“Certi amori non finiscono: fanno dei giri immensi e poi ritornano;
amori indivisibili, indissolubili, inseparabili” 1
La
porta si chiude alle nostre spalle.
Un’anonima
camera di hotel, l’arredamento classico ma stantio, color panna e rosso, dai
motivi arabeggianti e ridondanti.
Mi
appoggio con le spalle alla porta bianca, solida, per mia fortuna: mi sento
mancare la terra sotto ai piedi, calzati in un paio di vertiginose decolletè di
vernice nera.
Alzo
lo sguardo, quasi titubante, dal pavimento in parquet chiaro che, in quel
preciso momento, sembra essere l’unica certezza che ho.
Ma
no, non è vero, non lo è: tu sei la mia certezza, a mezzo metro da me, completo di fresco di lana blu
notte e camicia bianchissima; fino a mezz’ora fa avevi anche una cravatta,
nera, ma, adesso, non so dove sia finita.
E
nemmeno mi interessa.
Sorrido,
senza sapere se lo sto facendo in direzione tua o della porta finestra alle tue
spalle, la luce della luna, tenue, a filtrare dalle tende di lino bianco ed ad
illuminare la piccola stanza.
Per
un attimo mi sento in trappola, sì, completamente, proprio come un topolino di
campagna catturato dal gattone di casa.
Poi,
però, succede: tu sorridi, con quel tuo fare da cucciolo bastonato, e tutto
cambia.
So
con certezza, adesso, di star sorridendo a te, in risposta, spontanea, a quel
tuo sorriso.
Quello
stesso sorriso che non mi stancherò mai di vedere, caldo, aperto, solare.
Mi
avvicino di un passo, appena inferma sui tacchi altissimi.
So
che, eventualmente, ci saresti tu a prendermi, però, al volo: lo hai sempre
fatto.
Tra
selciati cittadini sconnessi ed antiche chiese, scolpite in legno e pietra,
viva e vera.
Ho
le braccia dietro alla schiena, come se mi sentissi in colpa di qualcosa.
Eppure
sapevo bene che non c’era proprio NULLA di cui dovessi sentirmi colpevole: in
quella stanza, la mia, c’eravamo finiti volontariamente, dopo mesi e mesi di
manovre di avvicinamento, di entrambi, a volte goffe, a volte evidenti, a volte
semplicemente nostre.
Avevamo
preso la nostra decisione, infine, dopo una cena affollata ed una festa
caotica.
Avevamo
lasciato andare gli amici che erano con noi, uno ad uno, chi a dormire in
hotel, chi a folleggiare in qualche locale notturno.
Avevo
sentito il peso della consapevolezza schiacciarmi appena, sia quando me ne
stavo raggomitolata sul lindo sedile nero della tua macchina, sia quando,
vicini ma sempre troppo lontani, salivamo in camera, su per le scale di marmo
grigio dell’anonimo hotel.
La
porta che si chiudeva era stato il segno evidente che, sì, avevamo preso una
decisione, senza ripensamenti.
Io,
almeno, non ne avrei avuti.
Erano
mesi che cercavo un’occasione come quella che avevamo, finalmente, avuto,
quella sera.
Da
soli, noi due, su una terrazza panoramica, neoclassica, marmo bianco e siepi di
bosso potate con precisione millimetrica.
Da
soli, noi due, il vento fresco della sera ad arruffarci i capelli e, forse, un
po’ anche il cuore.
Tu
che mi porgi la giacca per non farmi prendere freddo e, finalmente, dopo mesi,
ti decidi a sorridermi ed a baciarmi.
Non
era stato difficile quanto infinitesimalmente diverso fosse, quel sorriso.
Lo
aspettavo da tanto, troppo tempo, quel sorriso.
Il
preludio a tutto quel che verrà.
Era
stato un sabato sera diverso, decisamente, dal solito.
Lontani
da casa, da vecchie abitudini dure a morire e catene troppo strette da
spezzare.
E
tu, in blu, come tuo solito, non hai perso un attimo, sin dal pomeriggio, per
osservarmi.
Ed
io per osservare te, dopotutto.
“Well,
it's Saturday night, you're all dressed up in blue: I’ve been watching you
awhile, maybe you’ve been watching me too…”.2
Ed
ora siamo finiti in questa camera di hotel, senza, quasi, premeditarlo, come se
fosse nella logica naturale delle cose.
Ci
avviciniamo l’uno all’altra, piano, senza fretta, un passo alla volta,
squadrandoci come due animali nello stesso recinto.
Non
mi accorgo nemmeno quando, infine, butti alle ortiche tutte le tue paranoie, le
tue idee, le tue tare e mi abbracci, attirandomi a te con una foga tale che non
credevo nemmeno possibile, da uno come te.
Mi
stringi, forte, fortissimo, come se avessi paura che possa lanciarmi dal
balcone, pur di scappare, da un momento all’altro.
No,
stupidone, no, non vado da nessuna parte.
Nel
venirti incontro mi sbilancio in avanti e rischio di cadere, ma, come
sospettavo, ci sei tu a frenare la mia caduta, lasciandoci cadere, entrambi,
però, sul grande materasso matrimoniale, le lenzuola bianche e le coperte color
avorio.
Nella
caduta, probabilmente, ti tiro
anche una zuccata, ma a nessuno dei due sembra importare più di tanto: ci
ritroviamo a ridere, come sempre, in fondo, mezzi abbracciati sul letto.
Ci
sediamo l’uno di fronte all’altro ai piedi del letto, in un attimo di stasi,
infinito e bellissimo, mentre ti vedo sorridere e, con calma, sfilarti
l’orologio, il cinturino di pelle nera e, con altrettanta calma, le scarpe
nere, lucide.
Mi
guardi con fare incoraggiante, come ad esortarmi a fare lo stesso, mentre mi
sento, di colpo, inadeguata ed imperfetta, come mio solito, tentata, ancora, di
nascondermi sotto al letto, pur di non mostrare tutti quei mille difetti che
odio.
Pur
di mostrare la me stessa che pochi, forse nessuno, hanno mai avuto.
Mi
sfilo le decolletè e, con calma, stola, orecchini, collana, orologio, anelli,
braccialetti: i mille ed uno orpelli di cui ogni donna ha bisogno per
sentirsi meglio, più bella, più desiderabile.
Eppure
dal modo in cui mi sorridi mi sembra di vederti più… felice ad ogni piccolo frammento di maschera che cade.
Ti
alzi di scatto e ti sfili la giacca, appoggiandola sullo schienale di legno
della sedia di fronte al letto.
Cominci,
poi, a sbottonarti la camicia, mettendo in mostra il petto candido – uno
dei miei sogni proibiti, da mesi, ormai
–.
Mi
sorridi ancora, un sorriso scorciato, carico di dolcezza ed aspettativa.
Ti
volti di nuovo e ti pieghi sulle ginocchia, le gambe chilometriche, per
arrivare alla mia altezza, seduta sul letto.
Quando
ti sporgi e mi prendi il viso tra le mani, calde ed eleganti, non capisco più
niente.
“Voglio
vedere cosa c’è sotto alla maschera”, chiosi, sorridendo appena, divertito
quasi.
Non
afferro subito cosa intendi: ti sporgi ancora, allora, e, dispettoso, col
pollice, mi sbavi appena il rossetto color sangue che, ormai, se n’è andato
tutto per conto proprio.
Tocca
a me, allora, sorridere, e, alzandomi, senza una parola, mi avvio verso il
piccolo bagno, marmo rosato e grandi specchi.
Mi
lavo la faccia, del tutto, eliminando ogni residuo di trucco: l’ennesimo
pezzetto della mia maschera che cade, di fronte a te che, con fare indagatore,
curioso, oserei dire, appoggiato allo stipite della porta, mi osservi mentre
cancello ogni sicurezza, ogni certezza dal mio viso, esponendo difetti ed
imperfezioni, di fronte alla luce potente, bianca, di quel bagno sconosciuto, e
di fronte ai tuoi occhi bellissimi.
Mi
asciugo il viso con il candido asciugamano di spugna alla mia sinistra, mentre
tu sorridi ancora, sornione, come se ti aspettassi ogni singola mia mossa.
Potrei
affermare con una certa sicurezza, però, che non è così: se c’è una cosa che
non sono mai stata è prevedibile.
Mi
volto a guardarti, quasi aspettandomi una ritirata da parte tua, ora che stai
osservando la VERA me stessa, quella delle ore piccole sui libri, dei litri di
caffè e delle corse dietro ai treni.
Tu,
però, mi sorprendi, come fai ininterrottamente da mesi, e, avvicinandoti
appena, mi prendi di nuovo il viso tra le mani e mi baci la fronte.
“Molto
meglio”, chiosi ancora, facendomi quasi venire un mancamento.
Vedere
quello che c’è sotto alla maschera, una verità di poco svelata, è un privilegio
che raramente concedo.
Ma,
dopotutto, a te posso concederlo eccome.
Torniamo,
mano nella mano, verso il letto, i piedi nudi sul pavimento freddo e, forse,
anche i cuori – freddi no, quello mai, ma nudi sì, eccome, pronti a
trovarsi, infine –.
Ci
sediamo di nuovo, tu con la camicia sbottonata ed un gran sorriso, ed io,
ancora avvolta nella seta color nocciola del vestito.
Ti
sfili la camicia, appena titubante, come se temessi qualcosa – un
dubbio, un ripensamento, un ricordo, un rimpianto – , e la mandi a far compagnia alla giacca, lì
ferma su quello schienale, immobile, muta spettatrice di noi.
“Tocca
a te”, mormori, un’affermazione sfumata di domande, come se temessi di essere
l’unico dei due a star giocando davvero, a carte scoperte.
Mi
alzo, allora, titubante come non mai, e, dandoti le spalle – anche se
so benissimo che non è il mio lato migliore, quello posteriore (ammesso e non
concesso che riesca a trovare, in me, un lato buono) –, mi sfilo il vestito, lasciandolo cadere a
terra, seta morbida a contatto col duro legno, fruscio di vesti e di sogni su
cui, finalmente, si alza il
sipario.
Resto
ferma, immobile, come aspettandomi di sentirti scoppiare a ridere, o forse di
vederti riprendere i vestiti e scappare in fretta e furia.
Tu
non parli, invece, non ti muovi, non ti alzi: allunghi soltanto una mano,
caldissima, e prendi la mia, poco lontana, sperando, così, di farmi avvicinare.
Mi
volto, infine, e ti vengo vicina, senza nemmeno tentare di coprire quel poco
che ancora posso – o, forse, dovrei dire, di salvare il salvabile? – : sarebbe stupido, da parte mia: ho deciso di
arrendermi a te – da
mesi, ormai, l’ho deciso – e
sono decisa ad andare in fondo alla questione, qualsiasi sia il risultato.
Tu
sorridi ancora, in modo diverso, però: è un sorriso dolce, il tuo – come
carezze di seta e piume – ,
rassicurante ed infinito.
Mi
fai sedere di nuovo accanto a te, la biancheria che comincia a soffocarmi,
quasi, come se essa stessa sentisse il bisogno di sparire.
Ti
avvicini piano, lentamente, come se temessi che io possa allontanarmi, e,
sporgendoti appena, mi baci piano, dolcissimo, con tatto e tenerezza.
Sappiamo
bene tutti e due che è da quel preciso momento che ci siamo arresi, entrambi.
Quando
ti ho stretto nel braccia al collo, nel cercarti e nel volerti vicino, nel
sentirti davvero, come mai ho voluto qualcuno prima di oggi.
Quando
mi hai afferrata piano per i fianchi, cercando calore e vicinanza, per
attirarmi più vicina.
Quando,
dopo minuti lunghissimi, ti sei alzato e, con un gesto rapidissimo, ti sei
calato i pantaloni, lasciandoli a terra, lì, da soli: siamo pari, adesso,
caro mio.
E
quando siamo tornati a stenderci sul letto, tu solo con i boxer neri ed io solo
con l’insulso completino color carne.
Quando
ci siamo cercati per la prima volta, nell’unico modo che, forse, ci mancava:
dopo sguardi, sorrisi, carezze, parole, quel contatto era probabilmente l’unico
che dovevamo ancora spuntare dalla lista.
E
l’unico che, forse, ci avrebbe fatto realizzare davvero.
Nel
togliermi il resto della biancheria ti tremano le mani, nella tua infinita
dolcezza, e tocchi, esplori, accarezzi piano, come se temessi di mandare in
pezzi qualcosa.
Non
è quello che c’è quassù in superficie che devi temere di rompere e spezzare: è
tutto quello che c’è SOTTO, sì, a questo ennesimo strato della mia maschera.
Anche
gli ultimi strati di biancheria cadono, tra dita impacciate e sospiri mal
celati.
Ed
anche ultime difese cadono,
insieme ad essi.
So
che i ricordi di questa notte mi affolleranno la mente per mesi, in momenti e
situazioni poco consoni, come dei flash– a lezione, su scomode
seggioline di legno, malconce e piene di scritte; a cena con gli amici,
tovaglie a quadri rossi e litri di birra; a casa, nel mio letto, lenzuola
azzurre e profumo di erbe di montagna
–.
Le
mie dita affondate nella massa scomposta dei tuoi riccioli bruni.
I
tuoi occhi, la tua bocca, le tue mani.
La
tua pelle, di candore e nei, sopra, sotto e dentro di me.
Le
nostre risate, i nostri sospiri ed i nostri profumi tra anonime lenzuola.
Una
galassia intera di dettagli che, sempre e comunque, mi toglierà il sonno.
Quando
tutto è finito, alla fine dei giochi, restiamo lì, fermi, immobili, stesi l’uno
accanto all’altra, supini, come persi in contemplazione dell’orrenda carta da
parati.
Ci
guardiamo e sorridiamo, mentre tu, realizzando quasi di colpo, rotoli sul
fianco destro e ti sporgi a baciarmi la fronte.
“Tutto
bene?”, ti informi, la voce quasi tremante, di dolcezza ed emozione.
Annuisco
io, senza fiatare, come se fossi di colpo, quella sera, diventata muta.
Rotolo
sul fianco a mia volta e, spudoratamente, ti cerco, affondando il viso nel tuo
petto e nella tua tenerezza.
Dopo
qualche minuto ancora, come punta da qualcosa, mi alzo di scatto, nuda, e corro
verso la borsetta di vernice nera, alla disperata ricerca di una sigaretta.
Cerco
anche, nel casino immane della mia valigia, bianca, aperta sul pavimento, il
ridicolo pigiama bianco e verde che avevo portato per quella notte, rimasto,
quindi, per ora, inutilizzato.
“Prendi
questa”, sorridi tu, sedendoti in fondo al letto e porgendomi la camicia bianca
che indossavi fino a poco fa.
Mentre,
arrossendo, probabilmente, la infilo, mi avvio fuori, verso il balcone, coperto
da travi di legno scuro, al riparo.
Ti
passo accanto e tu, senza vergogna, allunghi una mano e mi accarezzi la coscia
destra, sul retro, dove, ormai, sai essere più tenera.
Ed
io quasi scappo fuori, borbottando finti improperi e ridendomela sotto ai
baffi.
Il
mare è vicino, lo sento, dal balcone: il rumore di risacca, lento e cadenzato,
le onde gentili a sfiorare il porticciolo di fronte, il profumo di salsedine e
di benzina.
Vedo
i fari delle rare macchine ancora a giro a quell’ora di mattina, i lampioni al
sodio, con la loro luce aranciata, ed i semafori lampeggianti in lontananza.
La
città dorme, ormai, al sicuro, celata dal manto oscuro della notte.
E
noi, invece, non dormiamo, tu, seduto sul letto, che occhieggi fuori, nella mia
direzione, la luce sola della piccola abatjour color cipria ad illuminarti viso
e corpo, candido e perfetto, ed io, seduta fuori sul balcone, al piccolo
tavolino di ferro battuto.
La
notte sta per finire, e, con essa, il sogno.
Tra
poco torneranno anche le mie compagne di stanza, dopo una nottata passata a far
follie, a ballare, a bere, a
vivere.
E,
per una volta, potrò dire di averla vissuta anche io, DAVVERO, quella notte.
A
metà sigaretta nemmeno, esili fili di fumo biancastro che salgono dal
posacenere di cristallo al centro del tavolino, esci anche tu, i piedi nudi sul
cotto del balcone, solo i pantaloni blu del completo indosso.
Mi
fai alzare, gentilmente, prendendomi per mano, le unghie laccate di un bel
rosso carminio, e ti siedi al mio posto, facendomi, poi, l’attimo seguente,
riaccomodare, seduta in grembo a te.
Per
una volta non ho nemmeno la voglia ed il tempo di farmi le mie solite mille
paranoie sul peso, o le mie battute sul “come la vuoi la protesi per il femore
che sto per spaccarti?”.
Per
una volta ho solo voglia di godermi quella dolce intimità, tutta nostra, mentre
continuo a fumare, piano, quasi in trance, mentre tu mi accarezzi la spalla
destra attraverso il tessuto morbido della tua camicia.
Tu
non parli, sorridi e basta, con
una minuscola nota di biasimo sul volto, ispido di barba morbidissima: so che
non ti piace che fumi.
E
per te sarei disposta persino a smettere, sappilo.
Quando
te ne vai, dopo ere eterne di coccole, confidenze, sorrisi, piccoli dispetti,
resto sola.
Mi
hai appena salutata sulla porta, il corridoio in penombra, la moquette rossa.
“A
domattina”, hai detto, prima di baciarmi piano e girare sui tacchi, quasi
marziale.
Via,
lontano da me, per poche ore, ma lontano.
E
quando chiudo la porta già mi manchi, il tuo profumo che continua ad aleggiare
per la camera.
Mi
metto il pigiama, infine, e mi infilo di nuovo sotto alle coperte, nel posto
dove stavi tu fino a pochi minuti fa, ora vuoto.
Sotto
al morbido cuscino trovo qualcosa, lo sento con le dita, mentre lo abbraccio,
facendo finta di star abbracciando di nuovo te.
Sfilo
una lunga striscia di seta nera da sotto al cuscino, e capisco, l’attimo dopo,
di aver trovato la tua cravatta.
E
che tu l’hai lasciata lì di proposito.
Sorrido
appena al lampadario di vetro, spento, e mi addormento, stringendola forte.
Quando
tornano, a notte fonda, le mie amiche, io dormo tranquilla, sì, e sorrido, mentre stringo al petto una
cravatta che loro, però, non riescono a capire di chi sia.
O
forse lo sanno, sì, fin troppo bene.
Certe
cose, dopotutto, non si nascondono facilmente.
N.d.A:
scusate i continui deliri, scusate, scusate davvero!
Il
titolo della storia è lo stesso di un album di Loreena McKennitt (1994).
1
“Amici Mai”, A. Venditti, “Benvenuti in Paradiso” (1991).
2
“Tougher Than the Rest”, B. Springsteen, “Tunnel of Love” (1987).