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Autore: taisa    09/09/2016    2 recensioni
È dura vedere la sofferenza sul volto della persona che ami... peggio sapere che è a causa tua.
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: 18, Crilin | Coppie: 18/Crilin
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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ESSERE UMANO

 

Non c’era molto da aggiungere, il risultato era inconfutabile e non vi era modo di variarlo. Fissò il test con estrema intensità, quasi sperando che sotto il suo sguardo esso sarebbe mutato, ma era inutile illudersi.

Fece una smorfia, accompagnata da uno sbuffo e lasciò cadere il malefico bastoncino nel cestino, lanciandolo forse con un po' troppa foga. I suoi occhi si soffermarono per un altro secondo, poi con notevole delusione decise che era inutile stare lì a contemplare qualcosa che non era in grado di cambiare.

Uscì dal bagno appena un secondo più tardi, camminando con lo sguardo rivolto ai tatami che stava calpestando. Quando lo alzò, si accorse che il corridoio non era deserto. Lui l’aveva aspettata per tutto il tempo e doveva essere scattato sull’attenti il momento in cui aveva sentito la porta del bagno socchiudersi.

“Allora?” le domandò apprensivo, il fiato corto come se avesse appena fatto una lunga corsa. Lei, scostò i gelidi occhi azzurri al suolo, trovando qualcosa di vago interesse. Scosse il capo.

Nel silenzio attese che Crilin le dicesse qualcosa, ma dopo aver compreso che lui non si sarebbe mosso, si ritrovò a guardarlo di sottecchi per vedere la sua reazione. Condividevano lo stesso sconforto, anche lui si era ritrovato a fissare i tatami, in preda a chissà quali pensieri. Diciotto vide il marito compiere il gesto istintivo di grattarsi il capo, sulla quale stavano spuntando i primi capelli neri che aveva deciso di lasciar crescere.

Era in grado di gestire la propria delusione, ma notarla negli occhi neri di lui era un’altra cosa. Un vago senso di colpa si fece strada nella sua mente e, si chiese, se anche Crilin avesse simili pensieri. Questo non fece altro che farla sentire peggio.

Alzando il capo, Crilin lanciò un’occhiata veloce alla rampa di scale che conduceva al piano inferiore, poi con un guizzo le afferrò una mano e la condusse per quei pochi passi che li separavano dalla camera da letto.

Diciotto vide la modesta stanza illuminata dalla luce del sole riflesso sul mare che circondava l’isolotto. Si ritrovò ad osservare l’orizzonte dalla finestra. Sentì le onde infrangersi con regolare delicatezza sulla sabbia appena fuori dalla sua visuale e i gabbiani che da qualche parte in cielo volavano in cerca di cibo.

Quando si girò, vide il marito chiudere la porta per isolare quella che sarebbe ben presto diventata una conversazione privata, mantenendo all’oscuro il resto degli abitanti della casa. In seguito la guardò, e Diciotto notò che per quanto lui stesse cercando di nasconderlo c’era una certa delusione nei suoi occhi.

“Sei assolutamente sicura?” si accertò a fil di voce e, a malincuore, Diciotto sentì la propria voce farfugliare un timido “Sì”, poi scese di nuovo il silenzio.

Crilin si accomodò sul materasso osservando le proprie dita in cerca delle parole che sembrava non riusciva a trovare, lei tornò a fissare il mondo all’esterno. Le spezzava il cuore vederlo così abbattuto e non poteva sopportare l’idea di esserne la causa.

Era un pensiero che aveva da un po', ma fino ad allora lo aveva sempre tenuto chiuso in un cassetto della sua mente per paura che potesse essere vero. “Crilin” disse all’improvviso continuando a dargli le spalle, ciononostante seppe che lui aveva nel frattempo alzato lo sguardo. “Potrebbe non essere possibile” continuò a dire, dando voce alle proprie paure, udì il materasso sollevarsi e la voce del marito dire “Cosa intendi?”.

Diciotto tornò ad esitare. Si prese del tempo per riuscire ad accettare l’idea e per trovare il modo migliore per esporla. “C’è la grossa possibilità che io non possa restare incinta” si sorprese nel constatare quanto calma era suonata la propria voce, ma lo fu ancora di più quando denotò un certo panico in quella di Crilin, “No!” esclamò “Siamo… siamo solo molto sfortunati” ma a questo non credeva neanche lui.

Sapevano che non sarebbe accaduto alla prima occasione, non tutti erano così fortunati. Avevano riprovato, ma il risultato era sempre stato lo stesso. Passati mesi, e tentativi, i dubbi nel cuore di Diciotto si stavano facendo sempre più persistenti, e sebbene non ne avesse mai parlato con il marito sapeva che anche lui stava nutrendo perplessità.

“Crilin!” cominciò a dire con più vigore, ora voltandosi verso di lui per guardarlo negli occhi, ma quando lo fece se ne pentì non riuscendo a sostenere il dolore ben visibile nelle pupille scure. Guardò il pavimento, “Hai mai pensato che il… il Dott. Gelo possa aver fatto in modo che io non fossi in grado di avere figli, quando mi ha trasformato in una macchina?” non voleva essere così dura con lui, ma la sola idea che quel pazzo del Dott. Gelo le avesse negato anche questo le diede la nausea. La sola menzione del suo nome bastò per farle ribollire il sangue nelle vene. L’odio per l’uomo che l’aveva sottratta ad una vita normale non sarebbe mai svanito. Poi, quando tornò a fissare il viso del marito, si ricordò che non tutti i mali venivano per nuocere e la sua rabbia si affievolì.

“No, io… io non avevo pensato a questo” ammise Crilin, l’espressione contratta dalla tristezza. Diciotto tornò ora a sentirsi colpevole, quasi come se l’idea di diventare un cyborg fosse stata sua. Si portò una ciocca di capelli biondi dietro l’orecchio in un gesto automatico e un po' timido. Infine si accomodò sul proprio letto, osservando le punte delle proprie scarpe.

Prima che potesse dire o anche solo pensare ad altro, Crilin le fu seduto accanto, un braccio attorno alla sua spalla per tenerla stretta a sé e darle tutto il conforto di cui aveva bisogno. Con un senso di gratitudine si ritrovò ad appoggiargli la testa sulla spalla, sperando che tutta la sua frustrazione potesse andare via, assieme ai problemi.

Improvvisamente si ricordò perché lo amava. Ogni volta che le sembrava di scivolare e di perdere l’ultimo appiglio con la speranza, Crilin era sempre lì per ricordarle che non era ancora finita. Finché lui le tendeva una mano senza barcollare, Diciotto sentì che sarebbe sempre riuscita a restare in piedi al suo fianco.

“Senti…” le disse, stringendole le dita con la mano che aveva libera, “Se è davvero come dici tu allora forse abbiamo bisogno di parlarne con qualcun altro” lei alzò la testa per fissarlo negli occhi. “Cosa vuoi dire?” gli domandò, un po' incredula. Crilin le sorrise con la sua immancabile genuinità, “Beh, mi è venuta un’idea” confessò.

 

***

 

Di tutte le scene che si erano aspettati di vedere al loro ingresso in quel salotto, ciò che si presentò ai loro occhi non era di certo una di quelle.

Seduto sul tappeto, Gohan se ne stava a gambe incrociate circondato da automobili giocattolo, peluche e almeno un paio di libri adatti a bambini in età prescolare. Al suo fianco due vivacissimi saiyan sembravano intenti in un gioco che coinvolgeva un dinosauro di pezza e una varietà di autoveicoli.

Gohan alzò lo sguardo quando sentì di avere compagnia, ma anche lui parve sorpreso. “Ciao” disse, nei suoi occhi era evidente che nemmeno lui si aspettava un tale incontro. Crilin inarcò un sopracciglio, “Ciao Gohan. Cosa ci fai qui?” domandò avvicinandosi, lanciando un’occhiata ai due bambini e ritrovandosi a fissarli con vivo interesse. Diciotto non poté fare a meno di notarlo.

“Beh…” cominciò “Ho promesso a Bulma che mi sarei preso cura di Trunks questo pomeriggio” spiegò volgendo lo sguardo ora verso il diretto interessato, ora verso il compagno di giochi. “E già che c’ero ho portato con me anche Goten. La mamma è un po' stanca ultimamente, le ho detto di riposare” concluse, tornando quindi ad osservare il suo interlocutore. Poi con più curiosità, lanciò un’occhiata alla moglie del guerriero ancora ferma all’ingresso del salotto.

Crilin, nel frattempo si era avvicinato ai due bambini che non sembravano troppo interessati ai nuovi venuti. S’inginocchiò accanto a loro, “A cosa state giocando?” chiese. “Ai dinosauri” rispose vagamente Trunks, mostrando il pupazzo che teneva tra le piccole dita, tornando poi ai suoi giochi come se non fosse mai stato interrotto. L’uomo ridacchiò, “E come funziona?” chiese nuovamente, e questa volta a rispondere fu Goten che additò i velivoli giocattolo tutte marcate Capsule Corporation, “Il dinosauro le mangia” e come aveva fatto in precedenza l’amico riportò subito la sua attenzione ai giocattoli. “Ah, capisco” mormorò Crilin, “Posso unirmi a voi?” disse, osservando i due piccoli monelli scambiarsi uno sguardo d’intesa. Poi senza esitare, come se la mozione fosse passata all’unanimità, Trunks mise tra le mani dell’adulto una delle sue macchinine.

Con un velo di tristezza, Diciotto non poté fare a meno di notare che il marito era davvero bravo con i bambini. Sarebbe stato un ottimo padre, se solo fosse stata in grado di dargli dei figli. Si sentì in colpa ancora una volta.

“Sai, Gohan, ogni volta che lo vedo Goten somiglia sempre di più a tuo padre” stava nel frattempo dicendo Crilin, ora coinvolto nei giochi dei due bambini. Diciotto si voltò ad osservare il ragazzo al centro del tappeto, parve rammaricato per un momento, ma nonostante ciò sorrise. “Sì, anche la mamma e Bulma dicono la stessa cosa” concordò, arruffando la testa già spettinata del fratellino.

Diciotto non si era mai trovata faccia a faccia con Son Goku, a discapito del fatto che ucciderlo era uno degli obiettivi scritti nei suoi chip, tuttavia la sua banca dati le fornì un’immagine del defunto saiyan da paragonare al bimbo troppo intento a divertirsi per preoccuparsi della dipartita prematura del genitore. Come ovvio, si vide costretta a concordare che la somiglianza era lampante.

Tuttavia, se uno dei due padri era nell’aldilà e le madri dei bambini erano impegnate, che fine aveva fatto l’altro genitore? Poi si ricordò chi era il padre del piccolo Trunks e Diciotto cercò di reprimere un certo fastidio.

Il principe dei saiyan era già sulla sua lista nera, ma in quel momento si vide costretta ad aggiungere un nuovo motivo per disprezzarlo. Lui non aveva fatto nulla se non lo stretto necessario per diventare padre, eppure mai una volta negli ultimi anni lo aveva visto anche solo avvicinarsi al bambino. Al contrario, lei che un figlio lo voleva più di ogni altra cosa sembrava non poterne avere affatto.

“Siete qui per vedere Bulma?” chiese infine Gohan, e Diciotto impiegò alcuni istanti prima di rendersi conto che la domanda era rivolta a lei. Richiuse i propri pensieri in un angolo e si scoprì ad osservare due occhi molto simili a quelli di Son Goku, mentre il figlio maggiore dell’uomo la stava fissando in attesa di una risposta. “Sì” disse infine, nessuna altra spiegazione.

Gohan sembrò sul punto di dire qualcos’altro, ma proprio in quel momento, come se fosse stata evocata, la voce di Bulma fece capolino alla spalle della cyborg. “Non sapevo avessimo ospiti” affermò, trovandosi a contare molte più persone nel suo salotto di quante si fosse aspettata.

Diciotto si voltò a guadarla, notando in pochi istanti la peculiarità del suo abbigliamento. Indossava una pesante tuta da lavoro sulla quale lo stemma della compagnia faceva bella mostra di sé, assieme a macchie di un qualche liquido scuro, presumibilmente olio per motori. Lo stesso le era finito su una guancia e su alcune ciocche di capelli. Da una tasca un paio di guanti pesanti erano stati riposti senza troppa cura e tra le mani stringeva uno strofinaccio annerito che stava usando per eliminare le stesse macchie dalle proprie braccia. Aveva più l’aspetto di un meccanico e questo le bastò per farle cambiare idea. Tuttavia per amore di Crilin soppresse l’impulso di scappare.

“Mamma!” esclamò Trunks, alzandosi di scatto per andarle incontro. Fu evidente al primo sguardo che, per quanto la donna volesse essere ospitale, il figlio aveva la precedenza su tutto. Quando le fu abbastanza vicino, Bulma lo sollevò da terra, stringendolo a sé, dopo aver riposto lo straccio assieme ai guanti. “Accidenti, Trunks, stai diventano troppo pesante perché io possa prenderti in braccio” disse più a sé stessa che non al bambino. “Ti stai comportando bene con Gohan?” Trunks annuì.

“Sono entrambi molto bravi” la tranquillizzò il babysitter per un giorno, regalando alla donna un sorriso rassicurante.

Bulma scostò una ciocca di capelli lilla dalla fronte del figlio in un gesto amorevole, poi si rivolse ai suoi ospiti, “Come mai da queste parti voi due?” chiese. Diciotto notò che ora Crilin si era alzato ed il suo sguardo si era fatto più serio, più apprensivo. Forse, pensò lei, l’idea era stata più facile che non la messa in pratica. I coniugi si scambiarono uno sguardo d’intesa e il marito le annuì. “Ehm…” cominciò un po' insicuro, “Avremmo bisogno di parlare con te” le disse con aria seria.

Incuriosita, Bulma inarcò un sopracciglio, passò lo sguardo dal marito alla moglie e lì si soffermò, come se volesse catturare le loro intenzioni. Sentendosi a disagio sotto lo sguardo azzurro cielo della donna, Diciotto decise di scostare i suoi color del ghiaccio in un’altra direzione. Questo sembrò bastare a farle capire che il discorso in questione doveva essere molto serio.

“Trunks, ti va di rimanere con Goten e Gohan per un altro po'?” il bambino fece un cenno d’assenso con il capo “Sì mamma” le disse stringendola per un secondo tra le piccole braccia e regalandole un timido bacio sulla guancia pulita. Bulma sorrise, strinse il figlio a sé, poi decise di adagiarlo al terreno affinché lui potesse tornare ai suoi giochi con l’amico. “Te li affido per qualche minuto” disse infine al giovane saiyan che di rimando annuì, “Nessun problema” le fece eco, mentre i tre lasciarono la stanza riportando la scena nel salotto come quella che avevano trovato alcuni minuti prima.

Bulma li condusse tra gli ampi corridoi della Capsule Corporation, fino a raggiungere quello che doveva essere il laboratorio. Al centro un grosso aereo faceva bella mostra di sé, e parve evidente che era su quello che stava lavorando. La padrona di casa si accomodò su uno sgabello situato accanto ad una scrivania, facendo cenno ai suoi ospiti di prendere posto su alcuni sedili poco distanti. “Allora, di cosa avevate bisogno?” domandò una volta che tutti si furono seduti.

Diciotto cercò e trovò gli occhi del marito. La mano di lui afferrò una delle sue, nascoste dietro il tavolo. Sentì l’uomo muoversi a disagio nella propria sedia, pertanto strinse la presa delle sue dita. Crilin tossicchiò “Beh, la questione è… noi stavamo pensando di avere un bambino…” cadde il silenzio, nella quale Bulma sembrò riflettere su quelle parole. “Oh” rispose pochi istanti più tardi, intuendo che c’era dell’altro e decidendo di non mettere loro alcuna fretta.

Per la prima volta da quando erano entrati in quella stanza, Diciotto si decise a fissarla negli occhi. Aveva lo sguardo intelligente e comprensivo, ma questo non bastò per farla sentire a proprio agio. Non la conosceva, era un’amica di Crilin, non sua. E per quante volte il marito le aveva assicurato che era affidabile e che li avrebbe senza dubbio aiutati, Diciotto continuò a domandarsi se stessero davvero parlando con la persona giusta.

Tuttavia ci fu altro che catturò la sua attenzione. La donna che aveva d’avanti era a capo della più grande compagnia del pianeta Terra. Creava invenzioni all’avanguardia che immetteva regolarmente sul mercato e che fruttavano miliardi. Aveva un bambino piccolo che ancora non aveva raggiunto la cinquina e che stava crescendo quasi interamente da sola. Una relazione con un uomo verso la quale Diciotto non aveva nessuna simpatia. E, suppose, una vita quotidiana piuttosto impegnativa. Nonostante tutto ciò era lì, ad ascoltare i problemi di una sconosciuta ritagliando del tempo dalla propria giornata. Scoprì di ammirarla quel tanto che bastava, conducendola a prendere una decisione.

“Crilin, potresti lasciarci da sole?” disse parlando per la prima volta, ritirando la mano da quella del marito. Lui la guardò con sorpresa, “Cosa? Ma…” farfugliò indeciso. Lo guardò, “Per favore” chiese con gentilezza, osservando l’incredulità degli occhi dell’uomo, che infine annuì. “Se è ciò che vuoi” le rispose, bacandola timidamente su una guancia prima di alzarsi dalla sedia.

Pochi istanti più tardi udì la grande porta metallica aprirsi e chiudersi alle proprie spalle, e la stanza le sembrò tanto grande da poterla schiacciare con il suo peso. Avrebbe quasi voluto cambiare idea, chiedere a Crilin di tornare, ma il suo istinto le disse che un discorso tra donne era la scelta migliore, riponendo la sua fiducia in una sorta di cameratismo al femminile. Bulma sembrò pensarla allo stesso modo.

Diciotto guardò la punta delle proprie scarpe, cercando le parole appropriate. “Potrebbe essere colpa mia” ammise, il resto non c’era bisogno di specificarlo, “Credo che abbia a che fare con i miei… circuiti” spiegò, poi sollevò lo sguardo per guardarsi negli occhi per la prima volta. Bulma si poggiò una mano al mento “Mmmh” farfugliò sovrappensiero, osservando ora il soffitto.

All’improvviso scattò in piedi, si mosse verso alcuni cassetti e cominciò a frugare all’interno di essi con notevole foga. Diciotto stava quasi per chiederle spiegazioni, ma Bulma tornò alla scrivania poggiandovi alcuni fogli che aveva recuperato dal mobile. Con cura appiattì i grossi pezzi di carta.

Con somma sorpresa Diciotto notò il numero 17 scritto in un angolo del foglio. E con ancor più sgomento riconobbe l’odiata calligrafia del Dott. Gelo. “Ma questi sono… come fai ad averli tu?” domandò senza riuscire a trattenersi. “Crilin li ha recuperati dal laboratorio del Dott. Gelo prima di distruggerlo” le spiegò restando però più concentrata sui progetti che lo scienziato aveva usato per creare Diciassette.

Bulma sollevò un foglio, ne lesse un secondo, poi diede un’occhiata al terzo sottostante, tornò ad osservare il primo. Poi riprese in mano il terzo ed infine si soffermò sul secondo. Cosa stesse facendo a Diciotto sembrò un mistero. “Il Dott. Gelo era davvero un genio” farfugliò infine più a sé stessa, ma su questo la cyborg si trovò in disaccordo.

Senza notare la smorfia contrariata che aveva istigato sul viso della sua interlocutrice, Bulma si mosse verso un computer disposto su una scrivania alle proprie spalle, cominciando a digitare senza freno alla ricerca di qualcosa. Fu difficile per l’altra donna riuscire a starle dietro per capire le sue intenzioni. All’improvviso non fu più così difficile immaginarla mentre creava il telecomando in grado di fermare i suoi circuiti e che in seguito aveva messo tra le mani di Crilin.

“Diciotto, quando è stata l’ultima volta che ti sei ammalata?” le chiese senza preamboli. “Cosa? Io non…” mormorò la bionda un po' indecisa, alzandosi dalla propria sedia e raggiungendo l’altra accanto alla macchina che stava utilizzando.

Ora che ci pensava, quando era stata l’ultima volta che si era ammalata? Infine si scoprì a chiedersi se mai lo fosse stata. “Come immaginavo” rispose per lei Bulma, trovando una qualche conferma nel silenzio e continuando a digitare.

“Dunque” annunciò all’improvviso, voltandosi a guardarla per la prima volta da quando aveva cominciato a lasciarsi trasportare dai propri pensieri, “Ho una buona e una cattiva notizia”. Diciotto attese incrociando le braccia, terrorizzata ed elettrizzata al tempo stesso, per quanto la sua espressione non subì alcun mutamento. “Ovvero?” la esortò. “La buona notizia è che avendo base umana sei assolutamente in grado di avere figli” Bulma le sorrise, avendo notato la luce della speranza trasparire negli occhi gelidi dell’altra donna, ma pochi istanti più tardi tornò seria, “La cattiva notizia è che i circuiti nel tuo cervello te lo impediscono”.

Sospirò afflitta, “Lo sapevo” mormorò Diciotto, sentendo tutto il suo mondo crollarle addosso. Tutto quello che aveva sperato negli ultimi anni, dal Cell Game, erano appena andati in frantumi. In quel momento sentì il bisogno di parlare con qualcuno che avrebbe capito i suoi sentimenti più di chiunque altro. Avrebbe dato qualsiasi cosa per sapere in che angolo del mondo era finito Diciassette. La nostalgia per il gemello, nonché l’unica persona in grado di immedesimarsi nella sua situazione, servì soltanto a farla sentire peggio.

“È finita quindi” ammise più a sé stessa, perdendo qualsiasi voglia di combattere. “No” la rassicurò Bulma, “Ogni donna ha il diritto di diventare madre, se lo desidera. Non vedo perché per te debba essere diverso”. Diciotto la osservò.

“C’è ancora una possibilità, ma dovrai lasciarmi un po' tempo” continuò a parlare la scienziata. “Di cosa parli?” si sentì domandare Diciotto, alimentando un barlume di speranza che per un attimo aveva visto svanire. “Beh, il punto è questo. I circuiti del Dott. Gelo fanno in modo di eliminare ogni organismo esterno che cerca di compromettere il tuo corpo” si poggiò una mano al mento “Se io riuscissi a riprogrammare parte del tuo database affinché non comprometta il concepimento dovrebbe essere possibile per te restare incinta” si soffermò a pensarci. Diciotto la guardò come se le stesse dicendo che aveva appena vinto un miliardo di zeni alla lotteria, “Dici davvero?” chiese apprensiva.

Bulma si prese ancora alcuni istanti prima di replicare. “Il problema” riprese alcuni secondi più tardi, “È che per farlo dovrei accedere direttamente ai tuoi circuiti e modificarli, ma… vorrebbe dire aprirti la testa e questo non posso farlo perché non sono un chirurgo”. Diciotto trattenne il fiato senza sapere se lasciarsi andare alla disperazione o aggrapparsi alla speranza.

Ancora una volta, tuttavia, odiò la propria condizione. Non era umana e non era una macchina, era qualcosa a metà strada. Come umana non avrebbe avuto nemmeno il problema, ma come robot completo sarebbe stato più facile aprirle la scatola cranica e spingere due bottoni.

“Devo provare ad inventare qualcosa che mi permetta di riconfigurare le impostazioni dei chip senza la necessità di un’operazione” Bulma lo disse quasi come se stesse pensando di variare la ricetta che usava per i biscotti. “Pensi di poterci riuscire?” le chiese Diciotto, distogliendo l’altra dal proprio mondo, dando l’impressione che solo in quel momento si fosse ricordata di non trovarsi sola nella stanza. “Con chi credi di parlare?! Certo che posso!” disse con malcelata strafottenza.

 

***

 

“Per l’amor del cielo, Trunks, mangia le tue carote!” insistette sua madre, accompagnata da uno sbuffo esasperato. “Nnno!” s’imputò il bambino, spingendo lontano il piatto che aveva davanti, nella speranza che una volta fatto sparire dalla vista avrebbe risolto il problema. “Trunks” sospirò Bulma, cercando di riportare il cibo sotto il naso del figlioletto, che per risposta scosse il capo dai folti capelli lilla. Le labbra ben serrate per paura che qualcuna delle maledette verdurine potesse saltargli in bocca. “Dannazione, mi sembra di parlare con tuo padre” brontolò la donna ancora una volta, massaggiandosi la tempia con una mano, in segno di evidente frustrazione.

“Ehm… disturbiamo?” s’introdusse la voce di Crilin, comparso in compagnia della moglie sulla soglia della cucina. Madre e figlio voltarono lo sguardo sui nuovi venuti, “Ah! È già così tardi?” esclamò lei, osservando l’orologio stretto sul proprio polso e trovando conferma nella propria affermazione. “Se… se è un problema possiamo ripassare domani” si affrettò a dire l’uomo, sentendosi a disagio, ma Bulma scosse il capo “Non preoccupatevi, devo solo convincere questo monello a finire la sua cena” disse, osservando ora il figlio con aria severa. Il piccolo Trunks riprese la sua silenziosa protesta, tappandosi la bocca con entrambe le mani, per sicurezza.

Crilin diede una vaga occhiata alla moglie, poi si avvicinò al tavolo, trovando posto sul fianco del bambino. “Allora, Trunks, non ti piacciono le carote?” chiese con tono gentile, ottenendo la sua attenzione, “No” disse lui, tornando ad allontanare il piatto, continuando a fissare il nuovo venuto con circospezione. “Perché? A me piacciono” ribatté l’uomo, allungando una mano ed afferrando una delle carote per poi portarsela alle labbra. Trunks fece una smorfia, come se non riuscisse a capire perché qualcuno potesse mangiarle di spontanea volontà, “Neanche papà le mangia” spiegò.

Con la coda dell’occhio, Crilin catturò l’immagine dell’amica che roteò le pupille verso l’alto, in un teatrale gesto esasperato. Era evidente che in casa, Trunks non era l’unico ad avere un particolare dissenso per quelle verdure. Il discorso doveva essere venuto fuori spesso.

Sorrise al bambino, “Davvero? Però, tu vuoi diventare forte come lui un giorno, non è vero?” riprese a parlare rubando un’altra verdurina dal piatto. Trunks annuì, “Sì, diventerò forte come il mio papà” e su questo, nessuno in quella stanza si sentì di dissentire, in fondo ne avevano visto tutti la prova concreta. “Beh, ma se mangi le tue carote diventerai anche più forte di lui” continuò Crilin, e Bulma lo fissò con attenzione. “E come?” chiese il bambino con vivo interesse, l’uomo rise “È semplice, le carote ti fanno bene e se il tuo papà non le mangia non può diventare più forte. Però se tu le mangi crescerai fortissimo e lo raggiungerai presto”.

Nella stanza scese il silenzio. Trunks voltò lo sguardo verso il suo piatto per la prima volta. Bulma trattenne il fiato. Poi, in un gesto un po' timido il vispo bambino allungò una mano verso una delle carote nel suo piatto. La studiò da vicino, osservandone la forma e il colore. Infine la infilò tra le fauci, masticando prima con circospezione, in seguito con energia la sua verdura. Ne prese un’altra e la mangiò.

Grazie disse Bulma, senza emettere alcun suono e per risposta Crilin le regalò un occhiolino complice.

Diciotto osservò la scena in assoluto silenzio. Ancora una volta ebbe la prova che il marito aveva la stoffa per diventare un buon padre e ancora una volta sentì una stretta al cuore.

Bulma li aveva chiamati alcune settimane prima, avvisandoli che aveva pronto un progetto e che voleva testarlo. Diciotto e Crilin si erano recati alla Capsule il giorno successivo, ma dopo alcuni tentativi e un paio d’ore di imprecazioni, la scienziata non si era dichiarata soddisfatta, rimandando ad altra data. La seconda telefonata era seguita nel giro di pochi giorni, ma anche in questo caso l’incontro aveva avuto esito negativo e la copia era tornata a casa demoralizzata.

Quello era il loro terzo incontro. Bulma li aveva contattati il giorno precedente e, come aveva fatto nelle altre due occasioni, si era rivolta solo a Diciotto tenendo fede a quella complicità tra donne che avevano stabilito durante il primo discorso.

“Mamma, sto mangiando le carote” le stava dicendo Trunks, mostrandole una tagliuzzata, prima di infilare anche quella tra le labbra assieme a quelle che l’avevano preceduta. “Lo vedo” rispose lei, evidentemente più sollevata. Il bambino ci ripensò, “Mamma, se papà lo scopre si arrabbia?” chiese poi, nella sua infinita innocenza. Bulma rise, gli arruffò i capelli lilla e gli regalò un bacio sulla guancia, “Certo che no tesoro, sarà il nostro piccolo segreto” promise, e Trunks sembrò soddisfatto.

In seguito Bulma sollevò lo sguardo, osservando la donna rimasta ancora ferma davanti alla porta, “Vogliamo andare?” le chiese, ricordando a tutti il motivo per la quale erano lì. Diciotto annuì, ma solo dopo aver osservato un attimo il marito, ricevendo in cambio un sorriso rassicurante.

Ben presto le due donne si allontanarono insieme, lasciando il piccolo Trunks a mangiare le sue verdure in compagnia dello zio Crilin.

 

***

 

Diciotto non era una persona di molte parole. Non era il tipo da iniziare una conversazione che non aveva nessuna intenzione di continuare. Preferiva il silenzio, ascoltando i propri pensieri. Pertanto non trovò nulla in contrario nella mancanza di comunicazione che seguiva nelle sezioni di test. Restava lì, seduta su quella strana poltroncina, un casco ricoperto dai più svariati tipi di cavi poggiato sui fini capelli biondi, la testa all’interno di un peculiare macchinario che ricordava vagamente quelli che in ospedale usavano per le tac.

Di tanto in tanto sbirciava da sotto il pesante marchingegno, osservando l’altra donna. Fu sorpresa nel constatare la mancanza di dialogo. Da quel poco che aveva visto di lei al di fuori del laboratorio, l’aveva etichettata come una chiacchierona. E anche dai racconti di Crilin sembrava trapelare la stessa natura. Qui tuttavia, nella familiarità del suo ambiente lavorativo non pareva avere molto da dire.

Bulma fissava lo schermo di un computer senza mai, o quasi, distogliere lo sguardo. Le dita premevano veloci sui tasti di una tastiera o sul mouse che era adagiato lì accanto. Una sigaretta le pendeva indolente dalle labbra, della quale sembrava ricordarsi solo di tanto in tanto. Ne aspirava il fumo, lasciava cadere la cenere in un apposito contenitore sulla quale era ben visibile il logo dalla doppia C e riportava la stecca di tabacco ai lati della bocca come se nulla fosse accaduto.

Al lato destro del mouse un taccuino veniva spesso usato per prendere appunti. Dalla sua posizione, Diciotto non riusciva a vedere cosa scrivesse, si limitò ad ipotizzare che si trattasse di calcoli vari, aiutando la scienziata a far funzionare l’invenzione sulla quale lavorava.

“Mmm” disse all’improvviso, sorprendendo la sua silenziosa osservatrice. Per la prima volta da quando l’aveva fatta accomodare sulla sedia, Bulma sembrò tornare con i piedi per terra, distogliendo lo sguardo dal desktop. “Beh, ci sono ottime notizie” annunciò, dando un’ultima boccata al fumo della sigaretta, prima di spegnerla nel posacenere. Si alzò.

“Che tipo di notizie?” le chiese Diciotto, cercando di mascherare l’angoscia nel tono della sua voce. Bulma la raggiunse ed uscì dalla sua visuale per alcuni istanti. L’inconfondibile suono di alcuni tasti che venivano premuti in rapida successione, ed infine la macchina si aprì, lasciando libera Diciotto di muoversi. Non se lo fece ripetere, la donna si alzò appena le fu possibile. Se c’era qualcosa che non sopportava erano simili marchingegni che la tenevano in qualche modo prigioniera, le rammentavano troppo del buio laboratorio del Dott. Gelo. Un altro tipo di prigione.

L’altra riapparve. “Dunque, la mia macchina funziona, sono in grado di sovrascrivere i comandi contenuti nei tuoi circuiti” non c’era un sorriso sulle sue labbra, “Ma…?” si vide costretta a chiedere la bionda con silenziosa apprensione. “Non è definitivo. Purtroppo non avendo alternative e non essendo il modo migliore, questo resta un metodo temporaneo” spiegò la scienziata, osservando la sua ultima creatura e poggiandovi sopra una mano. Il gesto mise Diciotto a disagio, ricordando nuovamente un altro scienziato. In un gesto istintivo fece un passo di lato, per allontanarsi. Si pentì di averlo fatto, ma non rettificò la sua azione. Tuttavia si appuntò di non rifarlo, grata che l’altra non lo avesse notato.

“Il fatto è...” stava infatti continuando Bulma “che se i comandi impostati dal Dott. Gelo dovessero riattivarsi durante la gravidanza potrebbero fare quello per la quale erano originalmente programmati” si voltò a guardala, ma non aggiunse altro, avevano capito entrambe. Le sorrise, “Ma non devi preoccuparti, se ti ricorderai di venire qui diciamo… ogni tre settimane posso posticipare la loro riattivazione fino al parto” un brivido percorse la schiena di Diciotto. Era davvero possibile? Sarebbe davvero andato tutto come previsto?

Bulma assunse un’espressione più seria, togliendo la mano dal freddo metallo della macchina che stava costruendo. “C’è un’altra cosa che devi tenere presente” le disse, distogliendola dalle sue speranze, Diciotto ascoltò in rigoroso silenzio. “Il tuo sistema immunitario è…” ci pensò, poggiandosi una mano al mento alla ricerca della parola giusta, “indebolito. Non avendo mai dovuto combattere agenti esterni per conto proprio ha perso la forza di farlo. Quindi…” “Ogni cosa potrebbe uccidermi” finì per lei Diciotto. “Non la metterei in questi termini, ma sì, potrebbe farti del male. Un semplice raffreddore potrebbe indebolirti parecchio e potrebbe fare del male al tuo bambino. Dovrai stare molto attenta” terminò Bulma e cadde il silenzio.

Diciotto scostò per un attimo lo sguardo sul pavimento, sovrappensiero. “Stai tranquilla, andrà tutto bene. Se seguirai le mie istruzioni e quelle del tuo medico non ci sarà nessun problema” le poggiò una mano sulla spalla per conforto, ma benché consapevole delle buone intenzioni del gesto, Diciotto si vide costretta a sopprime il desiderio di scostarsi.

Udì la propria voce chiedere “Quando saresti in grado di farlo?” chiese con malcelata timidezza, alzando gli occhi per osservare il viso dell’altra donna. Bulma le sorrise. Non c’era commiserazione, solo comprensione. Non era la scienziata che la stava guardando, né l’amica del marito. Era una madre, una donna che aveva già fatto l’esperienza che lei stessa tanto fremeva per avere e che sembrava augurarle in silenzio di riuscirci. “Quando ti senti pronta. Anche subito se lo desideri” le disse, guardando l’orologio da polso, poi riportò gli occhi azzurro cielo sulla interlocutrice.

“Perché non ti prendi un attimo per rifletterci? Magari parlane con Crilin” suggerì avvicinandosi ed aprendo la porta del laboratorio, trovandosi al cospetto dell’immagine che si era aspettata di vedere.

Crilin le aveva aspettate appena fuori dalla stanza, come nelle precedenti occasioni. Trunks seduto sulla sedia lì accanto, raggomitolato su sé stesso. “È ora che metta a letto questo giovanotto” annunciò la madre del bambino, parlando a tutti e nessuno in particolare, dando una leggera scrollata al piccolo saiyan. “Andiamo, forza” gli disse sollevandolo con evidente fatica. “Io non ho sonno” biascicò Trunks in una tonalità di voce che tradiva tutt’altro. Si stropicciò un occhio semichiuso, poggiando la testa pesante sulla spalla della mamma. “Saluta tutti” gli disse lei, allontanandosi tra i corridoi della grande casa in direzione delle camere da letto. Ubbidiente, Trunks fece un cenno di saluto con una mano, l’ultima cosa che videro prima che madre e figlio sparissero nei meandri della grande casa.

“Avete fatto presto! Cosa ti ha detto? Cos’è successo?!” le chiese Crilin, tutto d’un fiato una volta rimasti soli. Diciotto si sistemò un’immaginaria ciocca di capelli dietro un orecchio, si diede un attimo per pensarci, ed infine cominciò a raccontare.

 

***

 

Quando entrò in cucina si ritrovò ad osservare una scena talmente familiare da farle venire una sensazione di déjavu. Sembrava quasi che tutto fosse rimasto congelato alla sera precedente; se non fosse stata certa del contrario, avrebbe creduto che in quella sola stanza il tempo non avesse mai fatto il proprio corso.

C’era lo stesso uomo, seduto attorno al tavolo. Lo stesso piatto, sebbene ricolmo dei una pietanza diversa rispetto alla cena. Ed infine la stessa bambina capricciosa che lottava contro ogni boccone. Eppure, in qualche modo, lui pareva essere l’unico ad averla vinta quando si trattava di nutrirla.

“Andiamo, Marron, un ultimo boccone” le stava dicendo l’uomo, la voce esausta. Marron spostò il cucchiaio che, con estrema pazienza, il padre le stava portando alla bocca. Scosse il capo. “Sta facendo i capricci anche oggi?” domandò Diciotto, attirando su di sé due paia di occhi neri praticamente identici. Crilin sospirò, “Sì, ma abbiamo quasi finito” le rispose, poi tornò a guardare la figlia “Vero?” chiese come se potesse capirlo.

La moglie osservò lo stato della bambina, ricoperta da quello che doveva essere il suo pranzo. Dal bavaglio ai gomiti, dai capelli biondi agli abiti. E Crilin non sembrava in condizioni migliori. La lotta doveva essere stata molto feroce quel giorno, Diciotto si trovò a domandarsi se la bambina avesse almeno mangiato qualcosa o se lo avesse riversato per la maggior parte sugli abiti del padre.

Marron osservò con i suoi grandi occhioni neri la madre per alcuni istanti, come se stesse cercando di ricordare qualcosa. L’additò, “Mama” disse, un sorriso gioviale sul suo giovane viso.

La stanza congelò. Crilin dimenticò il pasto, lasciando cadere il cucchiaio sul seggiolone. Si alzò, guardando la figlia incredulo, “Cosa?” sussurrò. Anche Diciotto restò paralizzata sul posto, schiudendo le labbra con altrettanta sorpresa, “Ha parlato!” esclamò a sua volta. “Mama” ripeté la piccola, come se volesse far capire ai suoi genitori un concetto elementare.

Crilin guardò sua moglie, poi la figlia. Le sorrise, sollevandola tra le braccia e la strinse forte a sé, incurante dello stato dei propri abiti e quelli della bambina. “Sai dire anche papà?” le domandò speranzoso. Marron lo guardò, gli poggiò una mano non pulitissima sulla fronte e tornò ad additare la madre “Mama” gli spiegò con ovvietà. “Urgh… perché non dici anche papà?” la implorò il genitore.

Diciotto osservò ancora incredula la scena. Era la prima parola di sua figlia, la prima volta che un altro essere umano la chiamava mamma. Per un istante sentì il cuore batterle forte, illudendola per un secondo che stesse per uscirle dal petto. E quella sensazione le ricordò con la più assurda certezza che, dopotutto, anche lei era un essere umano.

Che stupida era stata a dimenticarsene.

 

FINE


 
  
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