Notte 137, volume 14.
Lvellie (pezzo di…) lo ammette a chiare lettere.
“Abbiamo
un testimone” dice. E,
subito dopo, una tavola mostra un letto a baldacchino a cui confluiscono
centinaia di fili di dubbia origine, una mano raggrinzita con (presumibilmente)
il tubicino di una flebo attaccato e l’onomatopea di
un “bip” a fare compagnia a suddetta immagine visiva.
Bene. A questo punto, la
ricetta è semplice.
Collegate quelle misere tre
vignette al contesto (l’eredità del Quattordicesimo),
prendete in considerazione che del passato di Allen non sappiamo nulla prima
dell’incontro con Mana e mescolate il tutto con il mio cervello bacato che ama
un personaggio solo dal nome, senza che nemmeno sia comparso (vedi il
Quattordicesimo).
Infornate e aspettatevi di
tutto.
Oneshot, nonostante io sia
geneticamente impedita nello scriverle.
“What
If…”, perché quello che scriverò, nel manga non è
successo nemmeno con tanta fantasia.
Spoiler. Lievi, ma tutti riguardanti la figura
del Quattordicesimo. Almeno fino al discorso di Allen
e Cross, dopo il Darkness 4.
Questo è un racconto di
fantasia. I personaggi non mi appartengono ma sono © di Katsura
Hoshino, così come l’opera da cui è stata tratta questa oneshot.
La trama, come il complotto
orbitante intorno al personaggio di Allen Walker, è tutta una mia invenzione (sì, dovrei trovarmi un
passatempo).
Si
parlerà abbondantemente di religione/istituzioni religiose. Chiunque si senta offeso si fermi o, se
proprio legge, non sostenga che non ho avvertito.
Solo per precisazione: le parti
centrate e le parti con margine sinistro si svolgono in due situazioni
temporali diverse. Quelle scritte normale sono le
presenti, quelle centrate le passate.
Il p.o.v.
è della persona, per ora senza nome, che si vede sul letto.
A chi leggerà, buona lettura.
***
Oltre Ogni Dubbio
Avanzò con passo stanco
oltre la soglia di San Pietro, infilandosi di straforo da una porticina
laterale al grande portone.
Fradicio, spaventato,
tremante. Si era rifugiato a Roma dopo anni di timori e dubbi, di tensione e
agitazione, di terrore.
Vedeva nemici dappertutto.
Ogni persona, persino la gentile signora alla bancarella della frutta, per lui
era un akuma.
Venivano ad ucciderlo. Lo
braccavano, se lo sentiva, poteva sentirli sibilare nelle ombre anche se non li
vedeva.
Fra le crepe delle pareti,
sotto i letti, dietro gli angoli… ovunque, dovunque!
Non era al sicuro da
nessuna parte. In nessun luogo, se c’erano delle persone.
Tutti cedono
alle paure, tutti cedono alla disperazione. Tutti, perciò, potevano
essere akuma.
Lui sapeva,
sapeva troppo. Per questo lo volevano morto.
Aveva dato aiuto alle
persone sbagliate. Per la sua bontà pagava un prezzo tropo alto, adesso.
Loro… lo avevano
intrappolato. Sì.
Rinchiuso in un mondo fatto
di incubi e paranoie.
Un universo scuro e
silenzioso, in cui non riusciva a distinguere i contorni della realtà da quelli
della follia.
… Ne sarebbe uscito pazzo.
Osservando da sotto il cappuccio l’enorme chiesa, percorse la navata con passo
trascinato. Il suono di quei passi si espandeva nella chiesa vuota come se le
mura stesse lo incoraggiassero a proseguire, facendo vibrare quel suono di un
tono quasi sacrale.
Era ormai all’altare.
Davanti alla croce, si inginocchiò a mani giunte.
<< Perdonami, perdonami… perdonami perché ho peccato, perdonami perché sto
per peccare… >>
Qual’era il tradimento più grande?
Quale?
Quale fra tendere la mano
alle tenebre, tradire un’amicizia, sacrificare un bambino ad una giustizia
dubbia?
Quale, fra il condannare un
innocente ad una vita piena di bugie e condannarlo una seconda volta alla croce
dell’eresia?
Aveva peccato così tanto
senza accorgersene? Aveva tradito così tanto, senza rendersene nemmeno conto?
Era ancora un figlio di
Dio, lui?
Si alzò alla
bene e meglio, facendo forza sulle sue gambe vecchie e stanche perché lo
reggessero in piedi.
<< Perdonami
per la mia codardia, Signore… >> sussurrò a bassa voce,
continuando sempre a chiedere perdono.
A sperare, nel perdono.
Uscì da San Pietro,
dirigendosi a passo malfermo verso la guardia svizzera di guardia alla piazza.
Pioveva. Diluviava. Il suo
mantello non era abbastanza grosso, i suoi abiti non erano abbastanza caldi, la
sua salute non era abbastanza forte.
Eppure, quell’ultima cosa,
l’avrebbe fatta comunque.
Arrivato nelle vicinanze
del militare, gli si attaccò al braccio con forza, lasciandosi cadere sui suoi
arti ormai malati.
A rimanere in piedi, non ci
sarebbe più riuscito.
<< Ehi, si sente
bene? >> chiese la guardia svizzera, parlando in quell’italiano
particolare che lui non capiva.
<< Lvellie… >> riuscì solamente a sussurrare, mentre il
militare si chinava a sorreggerlo. << Lvellie…
>> ripeté di nuovo, ma debolmente.
Doveva parlare con Malcom C. Lvellie. Aveva già
sentito molte volte quel nome, da lui.
Era una famiglia antica, e lui gli
aveva rivelato che tutti i suoi esponenti ricoprivano posizioni privilegiate e
di grande importanza, in Vaticano.
Davano fastidio, a lui. Interferivano con la “guerra dietro
la guerra” diceva, mentre suonando il piano parlava a bassa voce di segreti che
non avrebbe dovuto rivelare.
Segreti
che lui aveva sentito.
<<
Mi dispiace, non conosco nessuno di nome Lvellie. Ora chiamo qualcuno, lei sta male
>> disse la guardia, soffiando dentro un
fischietto: il fischio si disperse in lontananza nella notte vaticana.
Anche senza capire la lingua, sapeva quasi per
certo che l’uomo non aveva intenzione di aiutarlo. Che
fingeva di non conoscere il tanto famigerato ultimo esponente dei Lvellie.
<< Forgive me, my Lord…
>> sussurrò nella sua lingua, rivelando l’unica cosa che gli avrebbe aperto
ogni porta, assicurato su di sé gli occhi di ogni
autorità, anche di Sua Santità in persona se necessario.
Non fu al ripetersi del
nome “Lvellie”, che la guardia sgranò gli occhi.
Ma fu all’udire un altro
nome, di gran lunga più sudicio ed innominabile, che
l’uomo si ammutolì facendo tacere anche il fischietto che imperterrito teneva
con due dita.
<< Deus sancti!
>> esclamò il militare in latino, facendosi il segno della croce.
In un rantolo disperato,
rotto dal freddo della pioggia che gli aveva penetrato
le ossa, la parola della proibizione fu pronunciata sul suolo sacro della Casa
di Dio per eccellenza.
Fourteenth.
Quattordicesimo.
***
Nella
stanza non c’erano molte cose.
Un
sofà sulla destra, semplice e scomodo, dai braccioli in
legno intarsiato, di colore bianco e lucente, e i cuscini di un normalissimo
azzurro.
Un tavolo, a destra del divano, anch’esso dello stesso legno
chiaro e lucido, con un’unica sedia ad accompagnarlo.
Un
pianoforte, infine. Non uno professionale, di quelli a coda
che molte volte aveva visto nei balletti dell’alta società londinese; sembrava
piuttosto uno di quelli verticali, sottili, usati soprattutto per
l’esercitazione. Ed era bianco. Come
quasi
tutto, in quella stanza, comprese le pareti.
Odiava
quella sua fissazione per il bianco. A certe persone, come lui ad esempio,
troppe cose chiare tutte insieme davano fastidio agli
occhi.
Con
un sospiro sconsolato si accomodò meglio sul sofà, cercando una posizione
piacente nonostante la durezza di quella sottospecie di cuscino su cui si era
sistemato. Se quel sofà era stata una scelta di Mana,
avrebbe dovuto lamentarsi sentitamente del suo pessimo fiuto per le cose belle.
Con
un altro sospiro, rivolto a nessuno in particolare, voltò il capo alla sua
destra, oltre il tavolo, in direzione dell’unica persona presente oltre a lui
nella stanza.
I capelli rossi e corti coperti quasi interamente da un
cappuccio nero, che ne lasciava intravedere solamente qualche ciuffo. Occhi azzurri dal disegno sottile,
acuti e attenti, incastonati in un viso mascolino che ospitava un piccolo
pizzetto sotto alle labbra, pallide e sottili a loro
volta.
Indossava
quella che aveva tutta l’aria di una divisa: completamente nera, i bordi in
tessuto bianco, gli alamari e i bottoni in argento purissimo. Si vedeva da come
risplendevano.
Al fianco, una pistola rinchiusa nella sua relativa
custodia.
<<
Marian >> chiamò, accavallando le gambe,
facendo però attenzione che la giacca non si spiegazzasse.
<< Perché siamo qui? Io non stavo male alla cena
della baronessa, anzi, c’erano molte persone interessanti e di buon gusto
>> disse, con il tono diplomatico e lieto che meglio gli usciva fra
tutti.
L’uomo,
spostando lo sguardo dall’enorme parete a specchio a cui era appoggiato, lo
guardò per un istante. << Pensi di essere
l’unico ad avere qualcosa di meglio da fare? >> chiese di rimando, pacato nonostante il tono potesse essere quasi stizzito, ad
un ascoltatore attento.
Sospirò
di nuovo, tornando a fissare il pianoforte candido. Feriva gli occhi, quello
stupido strumento.
Era sempre così, con Marian non si
poteva mai parlare.
Da quando era diventato esorcista, poi, la quantità e l’educazione dei suoi
dialoghi erano andate calando drasticamente. Sospettava che avesse
cominciato anche a fumare.
<< Come stai?
>> chiese dunque, più per infastidirlo che per vero interesse.
L’altro
girò il volto scocciato in direzione dell’unica porta presente e, senza nemmeno
guardarlo, esordì in un: << non sono affari tuoi >> particolarmente
seccato.
Visto?
Era diventato un caprone incivile.
Non
ebbe tempo di stuzzicarlo di nuovo: dalla stessa porta che l’esorcista aveva
preso a guardare, due persone entrarono a passo lento, con due sorrisi cordiali
bene in vista.
<<
Alla buon’ora >> commentò il rosso con un ghigno irritato: << Mana,
dì a quello scemo di tuo fratello che se sono in missione per l’Ordine c’è un
motivo, e non posso di certo disertare per ogni suo capriccio! >> esclamò
in direzione del primo dei due, che alzò le mani
davanti al volto in segno di scusa.
<<
Guarda che sono presente, potresti dirmelo direttamente >> commentò il
secondo, con un sorrisetto sarcastico stampato sul volto diretto e dedicato
tutto a Cross. La sua voce particolare aveva il potere di far vibrare le pareti
della stanza e, in un qualche modo che non sapeva spiegare, sembrava che anche
il pianoforte risuonasse magicamente alla sua presenza.
Lo
affascinava, quella cosa. E al contempo lo intimidiva.
<<
Mana, dì a tuo fratello che mi secca troppo parlargli direttamente e che, anzi,
se lo facessi dovrei anche arrestarlo o come minimo tentare di ucciderlo
>> rispose Marian, sbuffando alla successiva
risatina di Mana.
<<
Va bene, va bene… messaggio ricevuto,
signor Esorcista >> commentò solamente
l’altro, sedendosi al piano con fare fin troppo naturale, sfiorando il tasto
del Do con il polpastrello del medio destro.
Quasi
come se rispondesse a quel gesto, una nota di Do si levò impercettibilmente
nell’aria.
<<
Grazie per essere venuti, comunque >> prese poi
a dire Mana, scostandosi una ciocca di capelli lunghi e mossi dal viso,
facendola ricadere dietro la spalla. << Sarà stato
difficile raggiungere i gate senza farvi vedere >> aggiunse,
alternando lo sguardo fra lui e Cross.
<<
Quando anche le ombre potrebbero stare lì a guardarti?
>> chiese sarcastico lui, cambiando posizione sul divano e appoggiando
entrambe le braccia allo schienale. << Macché, figurati. Una passeggiata
>> ironizzò, scherzoso.
<<
Mi dispiace >> intervenne il suonatore,
prendendo lentamente a suonare una ninna nanna sulla tastiera candida del
pianoforte. << Ho dovuto. Non credo
che avremo molte occasioni per parlarci, d’ora in avanti >> aggiunse, suonando in modo talmente naturale e liscio, che
stare ad ascoltarlo era un piacere.
Un
piacere per chi non aveva idea di che potere avesse
quella musica, ovviamente.
<<
Allora muoviti a dire quello che devi dire >> intervenne
di nuovo Marian, staccandosi definitivamente dal muro
e osservando in direzione del pianoforte con le braccia incrociate al petto.
<< Sono un Esorcista, non posso starmene qui a chiacchierare con un Noah come se niente fosse >> disse poi, frugandosi
con impazienza nelle tasche per tirarne fuori un portasigarette in argento.
Lo
osservò. Altro che caprone, un aborigeno era più civilizzato di Marian.
<<
Se proprio devi fumare, almeno chiedi ai presenti se
potrebbe infastidire >> commentò in sua direzione, la solita voce da
intellettuale ben educato.
<<
Quando scenderai dal tuo alto status sociale, forse
ti chiederò di cambiare stanza quando fumo >> fu la risposta secca di
Cross, bofonchiata nel tentativo di accendersi la sigaretta.
Non
poté fare a meno di roteare gli occhi, ritornando con gli stessi alla figura di
Mana, che se la rideva silenziosamente.
La
melodia continuava, al contempo. Chissà, in quel momento,
cosa stava cambiando all’interno dell’Arca.
Portò
lo sguardo alla finestra, fissando il cielo “esterno”, che in realtà era il
cielo dell’Arca.
<<
Voi siete sicuri che non ci scopriranno, se rimaniamo qui? >> chiese
allora, diretto a tutti e a nessuno al contempo.
<<
Il Conte non usa più l’Arca, da quando si
è appostato ad Edo. E in ogni caso, questa stanza la conosciamo solo io, Mana e
i presenti >> rispose il pianista, continuando indisturbato nonostante al contempo parlasse con loro.
<<
Cazzo Noah, arriva al punto! >> esclamò di
nuovo Cross: << non mi interessa se questa è la
lavanderia o un ripostiglio per le scope. Non ho tempo, di trattenermi in
chiacchiere! >>
<<
Marian ha ragione, fratellino >> intervenne
Mana, girandosi verso il fratello: << è il momento di renderli partecipi
di quello che vuoi fare >> disse pacato, lo
sguardo improvvisamente serio.
La
melodia si fermò.
***
Il Vaticano navigava nello
sfarzo.
Oro, velluti pregiati,
sete, ceramiche, statue… sembrava di camminare a piedi nudi dentro un sogno.
La stanza in cui era stato portato era grande ed accogliente. Tappeti
dall’inconfondibile trama orientale riempivano la maggior parte del marmo
bianco del pavimento e la scrivania, sicuramente un modello artigianale a
giudicare dagli intagli, era ciò che di più barocco avesse
mai visto in vita sua.
Avevano ragione, gli altri.
La Chiesa appariva fuori nello stesso modo in cui era dentro.
Imponente.
Ed era proprio in quell’imponenza che
sperava di trovare riparo.
Non voleva morire come un akuma. Non voleva divenire il corpo deformato di una
macchina di morte.
Lui non era così stupido da
credere che un piano simile potesse funzionare. Lui non era così disperato da
stare al gioco fino alla fine, rischiando la propria vita per proteggere un
segreto in cui non credeva.
Nessuno di loro si era più
fatto vivo, nessuno.
Nessuno.
Cominciava a pensare che
fossero morti tutti… a cominciare da Mana.
Dopo qualche istante di
silenzio, la porta dello studio in cui era stato
sistemato si aprì di scatto, facendo entrare un ragazzino in divisa bordeaux.
<< Il Sovrintendente Lvellie! >> annunciò
formale, spostandosi di lato e mettendosi sull’attenti.
Pochi secondi, e la figura
di un uomo robusto ed inquietante gli comparve davanti
in tutta la sua forza.
<< La ringrazio Link,
può andare >> disse al ragazzo che, con un
inchino, uscì dalla stanza e si richiuse la porta alle spalle.
Si guardarono.
Per un lungo momento,
nascosto sotto la piega del cappuccio che ancora lo nascondeva, aveva ripensato
a tutto quanto.
Aveva avuto l’idea di
alzarsi, di dire che era un povero pazzo, di uscire e di continuare a vivere.
Ma poi aveva cambiato idea, di nuovo.
Di vivere scappando dalla
sua stessa ombra no, non ne aveva più la forza.
<< Buonasera >>
esordì Lvellie in un inglese quasi perfetto,
incamminandosi a passi pesanti verso il divanetto che stava esattamente di
fronte a quello su cui era stato adagiato dalle guardie svizzere.
L’uomo
alzò lo gli occhi in sua direzione, oltre il cappuccio: << mi scuserà se
non mi alzo, Sovrintendente >> esordì con voce provata e stanca, vecchia
e stonata come quella di un carillon impolverato: << purtroppo, le mie
vecchie gambe non hanno più intenzione di sorreggermi >> completò la
frase, educato nonostante il tono provato.
Sedendosi,
in un modo educato che lui ricordava come lieve sfumatura della sua giovinezza,
il Sovrintendente alzò la mano in sua direzione: << non si preoccupi, la
prego. Rimanga pure comodo >> esordì, sorridendo con falsa
gentilezza.
L’uomo annuì semplicemente,
rimanendo quasi rintanato sul morbido sofà in velluto bordeaux ed intarsi
d’oro.
Lvellie emanava un’aura di falsità quasi
superiore a tutte quelle che l’aristocrazia inglese gli aveva
regalato durante la sua florida adolescenza. Paragonato alle baronesse
impettite e ai signori infedeli dei salotti londinesi, il Sovrintendente dava la sensazione non solo di essere falso, ma anche affetto da
una menzogna malvagia.
Aggrottò le sopracciglia,
chiudendo gli occhi in un moto di colpevolezza.
A chi stava vendendo quel
povero ragazzo? Per quale principio tradiva quelle persone che per tanto tempo aveva chiamato “amici”?
Era un
codardo, lo sapeva.
Non sarebbe mai stato perdonato.
Ma il perdono non sarebbe
arrivato comunque, ormai.
E allora meglio la vita terrena, che la
dannazione eterna dopo anni di terrore.
<< Mi è stato riferito
che lei ha informazioni interessanti per la Santa Chiesa >> cominciò l’uomo, tendendosi verso il tavolinetto per
afferrare la teiera in porcellana finissima: << tè? >> chiese,
indicando con il viso il liquido bruno che scendeva lentamente nella tazzina.
Negò, sinceramente
disgustato da tutta quella facciata di buone maniere. Già si aspettava
una condanna per eresia, nel caso avesse infine deciso di non parlare. O, se proprio lo avesse fatto, probabilmente avrebbe vissuto
dentro una cella.
“Meglio una cella, che il
mondo esterno e le sue ombre” disse una voce dentro la sua testa, probabilmente
la sua coscienza… sempre se ne aveva ancora una. Sempre
se non era talmente sporca da essere completamente scomparsa, sotto quella
sporcizia.
Prendendo fiato, cominciò.
<< Non sforzi la sua
gentilezza, Sovrintendente; non è necessaria >> disse, nonostante
parlasse quasi ansimando dalla stanchezza: << le dirò quello che vuole
sapere, ma voglio qualcosa in cambio >> aggiunse, diretto.
Non era abituato a parlare
così sinceramente, soprattutto con persone che non conosceva. Essendo stato un
signorino dell’alta società, aveva imparato abilmente ad analizzare il suo interlocutore prima di far comparire qualsiasi
appoggio che potesse dare, a quello stesso interlocutore, il potere di metterlo
in difficoltà.
Adorava lottare
verbalmente. Era una sfida interessante per saggiare le abilità dell’altro.
Ma Lvellie era
diverso. Lui fingeva, sì, ma il suo sguardo metteva subito in chiaro che tipo
di persona fosse.
E lui, sinceramente, non era di certo lì
per parlare del più e del meno, oppure dell’andamento del mercato nella City
londinese.
Stava tradendo le sue
promesse, i suoi amici, il ragazzino che per primo gli aveva sorriso
sinceramente in tutta una vita… non c’era bisogno di giocare al gatto con il
topo, inseguendosi a vicenda con frecciatine e ironia.
Avrebbe parlato
sinceramente.
<< Mi faccia le
domande giuste, e io le risponderò come devo >>
aggiunse dunque, serio.
Lvellie ghignò, sentendo sulle labbra il
retrogusto della vittoria.
***
Quell’ultima
frase di Mana lasciò sbigottito sia lui che Cross.
<<
Di cosa sta parlando? >> chiese, spostando lo sguardo dai fratelli a Marian e viceversa. Qualunque cosa fosse,
il fatto che l’esorcista fissasse Mana in quel modo poco pacifico non era di
certo buon segno.
Cominciò
a chiedersi se loro sapevano qualcosa.
E,
di conseguenza, si chiese anche cosa centrasse lui in questo qualcosa.
Ovvero,
per quale cavolo di motivo fosse in quella stanza in quel preciso istante.
Il
pianista non si muoveva. Le mani avevano smesso di levitare velocemente sui
tasti e nessuna melodia riempiva ora il silenzio della stanza.
Cross
fissava Mana e Mana fissava Cross.
Nessuno
dei due parlava, nessuno dei due esprimeva verbalmente quello che in realtà
avveniva all’interno delle loro menti, fra i loro sguardi.
Marian aggrottò lo
sopracciglia, colpito da chissà quale particolare visto negli occhi del
fratello maggiore.
Scostò
gli occhi sulla schiena del pianista, immobile e voltato verso la tastiera. Le
sue mani la toccavano ancora, erano sempre in contatto
con quei tasti, con quelle note. L’unica cosa che tutti loro potevano vedere,
dalle loro reciproche posizioni, erano i suoi corti capelli neri e la pelle
leggermente scura tipica dei Noah.
Dopo
qualche secondo passato a guardare fisso un punto particolare
della schiena del suonatore, finalmente l’esorcista prese parola: <<
Quattordicesimo >> disse << ti sta così bene addosso, quel nome,
che adesso vorresti mordere la mano a chi te l’ha donato? >> chiese,
prettamente incomprensibile.
Probabilmente, incomprensibile solamente per lui. Gli altri, Mana come il fratello,
sembravano capire perfettamente quello a cui Marian
si stava riferendo.
<<
Scusatemi signori, non vi seguo più >> disse infatti
lui, liberando le gambe e alzandosi diritto con la schiena, poggiando i gomiti
sulle ginocchia e la testa sulle mani giunte.
Lo
ignorarono.
<<
E’ stata una mia scelta, Marian. Vi sto solo chiedendo se mi aiuterete >>
<<
Ah! Una pensata di Mana non può essere di certo >> rispose a tono il
rosso: << mi sorprende solo che ti stia a sentire.
Secondo te perché viene chiamato “Conte del
Millennio”, mh? Magari perché ad ucciderlo non ce l’hanno mai fatta? >> domandò
retoricamente, fissando ad alternanza sia Mana che il pianista.
<<
Oh, oh! Time out! >> esclamò dunque lui, alzandosi in piedi. Una certa
agitazione stava cominciando a salirgli allo stomaco, soprattutto se aveva
afferrato bene il significato che traspariva dalle parole di Marian. << Di cosa stiamo parlando ora, scusate? Di uccidere
il Conte del Millennio? >> chiese, lasciando andare al
diavolo per la prima volta da molto la sua proverbiale fermezza di spirito.
Erano
tutti impazziti?
Al
pronunciare quella frase, Mana abbassò lo sguardo.
Sì,
facevano sul serio.
<<
Dio, fate sul serio vuoi due? >> esclamò dunque,
a dir poco sconcertato dalla piega che aveva preso il discorso. Mai e poi mai
si era immaginato uno sviluppo simile, un motivo simile per quella chiamata
repentina nel cuore della sua cena di gala a casa della
baronessa.
<<
Non è un’esclamazione
appropriata, in questa sede >> commentò
il Quattordicesimo.
<<
Me ne frego >> rispose però Marian:
<< il signorino qui ha ragione. Voi siete completamente
pazzi >> aggiunse. Si voltò poi verso la finestra, fissando il
cielo bianco dell’Arca, riprendendo il discorso in un impeto di
agitazione: << c’è già chi deve uccidere il Conte del Millennio,
maledizione, e di sicuro non milita fra le sue fila! >>
<<
Non sappiamo se la profezia sia vera o no >> rispose il suonatore.
<<
Ci credo, non è ancora scaduto il millennio! >>
ribatté prontamente Cross.
<<
E pensi sul serio che il Conte starà ad
aspettare l’avverarsi di una profezia che lo vede perdente, veritiera o falsa
che sia? >> rispose a tono l’altro e sì, questa volta Marian dovette cedere la parola.
<<
Si sta già mobilitando >> esordì Mana,
riprendendo dopo un lungo silenzio ma senza avere ancora il coraggio di
rialzare lo sguardo. << Akuma. A migliaia.
Vuole conquistare non solo Edo, ma l’intero Giappone, e tu faresti
meglio ad informare i tuoi Generali o chi di dovere, Marian,
perché se non lo fermiamo farà strage dell’umanità in anticipo sui tempi
>> pronunciò, non si sa in che modo, con voce calma e posata.
<<
E sarebbe questo il vostro piano per prendere tempo?
Tradirlo e attaccarlo dall’interno? >> ribatté Marian,
agitato come non l’aveva mai visto. La sigaretta volteggiava insieme alle sue
mani, rilasciando un lucore in procinto di spegnersi e i residui di un fumo
acre e scuro.
Non
riuscì più a stare zitto.
<<
E cosa farai, quando morirai? Perché
tu morirai, lo sai no? >> chiese al pianista, riprendendo quel po’ di autocontrollo e serietà che suo padre gli aveva insegnato
a mantenere anche nei momenti bui.
E
questo non solo era un momento buio, sentiva quasi di stare per schiantarsi di
sua iniziativa contro un muro.
Approfittando
del silenzio generale, continuò: << non è detto che non sia lui ad
ucciderti. E se non ti uccide subito, sicuramente ti
darà la caccia. Anzi, ti sguinzaglierà dietro gli altri Noah,
che se non sbaglio tu chiami “fratelli” >> disse, senza ossequi per Mana,
che quella storia la mandava giù come se fosse veleno.
<<
Per una volta sono d’accordo con il damerino >> osservò
Cross, trovando nell’angolo del tavolo un buon punto per spegnerci la sigaretta
fumata solo a metà.
<<
Gentilissimo, grazie Marian >> rispose lui
ironico, evitando di guardarlo oltre.
La
sua attenzione di concentrò su Mana e sulle spalle del Quattordicesimo, ancora
muto dinnanzi alle loro questioni.
<<
Lo… sappiamo >> esordì poi Mana, parlando probabilmente
anche al posto del fratello. << Ma se nessuno
farà nulla ci rimetterà l’umanità. Noi dobbiamo… andare
avanti >> terminò, voltandosi verso il fratello.
Quello
gli tese una mano, invitandolo con quel gesto a sedersi accanto a lui sullo
sgabello davanti al piano. Mana accettò, abituato ormai a vedere quelle croci
nere sulla fronte dell’altro, mettendoglisi accanto,
in silenzio.
<<
Me ne occuperò
io. Voi non dovrete fare nulla, in tutto questo >> disse poi, trattenendo la
mano del fratello nella sua, l’altra ancora posata sulla tastiera.
La
domanda più logica fu proprio Cross, a sottoporla:
<<
E allora noi due che ci facciamo qui? >>
***
L’odore forte del tè caldo
gli fece chiudere gli occhi, e si trovò
a respirare quell’aroma come se fosse la prima volta.
Molte volte aveva sentito
un odore simile, di frutti di bosco e mirtilli in quel sottofondo amarognolo,
soprattutto quando godeva della presenza di amici e
belle signore nelle sue più giovanili ore del tè.
<< E’ sicuro di non
volerne una tazza? >> chiese Lvellie,
per nulla stanco nonostante fossero quasi le due del mattino: << è un Blackcurrant, sarebbe un peccato sprecarlo >>.
<< No, la ringrazio
Sovrintendente >> rispose lui: <<
preferisco l’Earl Grey, se
proprio devo bere del tè >> aggiunse, impossibilitato per sua stessa
natura a non stuzzicarlo almeno un po’.
Lvellie sorrise ironico,
portandosi la tazzina alle labbra ed accavallando le gambe con innata classe. << Tipico degli inglesi >>
commentò solamente, traendo dalla tazza una breve sorsata di liquido bruno.
Riappoggiando la porcellana
sul tavolinetto, la sua espressione cambiò radicalmente.
Un leone in procinto di
braccare la sua preda aveva, forse, uno sguardo meno accanito degli occhi con
cui ora Lvellie lo fissava. Non c’era nessun altro
nella stanza e, solo per un istante, quello sguardo gli mise inquietudine.
Quell’uomo doveva essere
affamato di popolarità, oppure alla ricerca dell’occasione della sua vita.
Se era
solamente un fanatico, lui avrebbe messo nei guai molta gente, quella notte.
<< Arriverò subito al
punto >> cominciò, dissimulando un
interrogatorio in piena regola per una chiacchierata pseudo-amichevole:
<< come fa a conoscere il nome “Quattordicesimo”? >> chiese,
assottigliando gli occhi.
Deglutì. La vecchiaia, tra
i pochi altri, aveva il pregio di portare con sé una pazienza quasi santa ed
una calma ancora più anomala. << Lo conoscevo >>
fu la semplice risposta, breve e concisa.
Lvellie ebbe un fremito, lui un brivido. Gli
venne istintivo guardare, fuori dalla finestra, il cielo
buio e senza stelle e sperare che orecchie indesiderate non ascoltassero quella
conversazione.
<< E
come faceva, di grazia? >> chiese dunque l’uomo, senza togliergli di
dosso quegli occhi indagatori.
Se non fosse stato attento, sicuramente gli
avrebbe sondato anche l’anima, con quello sguardo.
Deglutì inosservato,
ritrovando solamente per abilità la voce posata di poco prima: << conosce
l’espressione “Eredità del Quattordicesimo”, Sovrintendente? >>
chiese, decidendo di fingere un gioco con l’altro, giusto per non far
trasparire l’inquietudine che pian piano cominciava di nuovo a stringergli il
cuore.
Lvellie si lasciò sfuggire un
sorrisetto. << Sì, certamente. Chiunque indaghi sul
caso la conosce >> mentì.
E lui se ne
accorse. << “Chiunque” non comprende l’Ordine
Oscuro, suppongo >> lanciò l’esca, preparandosi a raccogliere i
frutti di quella sua indagine dell’ultimo minuto.
Già che lo tradiva, voleva
almeno assicurarsi che la persona che stava svendendo al miglior offerente
fosse, per lo meno, ancora viva.
Ma Lvellie
era più furbo di quel che appariva: << vedo che lei è
molto informato, sull’Ordine Oscuro >> disse, prendendo l’esca fra
le mani senza tuttavia cadere vittima dell’amo. << Come mai, mi chiedo
>> continuò, in attesa.
Avrebbe chiesto perdono
dopo, quando sarebbe stato al sicuro in una qualche stanza del vaticano. Ma adesso no, adesso toccava a lui parlare, a lui mettere
nei guai qualcuno…
<< Mi dica se
l’Ordine ne è al corrente, e io le dirò il perché di
una tale domanda >> rilanciò, consapevole che Lvellie
avrebbe accettato di sicuro.
Stava conducendo il gioco
per finta, e il Sovrintendente glielo lasciava fare. Ormai era suo.
Dalle mura del Vaticano non
sarebbe più uscito.
<< No, nessuno di
loro lo sa >>
rispose l’uomo, senza riuscire a trattenere un sorrisetto.
Ormai aveva la lama puntata
alla gola, e il manico del coltello era tutto per Lvellie.
<< Cross… Marian >> confessò. Ecco, il gioco vero era appena
iniziato. << Era esorcista, l’ultima volta che l’ho visto. Se non è morto, probabilmente è ancora uno dei portatori
dell’eredità del Quattordicesimo >> rivelò, abbassando il capo in un moto
di vergogna.
***
Cadde
un silenzio sgomento, pesante come un macigno, pressante quanto il fumo.
Sia
lui che Marian non riuscivano
a dire nulla, nemmeno a pensare probabilmente, troppo indecisi se rimanere
increduli o ribellarsi, in un qualche modo.
Il
Quattordicesimo non diceva più nulla. Con la mano del fratello ancora
saldamente nella sua, si limitava a guardarli con un leggero sorriso ad
increspargli le labbra, sussurrando una qualche canzoncina, come se il fatto
non fosse nemmeno suo.
Al
suo fianco, Mana taceva. Probabilmente non aveva il coraggio di aggiungere
nulla, dato che il suonatore aveva parlato per entrambi loro; la decisione
doveva essere stata presa parecchio tempo prima, i fratelli come unici
artefici.
Riprendendosi
dallo stupore, fu Cross il primo a parlare.
<<
La tua… Volontà? >> chiese, quasi come facesse fatica persino a
respirare, o come se lo stupore gli chiudesse i polmoni e lo stomaco.
<<
Esatto >> disse il pianista,
senza scostare lo sguardo da Cross. << La facoltà di guidare quest’Arca, se così suona meglio >>
ironizzò appena.
<<
Certo, come se la tua morte suonasse bene, invece! >> sbottò lui,
alzandosi dal divano e mandando cortesemente a farsi un giro la sua signorile
compostezza.
Cristo,
in ventisei anni non aveva mai sentito una cavolata così gigantesca.
A
cosa stavano giocando, ai paladini del mondo? C’era una bella da salvare per
voler sacrificare la sua vita in quel modo? Oppure era affetto da una sorta di
mania ossessivo-compulsiva per i suicidi in grande stile?!
Roba
da matti!
Il
Quattordicesimo lo guardò, questa volta seriamente.
<< Devo farlo
>> disse, guardandolo dritto negli occhi.
<<
Per chi, di grazia? >> rispose lui, sinceramente deciso a sentire almeno
una buona ragione uscire da quelle labbra.
<<
Per il mondo >> fu la risposta.
<<
Il mondo non ti ha chiesto di salvarlo! Nessuno te lo chiede! >> ribatté,
insistendo.
Probabilmente
il suonatore stava per ribattere, ma Mana lo interruppe. Alzò una mano fra
loro, il respiro spezzato, e quando alzò lo sguardo, negli occhi si poteva
leggere una sorta di profonda malinconia.
La
stretta fra le loro mani divenne più salda. Era come se il suonatore cercasse
di infondere forza al fratello, di passare a lui la stessa decisione che lui
tanto mostrava, e che quasi sicuramente provava.
Non
seppe mai dire se funzionò, o se Mana lo rimpianse.
Ma
parlò comunque: << la decisione è già stata
presa, e voi non centrate nulla con questa parte del piano. Non concernendovi,
discutete inutilmente >> disse, trovando una forza che non sembrava
nemmeno possedesse.
Lui
non seppe più che rispondere. Si voltò dunque verso l’esorcista, che guardava
la parete di fronte a sé come se dovesse farla esplodere solo con la forza del
pensiero.
<<
Marian, dì qualcosa, per favore. Questa situazione
rasenta la follia >>.
Il rosso sorrise
di scherno, piegando le labbra in una smorfia strana.
<<
Oh no, signorino dell’alta società… >> cominciò poi, voltandosi in sua
direzione. Il volto era attraversato da un lampo di rabbia, forse frustrazione,
ma non riusciva bene a capire cosa fosse o cosa la causasse. << Tu non
hai la minima idea di cosa sia la follia. Questo no… tutto questo non è follia.
E’ solamente un’idea balorda. La follia vera arriva dopo
>> disse, criptico.
Lo
guardò senza capire. << Dopo? >> chiese, sconcertato: << dopo
quando, Marian?
C’è un “dopo” a seguire di questo… questo… >>
<<
Suicidio >> completò il
Quattordicesimo per lui. << Sì, mio
caro amico. Ci sarà un “dopo” in cui voi sarete i protagonisti. I miei
Ereditieri >> completò, lasciando la mano di Mana per alzarsi a sua
volta.
Non
poté capire cosa passasse per la mente del pianista, né se tutto quello che
aveva fin lì programmato di fare fosse la cosa giusta o sbagliata. Tentare non
nuoce, dice la gente, ma quando il tentativo si preannuncia
come un fallimento, provare può uccidere.
Col
senno di poi, non era sicuro di aver mai visto sul volto del suonatore alcuna
traccia di umana emozione.
Tanto
meno la paura.
***
Per tutto il racconto, Lvellie non scostò mai lo sguardo da lui. Non una volta.
Sondava i suoi occhi per
sapere se mentiva, se inventava. Voleva scoprire ogni cosa, ogni segreto;
bramava la verità ma il suo stesso lavoro lo spingeva a non credere mai a
nulla.
Si lasciava sfuggire il vero dalle dita a causa di quelle abitudinarie formalità
psicologiche.
Ma non questa volta.
Forse con fatica, forse
lottando contro se stesso… si vedeva dallo sguardo, da quel leggerissimo ghigno
quasi invisibile, che le informazioni che lui aveva appena fornito su quella
riunione di tanti anni prima erano penetrate, a fondo, superando le barriere
della logica e stuzzicando la curiosità del Sovrintendente.
Oppure, l’unica cosa che in
realtà smossero fu solamente la sua superbia.
Doveva fruttare molto,
essere meritevole di un’udienza dal Santo Padre per fornire informazioni
preziose sul nemico.
Nascose una smorfia sotto
le pieghe del cappuccio.
Gli uomini erano talmente
concentrati su loro stessi, sul loro egoismo, che non riuscivano
a vedere la guerra nascosta dietro quella guerra, il nucleo di tutto.
Il fatto
che non fosse un dio buono che combatteva contro un dio malvagio. No. Non era bianco
contro nero, luce contro ombra. No.
Non capivano…
Due fazioni che si proclamano
servitici dello stesso, medesimo Dio, non lottano in una guerra fra déi.
Quella era una guerra solo
degli uomini.
Solamente ora capiva le
parole del Quattordicesimo, così come quelle di Marian.
Troppo stolti sono gli esseri umani, per vedere l’essenza delle cose. Così come
non è l’azione in sé a portare alla follia… ma le
conseguenze di quella stessa azione.
Si è eroi in un minuto, ma
si diventa folli col tempo.
Si diventa anche codardi,
col tempo.
<< Così il
Quattordicesimo ha lasciato a voi tre la sua eredità? >> disse Lvellie, interrompendo il filo dei suoi pensieri.
Sospirando piano, annuì con
il capo. Non sarebbe bastato un cenno con la testa a soddisfare la curiosità,
la fame di informazioni, che dilagava nelle vene del
Sovrintendente. Così, cominciò a parlare.
Finì di vendersi.
<< Per poter muovere
l’Arca è necessaria un’abilità speciale. Viene
chiamata “Qualifica di Suonatore” e, fino ad allora, ne erano in possesso
solamente il Quattordicesimo e il Conte del Millennio >> disse.
Gli occhi di Lvellie bruciavano d’impazienza ed il tè, ormai freddo,
ancora giaceva all’interno della tazzina di porcellana finissima.
Sospirò di muovo. Coraggio, coraggio. Ancora poco e potrai finire i
tuoi giorni crogiolandoti nella tua lussuosa codardia.
<< E’
una canzone, in poche parole >> continuò. <<
Una melodia che, suonata dal pianoforte all’interno dell’Arca, permette alla
stessa di muoversi secondo il volere di chi suona >>.
Lvellie assottigliò gli occhi, pensando.
<< Anche Cross Marian
lo sa? >> chiese l’ufficiale, composto nonostante dentro di lui bruciasse
dalla voglia di sapere ancora di più.
<< Sì >>
rispose lui.
<< Mh… >> mugugnò Lvellie,
sorridendo sornione. << Prego, prosegua pure >> disse
poi.
Per un attimo, si trattenne
in un silenzio riservato. Alzando poi lo sguardo si soffermò bene sul viso del
Sovrintendente, serio. Voleva mettere bene le cose in chiaro.
<< Parlerò,
Sovrintendente, ma ad una condizione >> impose,
sollevando il dito ossuto della mano destra. << Voglio protezione. Io… voglio morire al sicuro, in un letto, al riparo dagli akuma… e dal Conte del Millennio >> disse,
senza potersi evitare alcune pause nella voce tremula.
Era questa la sua follia,
la sua conseguenza. Era il suo terrore.
L’uomo rimase silenzioso
per qualche istante, annuendo poi con un cenno alla sua richiesta. <<
D’accordo, avrà quello che vuole. Darò disposizioni perché lei
sia ospitato in Vaticano. Ora prosegua >> ordinò.
Se possibile, si fece ancora più piccolo
sul divanetto.
<< Una volta… che il
Quattordicesimo morì… non so cosa promise a Mana Walker,
o cosa sia venuto a sapere Marian. Il mio compito era
diverso dai loro. Loro ricevettero qualcosa, qualcosa di concreto, della sua eredità. La canzone utile a guidare
l’Arca fu spezzata, divisa fra Mana e Marian: Cross
ebbe lo spartito, Walker il segreto del linguaggio
con cui era scritto >> ansimò, probabilmente per il peso dei segreti che
stava (infine) rivelando.
O forse… per lo sforzo che l’attesa
(infinita…) di quel momento aveva comportato.
<< Il linguaggio?
>> chiese sorpreso Lvellie, aggrottando appena
le sopracciglia.
<< Sì. Lo spartito
non era scritto con le note della scala musicale abituale >> disse,
chiudendo gli occhi per ricordare meglio: << era un altro alfabeto, forse
inventato, ma composto da simboli che non avevano
nulla a che fare con nessun linguaggio che mi fosse capitato di vedere, anche
solo per sbaglio >> rivelò, prendendo un respiro profondo a fine frase.
Lvellie sembrò assimilare il concetto,
riflettendoci sopra al contempo. Come minimo ci avrebbe impiegato mesi, o anni,
per cercare di collegare le informazioni appena ricevute con quelle in possesso
della Chiesa.
<< Ha detto che il
suo compito era diverso >> esordì poi, con
l’aria di uno che ha trovato una falla che deve assolutamente sistemare.
<< Come, di preciso? >> domandò.
<< Io… dovevo
prendermi cura di un bambino, per un certo periodo di tempo. Mi fu chiesto di
abbandonare il mio status, il nome della mia famiglia, e aprire un
orfanotrofio. Mi fu detto che sarebbe arrivato un bambino particolare, e che
dovevo prendermene cura finchè non fosse venuto
qualcuno a prenderlo. Solo questo >> disse, abbassando gli occhi.
Non era del tutto vero.
Lui quel bambino avrebbe
dovuto nasconderlo.
Non
permettergli di uscire, di giocare fuori con gli altri ragazzini, nemmeno di mangiare con loro. Doveva essere un fantasma; esserci ma
non esserci, trasformarsi in un qualcosa di cui fosse percepibile la presenza
ma che non fosse visibile.
Strizzò gli occhi, fermando
le lacrime appena prima che sfuggissero al suo controllo.
Quel moccioso era… la sua
maledizione.
<< Come si chiamava?
>> chiese il Sovrintendente, ormai troppo orgoglioso di se stesso per
prestare piena attenzione alla sue reazioni, o al modo
in cui la sua voce tremasse.
<< Non aveva cognome.
Come la maggior parte dei bambini abbandonati dalla nascita,
d’altronde. Seppi solo il suo nome, solo quello… dunque non so, che fine
abbia fatto oggi >> lo avvertì, per poi
riprendere in un ultimo sforzo: << Allen. Si chiamava Allen >>.
***
Batté
agitato il dito sulla scrivania di frassino, scheggiata negli angoli e
macchiata di inchiostro in alcuni punti.
Nell’angolo destro, le due candele che usava come unica
fonte di luce si stavano consumando rapidamente. La luce era fievole, lo sforzo per la
vista notevole, eppure le sue iridi continuavano a scorrere sulle righe di inchiostro appuntate sul foglio che aveva davanti.
<<
Provviste. Frutta e verdura, quelle marciscono subito. Carne. Almeno una volta
a settimana. Sono, vediamo… circa dieci sterline…
>> borbottò a bassa voce, facendo rapidamente scorrere alcune biglie di
un pallottoliere vecchio e consunto davanti a lui.
<<
Il pesce no, non possiamo permettercelo questa settimana. Magari la prossima.
Poi stoffa, cotone poco lavorato, magari. Sì, decisamente…
>> borbottò di nuovo, spostando altre biglie.
Osservò
lo strumento, annotando sul foglio qualche cifra e facendo un paio di calcoli
totali.
Alzò
un sopracciglio. Ripeté i calcoli di nuovo.
<<
Maledizione… >> sussurrò poi, stanco, appallottolando il foglio e lanciandolo
da qualche parte nella stanza spoglia.
Troppi,
troppi acquisti per troppi, troppo pochi fondi.
Non
aveva rimasto niente. Niente.
Le
sete, gli abiti, i gioielli. Il nome della casata. La dignità, l’onore. Lo
status.
Aveva
venduto tutto, per seguire le parole di un pazzo suicida.
Aveva
dato fiducia… a chi? Magari ad un giullare che giocava
con la sorte, vedendo illusioni agli stupidi.
E
lui era uno stupido colossale.
Prima
si crogiolava nella ricchezza e ora, anche se riconosciuto come buono e
misericordioso da chi lo additava per strada, doveva pensare a sfamare
diciannove bocche (più la sua) con una miseria a disposizione per comprar di
che mangiare.
Sbuffò,
esausto, portandosi le mani fra i capelli.
Per
cosa stava facendo tutto quello? In quale modo si era fatto convincere?
Non
se lo ricordava più.
Un
rumore sordo alla porta lo fece sobbalzare, facendogli saltare un battito del
cuore.
<<
Sì? >> chiese, cercando di nascondere
l’improvvisa agitazione che lo spavento aveva provocato in lui.
Dall’altra
parte del legno scuro e un po’ rovinato, una voce anziana ma gentile arrivò
alle sue orecchie: << Direttore? Posso entrare? >> chiese, educata.
Sospirò,
riconoscendo il timbro. << Entri pure, Sorella Rosmarie
>> disse poi, decisamente più calmo.
Era
un idiota, ad avere sempre tutto quel terrore addosso. Un akuma
non bussa, no?
Al
piccolo “click” della serratura seguì il cigolio dei cardini, mostrando così il
volto della donna.
Non
era giovane, così come l’altra Sorella che la Chiesa aveva mandato come aiuto all’orfanotrofio.
Il viso squadrato dai tratti severi non rivelava nulla del suo reale animo
buono e misericordioso, quasi rilucente per quanto fosse
candido. Indossava il vestito clericale, lungo e nero, con la cuffia nera e
bianca che, per regola, copriva loro capo e collo tranne il viso. Un rosario
bianco pendeva sul petto.
Tolse
lo sguardo dalla croce, facendo finta di tornare ai conti.
<<
Mi dispiace disturbarla a quest’ora >> disse
lei, fermandosi a pochi passi dalla porta, ancora aperta sul corridoio buio del
piano terra.
<<
Non si preoccupi. Ormai ho finito >> ribatté
lui, impilando i fogli e accantonandoli con un gesto floscio della mano.
<< C’è qualche problema? >> chiese poi, alzando gli occhi stanchi
su quelli della suora.
Quella
sorrise, gentilmente. << Dovrei chiederlo io a lei,
Direttore >> disse.
A
volte, si diceva, avrebbe tanto voluto sapere la fonte di quella gentilezza
quale fosse.
Un
sorriso di una qualsiasi delle due Sorelle che si prendevano cura di questi
bambini, giorno dopo giorno, era capace di infondere una tranquillità insperata
nel suo cuore.
Era
quella la Fede?
Lui
sospirò, chiudendo gli occhi e massaggiandoseli. << Il solito, Sorella.
Il solito… >> rispose, consapevole che la donna avrebbe capito di quale
“solito” stava parlando.
Era
sempre questione di soldi, no?
Lei
non rispose, così lui continuò: << a volte penso che avrei fatto meglio a
chiuderlo, questo orfanotrofio. Magari mandare i
bambini a Whitechapel, o a
East End >> ipotizzò, come faceva tutte le volte che perdeva fiducia
nelle sue (già scarse) capacità.
Sorella
Rosemarie non disse nulla, limitandosi a sorridere.
Dopo aver fatto passare qualche istante di silenzio, si avvicinò di un passo,
senza quasi il minimo rumore.
<<
Direttore, non importa se per una settimana non possiamo mangiare carne, o
pesce, o rammendare i vestiti. Le condizioni di questo posto non sono
fatiscenti, e lei si prende cura di noi come può. Anche
i bambini lo sanno, e per questo le siamo tutti riconoscenti. Lei da un luogo
da poter chiamare “casa” a piccole anime che altrimenti sarebbero per strada a
morire di fame, o chissà dove altro in questa città sempre grigia… >>
disse.
Parole
di conforto e speranza che lui non meritava.
Tenendo
la mano a coprire il volto, un ghigno strano gli deformò la bocca.
Già,
“riconoscenza”.
Peccato
che aveva la riconoscenza delle persone sbagliate, al momento.
Peccato
che fosse un imbroglione, e che aiutasse quei bambini solo come scusa per
nasconderne un’altra, di piccola anima senza dimora.
Lui
non era un benefattore, no…
Lui
era un bugiardo.
<<
Sì… grazie Sorella, per le sue parole >> disse però, volendo almeno
riconoscere lo sforzo della donna per non fargli perdere quella poca speranza a
cui si teneva saldamente aggrappato.
Quella
sorrise di nuovo, dolce. << Con permesso >> si congedò.
Ma,
sulla porta, si fermò di nuovo.
<< Oh, Direttore… >> chiamò, attirando di nuovo
l’attenzione dell’uomo: << il piccolino non dorme, questa notte. Potrebbe fargli visita lei? >>
chiese cortesemente.
Lui
annuì, il gesto lento del capo, come se fosse faticosamente ponderato.
Doveva
solo fingere un altro po’…
***
Secondo piano, terzo
corridoio, seconda porta a destra.
Fra arazzi e mezzobusti in marmo bianco, là,
nelle profondità del Vaticano, la sua nuova prigione.
Poteva quasi sorridere,
alla vista di quelle sete tanto rimpiante. Avrebbe quasi pianto, osservando il
fuoco scoppiettare in un camino intagliato in marmo rosa, con una riproduzione
fedelissima della Primavera di Botticelli a fare da degno spettatore a quella
stanza, semplicemente reale.
Ricchezza. Tutto ciò che aveva lasciato e tutto ciò che voleva ritrovare.
Quale
morte migliore, per un codardo?
<<
Questa sarà la sua stanza >> esordì Lvellie,
che così gentilmente (o così obbligatamente) lo aveva accompagnato fino alla
sua nuova cella di velluto pregiato.
Lui non rispose, rimirando
l’interno di quella camera. Il letto a baldacchino aveva l’aria del morbido
abbraccio della lussuria, accompagnato da un guanciale di avarizia.
Sopra di esso si stendeva il velo della codardia,
della paura, della vergogna.
Sì… in quella stanza
sarebbe stato benissimo.
Voltandosi lentamente,
trattenendosi a stento sulle gambe rovinate dall’età e dallo stile di vita decisamente misero degli ultimi anni, rivolse un lieve
sorriso al Sovrintendente, anche se somigliante più ad un ghigno stanco.
<< Grazie… >>
disse semplicemente, dirigendosi verso il letto.
Si sarebbe steso lì,
addormentandosi sicuro per la prima volta in tanti anni, sognando Mana e Marian magari, o forse anche il Quattordicesimo e la sua maledetta
ninna nanna.
Aveva tutto il tempo, ora,
per pentirsi. Poteva vergognarsi davvero, ora che non doveva più fuggire dalle
sue ombre.
Ora che,
scappando per l’ultima volta, aveva finalmente smesso di fuggire.
Lvellie rimase ritto sulla porta, quasi sull’attenti nonostante non lo fosse sul serio. E per chi mai, poi?
<< Spero si renda
conto… >> aggiunse poi << …che dovrò
prendere provvedimenti, alla luce della sua confessione >> aggiunse.
L’uomo si fermò, girando il
capo quel tanto che bastava a guardarlo di sbieco. << Chi sono io per
fermarla? >> disse poi, tornando a nascondere lo sguardo dalla vista
dell’uomo.
L’altro non rispose.
<< Link >> esordì poi, rivolgendosi al ragazzino biondo che per
tutto il tragitto li aveva accompagnati: << dirigiti dal Camerlengo e chiedi
un colloquio con Sua Santità il prima possibile. Dovremo parlare dell’Ordine
Oscuro. Riferisci che ho in mente di assegnare al Generale Marian
una missione… speciale >> disse, dicendo a voce
alta tali informazioni solamente per far sì che anche lui, ormai giunto al
letto, le sentisse.
Alla parola “generale”,
sobbalzò appena.
Era vivo, allora.
Aggrottò lo
sopracciglia, chiudendo gli occhi.
Non era il caso di provare
rimorso, o pentimento. Aveva preso quella decisione in considerazione del fatto
che, oltre al Quattordicesimo, almeno Mana e Cross fossero
vivi.
Non gli importava più di
ferirli, o di infangarsi l’onore.
Lui non aveva più amici, e
di sicuro non aveva nemmeno più un onore a cui fare riferimento o che doveva
proteggere.
Marian sarebbe stato nei guai. E così anche Mana, se mai lo avessero trovato. Anche quel bambino… anche lui…
Si portò una mano magra e
raggrinzita al volto, ascoltando di quelle voci solamente la breve risposta del
ragazzo e i suoi veloci passi riecheggiare, allontanandosi.
<< Per il momento non
darò disposizione per cercare il quarto membro, di cui lei non sembra ricordare
il nome… >> aggiunse Lvellie,
parlandogli sempre dalla porta.
Lo ricordava, il nome. Mana
Walker. Ma perché avrebbe
dovuto raccontare così tanto?
Era pur sempre un uomo e,
anche se seppellito nel fango, aveva rimasto almeno
una briciola d’onore insieme ad un frammento infinitesimale di fedeltà.
Aveva
svenduto Cross, per Mana avrebbero
faticato da soli.
Anche perché Mana…
Mana aveva con sé…
<< Il bambino… lo
lascerà stare? >> chiese, la voce ridotta ad un
sussurro stanco e distrutto.
Un attimo di silenzio, il
cuore che riempiva da solo l’inquietante assenza di una risposta.
<< Per ora >>
sentenziò poi il Sovrintendente, facendolo sospirare. << Ora mi scusi, ma
il lavoro mi attende. E lei
si ricordi… >>
<< Lo so >> lo interruppe: << la mia vita appartiene al Vaticano, ora
>> concluse.
Una vita senza valore
poteva essere svenduta anche al Diavolo; la Chiesa era il minore dei mali.
Il sorriso sul volto di Lvellie poteva essere definito in un solo modo:
profondamente soddisfatto da se stesso.
<< Passi una buona
notte >> si congedò poi, chiudendosi la porta alle spalle.
<< Oh, di sicuro…
>> sussurrò lui a sé stesso: << oltre ogni dubbio, Sovrintendente Lvellie >>.
Quella notte, seppur carica
di incubi, sarebbe stata sicuramente la migliore della
sua vita.
E, con essa,
tutte quelle a venire.
Si stese
sul letto, chiuse gli occhi, sospirò… e sorrise.
Dolcemente, quasi
malinconicamente.
Sorrise al suo ultimo ricordo, prima dell’oblio…
***
Salendo
le scale, in un concerto di scricchiolii sinistri, arrivò pacatamente
all’ultima porta, quella del pianerottolo in alto, che dava sulla piccola
mansarda.
Bussò.
Attese.
Nessuna
risposta, solo un singulto spaventato.
Tenendo
la candela in mano, alta vicino al volto, sorrise appena.
<<
Allen? >> chiamò, cercando nella voce il tono più dolce che avesse potuto
possedere.
Attese,
ascoltando.
Un
altro singulto, un sospiro, poi qualche piccolo passo e la maniglia che si
abbassava, facendo si che la porta si aprisse.
I
suoi occhi grandi e limpidi, incastonati in un viso dai lineamenti dolcemente
infantili, si illuminarono di una luce particolare
quando lo vide. Fra i ciuffi di capelli castani che scendevano disordinati sulla la fronte, l’espressione crucciata di poco prima si
sciolse in una palesemente rilassata.
Anche
lui non poté far altro che dimenticare i problemi, in quell’istante.
Il bambino sorrise, spostandosi. << Direttore, io… io… >> balbettò
il piccolo, lanciandosi subito in scuse infantili e piene di giustificazioni
che, alle orecchie di un adulto qualsiasi, sarebbero parse insensate.
Ma
non a lui.
Non a lui.
<<
Come mai non riesci a dormire, Allen? >> chiese
l’uomo, sedendosi sulla brandina cigolante del bambino ed invitandolo a tornare
al suo posto, fra le coperte. Il pigiama che ricopriva il piccolo corpo magro era più grande di qualche taglia… probabilmente era
uno di quelli donati dai volontari.
Il
piccolo, richiudendo la porta, tornò fra le troppo
leggere coperte. Qualche spiffero freddo ululava attraverso la finestra,
sembrando in tutto e per tutto quello di un fantasma.
La
fiammella della candela, ancora fra le sue mani, ondeggiò appena.
Dopo
un attimo di confusione, o di soggezione, il bambino trovò il coraggio di dare
una risposta.
<<
Ho paura. Arriva l’uomo nero, se c’è il buio >> disse,
chiudendo gli occhi come se dovesse comparire da un momento all’altro.
L’uomo sorrise malinconico, cercando però di sembrare solo
piacevolmente divertito.
<<
Allen, tranquillo. Non esiste l’uomo nero >> gli disse.
Mentì.
Avrebbe
avuto tempo, quel piccolino, per stringere la mano all’Uomo Nero.
Anzi,
avrebbe scoperto che non ne esiste solo uno e che a
lui, a lui, non serve nascondersi
sotto al letto, o nell’armadio, o nel buio.
Compariva
dalle ombre, e nelle ombre scompariva.
Ma
erano altre le ombre che lo avrebbero attratto. Ombre che un bambino, pervaso
da quell’innocenza infantile, non poteva ancora covare.
Sono
le ombre del cuore, che attirano l’uomo nero.
Il
piccolo riaprì gli occhi, guardandolo come se tutte le sue speranze uscissero
dalle labbra dell’uomo che aveva di fronte. << Davvero? >> chiese.
<< Davvero davvero? >> rincarò la dose.
Sospirò.
E,
per la prima volta da tanto tempo, sorrise davvero.
Non
sapeva quanto mancava, prima che Allen se ne andasse.
Prima che il patto fosse rispettato.
Ma
il sorriso di quel ambino innocente, che del mondo e
di strane promesse non sapeva nulla, era l’unica cosa capace di fargli cambiare
idea e pensare che sì, forse stava facendo la cosa giusta.
Forse
valeva davvero la pena proteggerlo, quel piccolo, ingenuo sorriso.
Marchiato
a fuoco nella sua mente, quel piccolino sarebbe stato il suo più bel ricordo.
Appoggiando
la candela sul comodino, portò poi la mano libera alla testa del bambino.
<<
Oltre ogni dubbio >>.
Scusami, Allen.
Ho mentito di nuovo.
~
Owari