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Autore: Caris    10/09/2016    2 recensioni
“Certi amori non finiscono: fanno dei giri immensi e poi ritornano; amori indivisibili, indissolubili, inseparabili”
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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“The Mask and the Mirror”

 

“Certi amori non finiscono:  fanno dei giri immensi e poi ritornano; amori indivisibili, indissolubili, inseparabili” 1

 

La porta si chiude alle nostre spalle.

Un’anonima camera di hotel, l’arredamento classico ma stantio, color panna e rosso, dai motivi arabeggianti e ridondanti.

Mi appoggio con le spalle alla porta bianca, solida, per mia fortuna: mi sento mancare la terra sotto ai piedi, calzati in un paio di vertiginose decolletè di vernice nera.

Alzo lo sguardo, quasi titubante, dal pavimento in parquet chiaro che, in quel preciso momento, sembra essere l’unica certezza che ho.

Ma no, non è vero, non lo è: tu sei la mia certezza, a mezzo metro da me, completo di fresco di lana blu notte e camicia bianchissima; fino a mezz’ora fa avevi anche una cravatta, nera, ma, adesso, non so dove sia finita.

E nemmeno mi interessa.

Sorrido, senza sapere se lo sto facendo in direzione tua o della porta finestra alle tue spalle, la luce della luna, tenue, a filtrare dalle tende di lino bianco ed ad illuminare la piccola stanza.

Per un attimo mi sento in trappola, sì, completamente, proprio come un topolino di campagna catturato dal gattone di casa.

Poi, però, succede: tu sorridi, con quel tuo fare da cucciolo bastonato, e tutto cambia.

So con certezza, adesso, di star sorridendo a te, in risposta, spontanea, a quel tuo sorriso.

Quello stesso sorriso che non mi stancherò mai di vedere, caldo, aperto, solare.

Mi avvicino di un passo, appena inferma sui tacchi altissimi.

So che, eventualmente, ci saresti tu a prendermi, però, al volo: lo hai sempre fatto.

Tra selciati cittadini sconnessi ed antiche chiese, scolpite in legno e pietra, viva e vera.

Ho le braccia dietro alla schiena, come se mi sentissi in colpa di qualcosa.

Eppure sapevo bene che non c’era proprio NULLA di cui dovessi sentirmi colpevole: in quella stanza, la mia, c’eravamo finiti volontariamente, dopo mesi e mesi di manovre di avvicinamento, di entrambi, a volte goffe, a volte evidenti, a volte semplicemente nostre.

Avevamo preso la nostra decisione, infine, dopo una cena affollata ed una festa caotica.

Avevamo lasciato andare gli amici che erano con noi, uno ad uno, chi a dormire in hotel, chi a folleggiare in qualche locale notturno.

Avevo sentito il peso della consapevolezza schiacciarmi appena, sia quando me ne stavo raggomitolata sul lindo sedile nero della tua macchina, sia quando, vicini ma sempre troppo lontani, salivamo in camera, su per le scale di marmo grigio dell’anonimo hotel.

La porta che si chiudeva era stato il segno evidente che, sì, avevamo preso una decisione, senza ripensamenti.

Io, almeno, non ne avrei avuti.

Erano mesi che cercavo un’occasione come quella che avevamo, finalmente, avuto, quella sera.

Da soli, noi due, su una terrazza panoramica, neoclassica, marmo bianco e siepi di bosso potate con precisione millimetrica.

Da soli, noi due, il vento fresco della sera ad arruffarci i capelli e, forse, un po’ anche il cuore.

Tu che mi porgi la giacca per non farmi prendere freddo e, finalmente, dopo mesi, ti decidi a sorridermi ed a baciarmi.

Non era stato difficile quanto infinitesimalmente diverso fosse, quel sorriso.

Lo aspettavo da tanto, troppo tempo, quel sorriso.

Il preludio a tutto quel che verrà.

Era stato un sabato sera diverso, decisamente, dal solito.

Lontani da casa, da vecchie abitudini dure a morire e catene troppo strette da spezzare.

E tu, in blu, come tuo solito, non hai perso un attimo, sin dal pomeriggio, per osservarmi.

Ed io per osservare te, dopotutto.

“Well, it's Saturday night, you're all dressed up in blue: I’ve been watching you awhile, maybe you’ve been watching me too…”.2

Ed ora siamo finiti in questa camera di hotel, senza, quasi, premeditarlo, come se fosse nella logica naturale delle cose.

Ci avviciniamo l’uno all’altra, piano, senza fretta, un passo alla volta, squadrandoci come due animali nello stesso recinto.

Non mi accorgo nemmeno quando, infine, butti alle ortiche tutte le tue paranoie, le tue idee, le tue tare e mi abbracci, attirandomi a te con una foga tale che non credevo nemmeno possibile, da uno come te.

Mi stringi, forte, fortissimo, come se avessi paura che possa lanciarmi dal balcone, pur di scappare, da un momento all’altro.

No, stupidone, no, non vado da nessuna parte.

Nel venirti incontro mi sbilancio in avanti e rischio di cadere, ma, come sospettavo, ci sei tu a frenare la mia caduta, lasciandoci cadere, entrambi, però, sul grande materasso matrimoniale, le lenzuola bianche e le coperte color avorio.

Nella caduta,  probabilmente, ti tiro anche una zuccata, ma a nessuno dei due sembra importare più di tanto: ci ritroviamo a ridere, come sempre, in fondo, mezzi abbracciati sul letto.

Ci sediamo l’uno di fronte all’altro ai piedi del letto, in un attimo di stasi, infinito e bellissimo, mentre ti vedo sorridere e, con calma, sfilarti l’orologio, il cinturino di pelle nera e, con altrettanta calma, le scarpe nere, lucide.

Mi guardi con fare incoraggiante, come ad esortarmi a fare lo stesso, mentre mi sento, di colpo, inadeguata ed imperfetta, come mio solito, tentata, ancora, di nascondermi sotto al letto, pur di non mostrare tutti quei mille difetti che odio.

Pur di mostrare la me stessa che pochi, forse nessuno, hanno mai avuto.

Mi sfilo le decolletè e, con calma, stola, orecchini, collana, orologio, anelli, braccialetti: i mille ed uno orpelli di cui ogni donna ha bisogno per sentirsi meglio, più bella, più desiderabile.

Eppure dal modo in cui mi sorridi mi sembra di vederti più… felice ad ogni piccolo frammento di maschera che cade.

Ti alzi di scatto e ti sfili la giacca, appoggiandola sullo schienale di legno della sedia di fronte al letto.

Cominci, poi, a sbottonarti la camicia, mettendo in mostra il petto candido – uno dei miei sogni proibiti, da mesi, ormai –.

Mi sorridi ancora, un sorriso scorciato, carico di dolcezza ed aspettativa.

Ti volti di nuovo e ti pieghi sulle ginocchia, le gambe chilometriche, per arrivare alla mia altezza, seduta sul letto.

Quando ti sporgi e mi prendi il viso tra le mani, calde ed eleganti, non capisco più niente.

“Voglio vedere cosa c’è sotto alla maschera”, chiosi, sorridendo appena, divertito quasi.

Non afferro subito cosa intendi: ti sporgi ancora, allora, e, dispettoso, col pollice, mi sbavi appena il rossetto color sangue che, ormai, se n’è andato tutto per conto proprio.

Tocca a me, allora, sorridere, e, alzandomi, senza una parola, mi avvio verso il piccolo bagno, marmo rosato e grandi specchi.

Mi lavo la faccia, del tutto, eliminando ogni residuo di trucco: l’ennesimo pezzetto della mia maschera che cade, di fronte a te che, con fare indagatore, curioso, oserei dire, appoggiato allo stipite della porta, mi osservi mentre cancello ogni sicurezza, ogni certezza dal mio viso, esponendo difetti ed imperfezioni, di fronte alla luce potente, bianca, di quel bagno sconosciuto, e di fronte ai tuoi occhi bellissimi.

Mi asciugo il viso con il candido asciugamano di spugna alla mia sinistra, mentre tu sorridi ancora, sornione, come se ti aspettassi ogni singola mia mossa.

Potrei affermare con una certa sicurezza, però, che non è così: se c’è una cosa che non sono mai stata è prevedibile.

Mi volto a guardarti, quasi aspettandomi una ritirata da parte tua, ora che stai osservando la VERA me stessa, quella delle ore piccole sui libri, dei litri di caffè e delle corse dietro ai treni.

Tu, però, mi sorprendi, come fai ininterrottamente da mesi, e, avvicinandoti appena, mi prendi di nuovo il viso tra le mani e mi baci la fronte.

“Molto meglio”, chiosi ancora, facendomi quasi venire un mancamento.

Vedere quello che c’è sotto alla maschera, una verità di poco svelata, è un privilegio che raramente concedo.

Ma, dopotutto, a te posso concederlo eccome.

Torniamo, mano nella mano, verso il letto, i piedi nudi sul pavimento freddo e, forse, anche i cuori – freddi no, quello mai, ma nudi sì, eccome, pronti a trovarsi, infine –.

Ci sediamo di nuovo, tu con la camicia sbottonata ed un gran sorriso, ed io, ancora avvolta nella seta color nocciola del vestito.

Ti sfili la camicia, appena titubante, come se temessi qualcosa – un dubbio, un ripensamento, un ricordo, un rimpianto – , e la mandi a far compagnia alla giacca, lì ferma su quello schienale, immobile, muta spettatrice di noi.

“Tocca a te”, mormori, un’affermazione sfumata di domande, come se temessi di essere l’unico dei due a star giocando davvero, a carte scoperte.

Mi alzo, allora, titubante come non mai, e, dandoti le spalle – anche se so benissimo che non è il mio lato migliore, quello posteriore (ammesso e non concesso che riesca a trovare, in me, un lato buono) –, mi sfilo il vestito, lasciandolo cadere a terra, seta morbida a contatto col duro legno, fruscio di vesti e di sogni su cui, finalmente,  si alza il sipario.

Resto ferma, immobile, come aspettandomi di sentirti scoppiare a ridere, o forse di vederti riprendere i vestiti e scappare in fretta e furia.

Tu non parli, invece, non ti muovi, non ti alzi: allunghi soltanto una mano, caldissima, e prendi la mia, poco lontana, sperando, così, di farmi avvicinare.

Mi volto, infine, e ti vengo vicina, senza nemmeno tentare di coprire quel poco che ancora posso – o, forse, dovrei dire, di salvare il salvabile? – : sarebbe stupido, da parte mia: ho deciso di arrendermi a te –  da mesi, ormai, l’ho deciso – e sono decisa ad andare in fondo alla questione, qualsiasi sia il risultato.

Tu sorridi ancora, in modo diverso, però: è un sorriso dolce, il tuo – come carezze di seta e piume – , rassicurante ed infinito.

Mi fai sedere di nuovo accanto a te, la biancheria che comincia a soffocarmi, quasi, come se essa stessa sentisse il bisogno di sparire.

Ti avvicini piano, lentamente, come se temessi che io possa allontanarmi, e, sporgendoti appena, mi baci piano, dolcissimo, con tatto e tenerezza.

Sappiamo bene tutti e due che è da quel preciso momento che ci siamo arresi, entrambi.

Quando ti ho stretto nel braccia al collo, nel cercarti e nel volerti vicino, nel sentirti davvero, come mai ho voluto qualcuno prima di oggi.

Quando mi hai afferrata piano per i fianchi, cercando calore e vicinanza, per attirarmi più vicina.

Quando, dopo minuti lunghissimi, ti sei alzato e, con un gesto rapidissimo, ti sei calato i pantaloni, lasciandoli a terra, lì, da soli: siamo pari, adesso, caro mio.

E quando siamo tornati a stenderci sul letto, tu solo con i boxer neri ed io solo con l’insulso completino color carne.

Quando ci siamo cercati per la prima volta, nell’unico modo che, forse, ci mancava: dopo sguardi, sorrisi, carezze, parole, quel contatto era probabilmente l’unico che dovevamo ancora spuntare dalla lista.

E l’unico che, forse, ci avrebbe fatto realizzare davvero.

Nel togliermi il resto della biancheria ti tremano le mani, nella tua infinita dolcezza, e tocchi, esplori, accarezzi piano, come se temessi di mandare in pezzi qualcosa.

Non è quello che c’è quassù in superficie che devi temere di rompere e spezzare: è tutto quello che c’è SOTTO, sì, a questo ennesimo strato della mia maschera.

Anche gli ultimi strati di biancheria cadono, tra dita impacciate e sospiri mal celati.

Ed anche ultime difese cadono, insieme ad essi.

So che i ricordi di questa notte mi affolleranno la mente per mesi, in momenti e situazioni poco consoni, come dei flash– a lezione, su scomode seggioline di legno, malconce e piene di scritte; a cena con gli amici, tovaglie a quadri rossi e litri di birra; a casa, nel mio letto, lenzuola azzurre e profumo di erbe di montagna –.

Le mie dita affondate nella massa scomposta dei tuoi riccioli bruni.

I tuoi occhi, la tua bocca, le tue mani.

La tua pelle, di candore e nei, sopra, sotto e dentro di me.

Le nostre risate, i nostri sospiri ed i nostri profumi tra anonime lenzuola.

Una galassia intera di dettagli che, sempre e comunque, mi toglierà il sonno.

 

Quando tutto è finito, alla fine dei giochi, restiamo lì, fermi, immobili, stesi l’uno accanto all’altra, supini, come persi in contemplazione dell’orrenda carta da parati.

Ci guardiamo e sorridiamo, mentre tu, realizzando quasi di colpo, rotoli sul fianco destro e ti sporgi a baciarmi la fronte.

“Tutto bene?”, ti informi, la voce quasi tremante, di dolcezza ed emozione.

Annuisco io, senza fiatare, come se fossi di colpo, quella sera, diventata muta.

Rotolo sul fianco a mia volta e, spudoratamente, ti cerco, affondando il viso nel tuo petto e nella tua tenerezza.

Dopo qualche minuto ancora, come punta da qualcosa, mi alzo di scatto, nuda, e corro verso la borsetta di vernice nera, alla disperata ricerca di una sigaretta.

Cerco anche, nel casino immane della mia valigia, bianca, aperta sul pavimento, il ridicolo pigiama bianco e verde che avevo portato per quella notte, rimasto, quindi, per ora, inutilizzato.

“Prendi questa”, sorridi tu, sedendoti in fondo al letto e porgendomi la camicia bianca che indossavi fino a poco fa.

Mentre, arrossendo, probabilmente, la infilo, mi avvio fuori, verso il balcone, coperto da travi di legno scuro, al riparo.

Ti passo accanto e tu, senza vergogna, allunghi una mano e mi accarezzi la coscia destra, sul retro, dove, ormai, sai essere più tenera.

Ed io quasi scappo fuori, borbottando finti improperi e ridendomela sotto ai baffi.

Il mare è vicino, lo sento, dal balcone: il rumore di risacca, lento e cadenzato, le onde gentili a sfiorare il porticciolo di fronte, il profumo di salsedine e di benzina.

Vedo i fari delle rare macchine ancora a giro a quell’ora di mattina, i lampioni al sodio, con la loro luce aranciata, ed i semafori lampeggianti in lontananza.

La città dorme, ormai, al sicuro, celata dal manto oscuro della notte.

E noi, invece, non dormiamo, tu, seduto sul letto, che occhieggi fuori, nella mia direzione, la luce sola della piccola abatjour color cipria ad illuminarti viso e corpo, candido e perfetto, ed io, seduta fuori sul balcone, al piccolo tavolino di ferro battuto.

La notte sta per finire, e, con essa, il sogno.

Tra poco torneranno anche le mie compagne di stanza, dopo una nottata passata a far follie, a ballare, a bere,  a vivere.

E, per una volta, potrò dire di averla vissuta anche io, DAVVERO, quella notte.

A metà sigaretta nemmeno, esili fili di fumo biancastro che salgono dal posacenere di cristallo al centro del tavolino, esci anche tu, i piedi nudi sul cotto del balcone, solo i pantaloni blu del completo indosso.

Mi fai alzare, gentilmente, prendendomi per mano, le unghie laccate di un bel rosso carminio, e ti siedi al mio posto, facendomi, poi, l’attimo seguente, riaccomodare, seduta in grembo a te.

Per una volta non ho nemmeno la voglia ed il tempo di farmi le mie solite mille paranoie sul peso, o le mie battute sul “come la vuoi la protesi per il femore che sto per spaccarti?”.

Per una volta ho solo voglia di godermi quella dolce intimità, tutta nostra, mentre continuo a fumare, piano, quasi in trance, mentre tu mi accarezzi la spalla destra attraverso il tessuto morbido della tua camicia.

Tu non parli, sorridi  e basta, con una minuscola nota di biasimo sul volto, ispido di barba morbidissima: so che non ti piace che fumi.

E per te sarei disposta persino a smettere, sappilo.

 

Quando te ne vai, dopo ere eterne di coccole, confidenze, sorrisi, piccoli dispetti, resto sola.

Mi hai appena salutata sulla porta, il corridoio in penombra, la moquette rossa.

“A domattina”, hai detto, prima di baciarmi piano e girare sui tacchi, quasi marziale.

Via, lontano da me, per poche ore, ma lontano.

E quando chiudo la porta già mi manchi, il tuo profumo che continua ad aleggiare per la camera.

Mi metto il pigiama, infine, e mi infilo di nuovo sotto alle coperte, nel posto dove stavi tu fino a pochi minuti fa, ora vuoto.

Sotto al morbido cuscino trovo qualcosa, lo sento con le dita, mentre lo abbraccio, facendo finta di star abbracciando di nuovo te.

Sfilo una lunga striscia di seta nera da sotto al cuscino, e capisco, l’attimo dopo, di aver trovato la tua cravatta.

E che tu l’hai lasciata lì di proposito.

Sorrido appena al lampadario di vetro, spento, e mi addormento, stringendola forte.

Quando tornano, a notte fonda, le mie amiche, io dormo tranquilla, sì,  e sorrido, mentre stringo al petto una cravatta che loro, però, non riescono a capire di chi sia.

O forse lo sanno, sì, fin troppo bene.

Certe cose, dopotutto, non si nascondono facilmente.

 

 

N.d.A: scusate i continui deliri, scusate, scusate davvero!

Il titolo della storia è lo stesso di un album di Loreena McKennitt (1994).

1 “Amici Mai”, A. Venditti, “Benvenuti in Paradiso” (1991).

2 “Tougher Than the Rest”, B. Springsteen, “Tunnel of Love” (1987).

  
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