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Autore: La_Dama_Del_Lago    11/09/2016    3 recensioni
What if...? [Annabeth/Luke, Calypso/Leo, Jason/Nico, Piper/Reyna, Percy/OC]
E se Luke non fosse morto con Crono? E se fosse riuscito a riappropriarsi del proprio corpo e della propria anima in tempo da sopravvivere?
E se Annabeth fosse sempre stata innamorata di lui e non di Percy?
E se Percy avesse incontrato un’altra ragazza, oltre Rachel, nella strada per il Labirinto di Dedalo?
E se Percy e Jason non fossero stati i semidei che hanno perso la memoria e cambiato Campo?
Sulle note di Immortal di Marina and the Diamonds, questa storia si snoderà tra le due saghe sino ad arrivare alle Sfide di Apollo.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: I sette della Profezia, Luke Castellan, Nico di Angelo, Nuovo personaggio, Reyna
Note: Lime, Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Immortal
 
 
I wanna live forever 
Forever in your heart 
And we'll always be together from the end to the start

[Marina and the Diamonds. Immortal]

 
Capitolo I
 
 
Chi lotta con i mostri deve guardarsi di non diventare, così facendo, un mostro. E se tu scruterai a lungo in un abisso, anche l'abisso scruterà dentro di te.
Friedrich Nietzsche


 
 
Son tenaci i peccati e vili pentimenti, scriveva Baudelaire, che di mostri se ne intendeva a meraviglia. Che fosse anche lui un semidio? I figli di Apollo sono tanti. Sebbene, per la sua anima affine, lo riterrei un fratello di mente se non di sangue.
Posso già immaginare la tua espressione mentre leggi queste righe sconclusionate e frettolose. Solleverai le sopracciglia mettendo in risalto quel verde-mare che mi ha fatta capitolare come una piccola stupida.
Ti domanderai perché parlo di mostri, ora che la minaccia è stata spazzata via come sabbia che scivola dalle dita.
Vorrei avere più tempo per spiegarti, per giustificarmi, forse. E poi perché giustificarmi? Di cosa dovrei pentirmi? Di essere fragile? Di essere debole?
Siamo fatti di polvere e ombra[1] e la mia debolezza non è che una forza mancante.
I mostri sono più forti e i demoni perdono soltanto nelle storie. Nella realtà i buoni soffrono, i cattivi prosperano e tutto ciò che è mortale passa[2].
Perdonami se puoi. Odiami se lo ritieni giusto. Nessuno potrebbe disprezzarti per il tuo rancore. Quello tra amore e odio è un confine sottile, il ciglio di un burrone con dietro i lupi.
Qual è la prospettiva migliore? I lupi possiamo combatterli solo se sono in pochi e né io né te sappiamo volare. E di rimanere sul ciglio, in bilico, non se ne parla.
Io salto.
Questa è l’unica scelta che mi sono concessa di compiere.
Si dice che qualsiasi cosa fatta per amore è aldilà del bene e del male[3]. Spero sia così perché perlomeno avrei la speranza di incontrarti ancora.
In un altro tempo, in un’altra vita… chissà, forse avremmo anche potuto comprare quella villa al mare che era nei tuoi sogni.
Ora dovrai cercarla con qualcun’altra.
 
Tua sino a quando mi concedo,
D.
 
Il fruscio della penna sulla carta era stato l’unico suono udibile per parecchi minuti nella Cabina di Dolus, mescolato al respiro affannato della giovane.
Non avrebbe mai potuto credere che vergare quelle brevi righe avrebbe richiesto tutta la sua dose di concentrazione, tutto l’autocontrollo necessario a rendersi asettica, impersonale, impenetrabile come una rocca d’altri tempi.
Le dita fremevano ancora, come se bramassero stringere la penna e scrivere altro. Avevano tanto raccontare, le traditrici del buonsenso: non erano affatto soddisfatte di quelle parole vuote, prive di quell’infinito affetto che l’aveva legata irrimediabilmente al ragazzo, intrise di tutti gli enigmi, i misteri e gli intrighi che tanto le erano stati cari nella sua vita precedente a lui, che era così cristallino e puro da farle tremare le ginocchia.
Che si accontentassero, biascicò la voce sibilante nella sua mente.
Deianira sobbalzò e si portò il foglio al petto ansante, nell’assurda, patetica e infantile convinzione che quel gesto potesse celare il canto del suo cuore al suo progenitore divino.
Era ancora la bambina che amava i racconti del passato, quelli sussurrati dalla voce di suo nonno, arrochita dal fumo e flebile come un alito di brezza estiva.
« Fuori,» rantolò senza fiato, un groppo alla gola che rassomigliava a un nodo scorsoio, mentre stringeva il foglio sino ad accartocciarlo. 
Tremava impotente mentre i singhiozzi le squassavano il petto ancora acerbo, la ragazza che aveva ingannato la sorte.
La risata di suo padre risuonò come il soffio di un serpente a sonagli, pronto a strisciare verso la preda e a soffocarla tra le sue spire.
Si morse il labbro carnoso sino a percepire il ramato sentore del sangue bagnarle la punta della lingua. Era un dolore piacevole se paragonato alla scisma furioso che la sua mente attraversava da giorni immemori.
Il male fisico l’aveva sempre aiutata a scacciare quello psicologico, a rischiarare le ombre di un’esistenza di tenebre e intrighi, a fugare la nebbia densa come catrame che soffocava la sua libertà.  
Poi Percy l’aveva trovata e la sofferenza era stata anestetizzata dal suo sorriso sincero, da quella buffa ironia che le faceva scuotere il capo, trattenendo a stento una risata, dagli occhi di giada che brillavano come fari nella notte più buia.
Un bieco ronzio ininterrotto sostituì il sibilo suadente di Dolus e la sua mente ritornò ad essere un caos calmo. Suo padre detestava i sentimentalismi e le romanticherie.   
Gli occhi blu come le profondità del mare, torbidi come tornadi di fumo, si schiusero di scatto mentre un sorriso amaro le bagnava le labbra rosse e tumefatte.
V’era stato un tempo in cui Deianira stessa avrebbe aborrito i suoi pensieri, i suoi sentimenti, le pulsioni della carne.
Le dita affusolate di lui, callose per l’esercizio, tamburellavano allegre sulla pelle fremente della sua schiena nuda. Una carezza che arrivava sino all’anima.
Scosse il capo, allontanando quei pensieri orami proibiti mentre un caldo rossore le colorava le gote incavate; si issò in piedi, facendo frusciare le lenzuola leggere del baldacchino. Era l’unica stravaganza di quella cabina asettica, dalle pareti candide e sin troppo opprimenti. Un tempio minuscolo dedicato a un dio minore. E neanche uno tra i più simpatici. Signore degli inganni e degli intrighi, Dolus si ergeva per la sua astuzia enigmatica e per i suoi fantasiosi artifici.
Deianira schioccò la lingua sul palato e afferrò al volo la sacca contenente i pochi averi che le erano rimasti. Con un pizzico di fortuna, tentò di convincersi, non avrebbe rimesso piede mai più in quel luogo detestabile.
Si passò i palmi umidi sulla stoffa ruvida degli shorts e poi si portò la treccia ramata dietro le spalle esili, fasciate dalla maglietta arancione del Campo.
Non era pronta a separarsene, non ancora.
Le sneakers bianche scricchiolarono appena sul parquet mentre avanzava a passo sicuro verso l’uscita. Aveva un compito da svolgere. 
Eos stava tinteggiando di rosa e d’azzurro il cielo sopra Long Island, dipingendo quello splendido quadro che Deianira non si sarebbe mai stancata di guardare, tanto l’aveva agognato per anni e anni.
Il Campo Mezzosangue era silenzioso come quasi mai accadeva. Abitato com’era da semidei iperattivi, satiri che rincorrevano ninfe, driadi che guerreggiavano con le naiadi per quale fosse il luogo più ameno da proteggere, il Campo non poteva mai apprezzare gli attimi di quiete dell’alba.
Deianira trovava quel silenzio innaturale e artefatto, un ricordo che premeva sugli argini della sua mente spezzata.
Si affrettò a raggiungere il suo obiettivo stringendo con forza le stringhe della sacca e lasciando vagare gli occhi scuri verso i boschi di conifere e mostri che circondavano la baia.
Alcune driadi si stavano risvegliando, agitando le fronde delle loro querce, e un paio di satiri si stavano già affaccendando nel raggiungere i campi di fragole del signor D., sgambettando sulle loro zampe caprine come se l’avessero alle loro spalle.
Doveva sbrigarsi.
La Cabina di Poseidone era maestosa, degna dell’importanza del dio all’interno di quella cerchia di pochi eletti che ancora resistevano all’incuria del tempo. La pietra grigia e porosa ricordava i coralli  antichi come il mondo e tra le sue pieghe era possibile intravedere la posidonia. Se confrontata con la propria, che era scarna e spartana quanto una tenda di accampamento in mattoni, Dolus appariva misero come un mendicante pur essendo più antico degli Olimpi.
Mise piede al suo interno non senza un certo timore reverenziale, guardandosi intorno come se temesse che Poseidone le gettasse contro un maremoto. Era proibito entrare nella Cabina di un altro dio che non fosse il proprio genitore divino e Chirone era stato molto chiaro con le regole di buona permanenza al Campo.
Dopo essersi accertata che Poseidone non le avrebbe provocato una morte per annegamento nell’immediato futuro, si arrischiò ad avanzare verso l’unico letto occupato. Tyson era ancora nelle fucine dei Ciclopi.
Nell’aria si percepiva l’odore salmastro delle alghe e le pareti d’ostrica riflettevano come un caleidoscopio le tonalità del mare, le sue tinte azzurrine che viravano verso il verde nel mostrare il suo spettacolare ventaglio.
Era uno spettacolo meraviglioso, ma Deianira lo notò a malapena, persa com’era nella contemplazione del suo ragazzo.
Percy ronfava come un bimbo, le labbra rosee e carnose schiuse mentre un rivolo di saliva macchiava il cuscino. Era sdraiato prono, le lenzuola scalciate ai piedi del letto in un ciclone di seta candida, la schiena nuda e abbronzata che si gonfiava appena ad ogni respiro e le braccia muscolose a sorreggere il capo. Indossava soltanto un paio di boxer blu con sopra disegnati dei pesci palla, le fossette di Apollo in bella mostra.
Deianira non riuscì a trattenere un sorriso esasperato e dolce al tempo stesso mentre si chinava a scostargli un ciuffo corvino e ribelle dalla fronte umida.
Non poté  trattenere quel moto di affetto sebbene sapesse che era sbagliato e crudele. Stava per lasciarlo come la codarda che era sempre stata. Percy avrebbe meritato di meglio. Avrebbe meritato una ragazza che avrebbe combattuto per il loro amore con le unghie e con i denti, sgomitando tra le disgrazie e le difficoltà per ottenere quello che di buono c’era ancora nel mondo.
Deianira era troppo disillusa e nichilista per poter essere quella ragazza, ormai.
Posò la lettera stropicciata sul comodino e scattò verso l’uscita, il cuore che batteva come un tamburo da guerra tra la gola e lo stomaco e l’assurda voglia di piangere come una bambina.
Le lacrime non servivano a nulla. Era stata sua madre ad insegnarglielo, l’ultimo monito di una vita finita troppo spesso. Non ricordava quasi più la donna che l’aveva messa al mondo, ma le rade parole del suo cuore erano eterne.
Il mattino le parve più freddo e ostile quando si ritrovò nella piana delle Cabine, ma era soltanto una sua impressione. Il cuore di piombo le si era ghiacciato nel petto.
Si passò le dita febbrili sugli zigomi alti in un gesto quasi rabbioso, asciugandosi le timide gocce di rugiada che il suo autocontrollo non aveva potuto bloccare.
Sembrava avesse corso una maratona per come tremava e dovette abbandonarsi sull’ultimo scalino perché le forze le vennero meno.
Attacco di panico. Incredibile, imprecò tra sé la ragazzina.
Imponendosi di pensare ad altro che non fosse la sua infamante viltà, Deianira puntò gli occhi arrossati verso il cielo sgombro di nubi, di un azzurro perfetto che Percy tanto avrebbe apprezzato. Apollo doveva aver acceso la Maserati del Sole perché i timidi raggi di Settembre stavano già riscaldando l’aere.
Quando il momento passò, la ragazza si issò in piedi e cominciò ad avanzare decisa verso il confine. Le pupille rimpicciolite e abbacinate non le permisero di mettere subito a fuoco, ma gli altri sensi notarono qualcosa di strano. Non aveva armi con sé e si maledisse per quella mancanza. Di solito i mostri non l’attaccavano: suo padre era una divinità minore, il suo odore non era neanche lontanamente appetibile per loro. E poi era al Campo Mezzosangue, protetto dal Vello d’Oro che Percy, Annabeth, Grover e Clarisse avevano recuperato qualche anno prima.
L’intruso si rivelò essere una donna poco distante da lei, erta come una statua sul secondo scalino della Cabina di Era, la mastodontica casa onoraria in cui nessun semidio avrebbe mai vissuto.
Era impossibile stabilire che età avesse tanto i suoi tratti erano perfetti e candidi, austeri e materni al tempo stesso. Aveva il volto cesellato di una scultura neoclassica, qualcosa che neanche il Canova con tutta la sua attenzione per il reale avrebbe mai saputo riprodurre.
Il corpo tonico e fiero era fasciato da un chitone che rifletteva la luce, abbagliante con le sue sfumature caleidoscopiche che ricordavano le piume dei pavoni. Una lunga treccia scura le arrivava sino alla vita a clessidra. Da quella distanza non poteva scorgere il colore delle sue iridi, ma soltanto una persona – o, per meglio dire, una dea,- avrebbe potuto occupare quella posizione con tanta nonchalance.
« Divina Era,» esclamò Deianira in un sospiro appena udibile.
Sebbene non fosse stata sull’Olimpo che una volta sola nella vita e in quell’unica occasione si fosse concentrata su altro, la ragazza era certa di non essere in errore.
La donna sorrise misteriosa e le fece cenno col capo di entrare. Non si rifiutava un ordine divino, soprattutto se proveniente da un membro dei Dodici. Deianira si scostò un ciuffo ribelle dalla fronte e si lasciò guidare all’interno della Cabina.
Non v’erano letti, soltanto un colonnato di marmo candido venato di smeraldo, un altare d’oro e una statua della dea. E un tavolino di mogano su cui erano appoggiati tre vassoi di panini e altre leccornie. Nonostante l’ansia le arroventasse lo stomaco, Deianira non poté trattenere un’occhiata cupida verso le pietanze. Adorava mangiare.
« Sono lieta che mi abbia riconosciuta, cara,» asserì la dea deliziata facendole cenno di accomodarsi e strappandola da quel sogno ad occhi aperti che era il cibo invitante, « Siedi pure e scegli quello che desideri,» la invitò con un elegante cenno della mancina. La dea odorava di pioggia e vento e ad ogni suo movimento sembrava portare frescura nella sala soffocante e impolverata.
Era si accomodò sul canapè imbottito, dando le spalle alla se stessa di marmo, e Deianira fece altrettanto di fronte a lei, abbandonando la sacca arancione contro la gamba del tavolino.
Si portò un panino al burro d’arachidi alle labbra e lo assaggiò con gusto. Si potevano affermare molte maldicenze sul cattivo carattere della Regina degli Dei, ma non che non sapesse cucinare. Quel panino era un esplosione di sapori non indifferente.
« La ringrazio per la cortesia, divina Era, ma io dovrei…»
« Scappare? » la interruppe la dea in una risata derisoria che la fece avvampare d’imbarazzo, « Non essere sciocca, tesoro. Sappiamo entrambe che non è ciò che il tuo cuore brama,» continuò con più dolcezza, come una madre che ammoniva la figlioletta discola. Quel tono  sarebbe stato impertinente se usato da un’altra donna, ma Era era la madre per eccellenza e quell’atteggiamento le calzava a meraviglia.
Discutere dei propri sentimenti con la Regina del Cielo non rientrava tra le sue attività preferite, affatto. Parlare di se stessa e basta era già abbastanza difficile con Annabeth, che era diventata per lei cara quanto una sorella.
« Cosa posso fare per voi?» domandò con quanta più cortesia riuscì a racimolare nel suo animo scontroso, tentando di allontanare l’immagine degli occhi verdi e feriti di Percy dalla mente.
Le iridi color delle nocciole di Era brillarono di divertimento mentre un sorriso carico di sottintesi le bagnava le labbra rosee e carnose.
« Adoro i semidei gentili e bendisposti. Sono così rari.»
Gentile e bendisposta non erano due aggettivi che in molti avrebbero accostato a lei e Deianira ne era assolutamente consapevole. Tuttavia non ribatté. Le era rimasto un pizzico di amor proprio e buonsenso.
« La profezia che Apollo ha concesso al vostro Oracolo è stato un azzardo per il quale pagherà amaramente col tempo, ma potremmo sfruttarla per i nostri scopi,» le spiegò la dea come se stesse disquisendo di quisquiglie, gesticolando con tale grazia da farle pensare che fossero cenni studiati.
Deianira si morse l’interno della gota, rimuginando tra sé, le sopracciglia aggrottate e la destra che ancora stringeva il sandwich. Il terzo, per l’esattezza.
La profezia di Rachel non prometteva affatto bene. Ricordava lo sguardo greve di Percy, così poco adatto alla sua allegria innata da creare un effetto straniante su Deianira, mentre la riferiva a lei, ad Annabeth e a Luke.
 
Nove semidei alla chiamata risponderanno.
Fuoco o tempesta il mondo cader faranno.
Con l'ultimo fiato un giuramento si dovrà mantenere,
e alle Porte della Morte, i nemici armati si dovran temere.
 
« Di solito i miei scopi non coincidono con quelli di qualcun altro, signora,» brontolò la giovane, bisbetica senza desiderarlo. Quel tono era naturale quanto respirare per lei.
« Intrighi ed enigmi. Sì, ho scelto bene,» soggiunse la dea meditabonda, rivolgendole un sorriso d’intesa come per metterla al corrente di un segreto condiviso. Deianira si limitò a prendere un altro panino e a sollevare le sopracciglia folte, color del mogano, « Mia cara, non ho molto tempo purtroppo. Mio marito scalpita e il tuo φιλέραστος[4]  non riposerà per sempre. È alquanto ostinato,» ridacchiò Era come se fosse immersa in memorie antiche quanto il mondo.
Al mare non piace essere contenuto, si ritrovò a pensare la semidea, rammentando le parole che Poseidone aveva rivolto a suo figlio tanto tempo prima da apparire come una vita precedente.
« Una parte di te vorrebbe che ti odiasse, l’altra brama che ti cerchi. Posso accontentare entrambe. Sana le ferite che i secoli hanno inferto. Ti aiuterà a guarire te stessa.»
« Quali ferite?» domandò con non molta prontezza la giovane. Le palpebre pesanti premevano per chiudersi e lasciò cadere il sesto panino sul vassoio quasi vuoto.
Sandwich avvelenati? Davvero?
Fu tutto ciò che riuscì a pensare la sua mente annebbiata mentre le spalle si incurvavano e la mani cercavano il contatto con il legno per rimanere sveglia.
« Guardare e non vedere ti sarà fatale, bambina mia,» mormorò la dea come se stesse intonando una ninnananna, gli occhi scuri e lucenti come l’ossidiana, tutto ciò che riuscì a scorgere prima le palpebre si serrassero del tutto, « Tenta di tenerlo a mente.»
 


[1]Odi, Orazio.
[2] Magnus Bane, Le Origini, Cassandra Clare
[3] Friedrich Nietzsche
[4] Innamorato (greco antico)
 
 
Angolo dell’autrice
 
Salve a tutti e benvenuti a bordo di questa nuova avventura. Vi ringrazio per aver voluto dare un’occhiata alla storia e spero che il primo capitolo vi sia piaciuto.

Per chi mi conoscesse già per le mie due interattive, vorrei chiedere scusa per averle rimosse dal sito. È un periodo di grandi cambiamenti e sono due progetti ambiziosi. Per Kalokagathìa avevo già scelto i personaggi e stilato una trama sommaria degli avvenimenti quindi mi è dispiaciuto ancora di più doverla interrompere.  Le riprenderò non appena avrò un attimo di respiro, lo giuro sullo Stige.
 
Come da introduzione questa storia sarà una Percy/OC e una Annabeth/Luke con altre coppie in secondo piano (Jason/Nico, Caleo, Piper/Reyna, la Chrisse per citarne alcune), un immenso what if che correrà per entrambe le saghe sino ad approdare sui non molto lieti lidi delle Sfide di Apollo, - prayforApolloandMeg.
Non sono ammattita: so che la profezia dei sette conta appunto sette semidei, ma in questa storia i semidei a bordo della Argo II saranno nove.  Ne vedremo delle belle, ve lo assicuro.
 
Spero di aver detto tutto. Critiche, pareri, dubbi, domande e perplessità sono tutti benaccetti.
A presto,
La_Dama_Del_Lago. 
   
 
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