gli avrebbe impartito nuovamente quel duro insegnamento.

A dire il vero un po’ tutti i presenti sembrarono intimoriti dall’aura autoritaria che la donna emanava, riuscita, nella sua magnificenza, a far chinare la testa persino ai tre studenti colpevoli del misfatto.

Il padre di Edward sembrava, sì alterato, ma anche spaventosamente silenzioso alla vista di quanto accaduto.

“Come istituto non intendiamo prendere un provvedimento come la sospensione per loro due...”
Indicò Jonathan ed Edward, in disparte rispetto agli altri tre ragazzi.
“...ma è evidente che un caso del genere necessitasse segnalazione.”

Vennero congedati quasi immediatamente dopo quelle parole e, nello stesso momento in cui lasciarono l’ufficio, le dita di Mary Keeny si serrarono sulle ciocche corvine del nipote, trascinandolo per esse lungo la propria via, sotto gli occhi di tutti i presenti.

Edward sapeva perfettamente come sarebbero andate le cose ora: se prima del coinvolgimento della preside aveva sperato di potersela cavare facendo leva sul disinteresse genitoriale di suo padre, ora che era stato convocato era sicuro che sarebbe finito tutto molto male.

Durante il tragitto per tornare a casa suo padre gli rivolse qualche domanda sullo svolgimento dei fatti.
Chi avesse colpito, come, si fece spiegare per bene la situazione ancora una volta, prima di rinchiudersi nuovamente nel silenzio.

Una volta a casa intimò al figlio di non sparire nella propria stanza, andando in cucina; quando fu di ritorno, tra le mani stringeva due lattine di birra.

“Siediti.” Gli disse aprendone una e porgendogli l’altra.

Edward lo guardò in piena confusione, non riuscendo a capire cosa volesse.

“Ti sei comportato da uomo.” Gli disse prendendo posto di fronte a lui al tavolo del soggiorno.
“Bevi.”

Edward lo guardò incredulo, passando lo sguardo tra il suo viso e la birra, più volte.

“Bevila con me.” Insistette ancora e, seppur titubante, Edward eseguì la sua richiesta, aprendo la lattina e tenendola tra le mani.

Edwin, in un gesto rapido, fece scontrare le due lattine, prendendone poi un gran sorso.

“Finalmente hai smesso di comportarti da femminuccia e hai tirato fuori le palle.” Gli disse con un sorriso fiero, ammirando i segni sul suo volto.
“Immagino che a te abbia passato le risposte giuste,” insinuò, ricordando gli avvenimenti di quel pomeriggio.
“E’ per questo che sei rimasto coinvolto e hai preso le sue difese, non è vero?”

La domanda era retorica, mostruosamente accusatoria e offensiva alle orecchie di Edward, ora colpito profondamente dove faceva più male.
Io non-” l’uomo, però, non lo lasciò nemmeno terminare.

“Mio figlio.” Con un cenno dello sguardo lo incitò nuovamente a bere.

Edward eseguì, paralizzato dal terrore e non volendo sfidare la sua autorità per nessun motivo, in quel momento, ancora terribilmente confuso e a disagio per la situazione creatasi.
Ne prese un sorso e fece del proprio meglio per non mostrare una smorfia troppo disgustata al sapore orribile che aveva ora in bocca, portandosi poi la lattina contro la guancia sfregiata, beandosi per la sensazione di fresco contro la propria pelle.

Dentro, però, si sentiva morire.

“Sai Eddie,” iniziò l’uomo, appoggiando la schiena indietro sulla sedia.
“Iniziavo sinceramente a temere che fossi una di quelle checche smidollate...”

Lo sguardo dell’uomo era stanco, ma per la prima volta nella vita sembrava avere un genuino interesse nell’avere una conversazione con lui.

“Sai, no... con tutti quei libri... quelle maniere effeminate e quelle camicie...”

Edwin parlava con calma, non tralasciando una cerca apprensione nel proprio tono di voce.
Più volte il pensiero che il figlio fosse un diverso lo aveva attraversato.
Ogni suo maledetto indovinello, il suo modo di parlare, il vestiario, il modo in cui si muoveva, l’eccessiva cura per il proprio aspetto esteriore... tutto gli aveva fatto credere che Edward fosse il tipo di ragazzo a cui piacevano gli altri maschi.

Intollerabile.

“Eri sempre in compagnia di quell’altro ragazzo... Keeny.”
Il primo amico che il figlio avesse mai avuto, strano quanto lui e dall’atteggiamento decisamente equivocabile. Quando il figlio tornava a casa da scuola. Edwin solitamente dormiva o era fuori per qualche ragione, ma sapeva che il bastardo dei Keeny era solito frequentare l’abitazione e la sola idea di loro due insieme in una casa vuota per fin troppe ore gli aveva dato da pensare.

Edward rimase senza parole, sconvolto e con il fiato bloccato in gola.
Strinse la mano sul proprio ginocchio, forzandosi in ogni modo per non dare nessun segno o reazione ai timori del padre. Attinse a un altro sorso della propria lattina, seppur disgustato, per evitare di incrociare il suo sguardo.

“Il pensiero che tu e lui poteste...” non finì la frase, allargando poi le labbra in un sorriso.
“Ma poi ho visto cosa hai fatto. Nessun frocio può colpire a quel modo!”

Tutto, in suo padre, sembrava mostrare orgoglio, dal modo in cui lo guardava, all’espressione differente da quella carica d’astio e disprezzo che gli riservava ogni giorno.

“Anche se tu e quel manico di scopa del tuo amico le avete prese, avete saputo restituirle.”
Una mano gli si posò sulla spalla, stretta. Pesante.
“Sono fiero di te, Eddie.”

Edward ingoiò a vuoto, senza parole nel sentirsi denigrare così spudoratamente, nonostante le buone intenzioni.


Almeno non sei una di quelle checche smidollate.

Nessun frocio può colpire a quel modo.

Il pensiero che tu e lui poteste...



“Grazie, papà.” Disse solamente, prendendo un altro sorso di birra per evitare di protrarre quel contatto visivo per più del dovuto.

“Vai a darti una ripulita ora.” Gli disse, dandogli una pacca sulla schiena.
“Ordino della pizza per cena.”

Edward annuì, lasciando la propria birra a metà sul tavolo e defilandosi a passo svelto al piano superiore, con gli arti tremanti e il respiro spezzato.

Appena raggiunta la porta della propria camera la chiuse alle proprie spalle e si inginocchiò a terra, premendosi le mani contro il volto.

La bocca dischiusa in un grido silenzioso e disperato da cui, però, non uscì alcun suono.

Per la prima volta dopo molti anni si sentì stupido, terribilmente stupido per aver sperato, giorno dopo giorno che la propria situazione familiare potesse avere soluzione. Aveva creduto che il disprezzo di suo padre fosse momentaneo, che prima o poi inevitabilmente si sarebbe reso conto di quanto lui fosse brillante e che, anche se carente sul piano fisico, la sua intelligenza meritasse attenzioni e rispetto.

Si era sbagliato così tanto dal sentirsi opprimere dalla vergogna.

Nonostante le belle parole, era evidente che lui incarnasse tutto ciò che suo padre più odiava. Aver frainteso la situazione aveva soltanto messo l’ultimo chiodo nella bara della consapevolezza.
Era stato obbligato a mentire per tutto questo tempo; gli aveva fatto credere di essere qualcosa che non fosse e ora, finalmente dinnanzi la verità, Edward era stato solo in grado di tacere e distogliere lo sguardo, terrorizzato all’idea di cosa sarebbe successo se disgraziatamente avesse dato conferma ai timori del padre.

Frocio.

Ti ha passato le risposte.


Ancora con il volto tra le mani si affrettò a cancellare i segni delle lacrime, provando a focalizzarsi sul dolore fisico o di incatenare la propria mente su dei pensieri in grado di distrarlo.

Era un bugiardo.

Il punto in cui Edwin gli aveva dato una pacca, in preda all’orgoglio, era più doloroso delle ferite sul suo viso.
Quel “sono fiero di te”, bruciava sulla sua pelle più del peggiore degli insulti che avesse mai ricevuto.

Aveva ragione, era un bugiardo.
Fece del proprio meglio per trovare la forza di rialzarsi dal pavimento. Voleva togliersi di dosso quei vestiti sporchi e danneggiati, voleva lavarsi.

Lavare via tutto, il sangue, la polvere, le parole, le proprie lacrime, i pezzi del suo orgoglio infranto.

Ogni cosa sarebbe andata via, perché lo sporco andava via con acqua e sapone, e lui si sentiva lurido.

Lui era lurido.

Lo era dal giorno in cui aveva capito di essere diverso dagli altri.
Portava il fardello di non essere il figlio che suo padre avrebbe voluto, su di sé sentiva il peso dell’abbandono della propria madre.

Non sono stato una ragione valida per farla continuare a vivere.

Non ero abbastanza.



Non sono abbastanza.

Pensò a Jonathan, in quel momento, come consuetudine durante i momenti di sconforto.

Si chiese se stesse bene, o se la pazzia della sua bisnonna stesse avendo ancora una volta il sopravvento, a quanto avrebbe voluto passare la notte tra le sue braccia, solo per avere il silenzioso conforto della sua mano da stringere nella propria, o per sapere di non essere solo.

Pensare a lui, però, per la prima volta, lo fece vergognare.

Si spogliò dei propri abiti in un momento di frustrazione. Li gettò in terra ammucchiandoli in un angolo della stanza, premurandosi di prendere soltanto un cambio pulito. Doveva lavarsi ora: lo sporco era dappertutto.

Sulle sue mani, sul suo viso, sulla sua pelle, nella sua mente.

Nel sorriso di Jonathan, nel modo in cui lo guardava; nella propria bocca, quando erano insieme; nei loro sguardi languidi, in quei sospiri di piacere, nei suoi pensieri; dentro di lui.

Aveva mentito per tutto quel tempo
ed era stato troppo stupido persino per rendersene conto.



Sotto le sue unghie; tra i suoi capelli, annidato insieme alla polvere.

Suo padre aveva ragione.



Nella sua testa, nella malizia dei suoi indovinelli contorti, nel piacere che provava a sentirsi superiore agli altri.
Nelle parole taglienti, tra le pagine dei suoi libri, tra le braccia di Jonathan; ovunque.

Suo padre aveva ragione.



Doveva lavarsi.

Era sporco.





End
Cadaveria†Ragnarsson



*"Faggot": termine inglese per dire frocio; abbreviato in Fag.
  
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