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Autore: SaraGranger    06/10/2016    1 recensioni
Era passato molto tempo dall’ultima volta in cui aveva avuto la fortuna di posare la vista su quel rosso così particolare, eppure negli anni non aveva dimenticato una sola sfumatura.
L’ultima frase che aveva avuto il coraggio di rivolgergli era stato un “a dopo”, che non si era mai avverato. C’erano notti in cui ancora ricordava quel foglio di carta lasciato all’ingresso della loro casa.
Genere: Angst, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Nitori Aiichirou, Rin Matsuoka, Shigino Kisumi, Sosuke Yamazaki
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Era passato molto tempo dall’ultima volta in cui aveva avuto la fortuna di posare la vista su quel rosso così particolare, eppure negli anni non aveva dimenticato una sola sfumatura.

L’ultima frase che aveva avuto il coraggio di rivolgergli era stato un “a dopo”, che non si era mai avverato. C’erano notti in cui ancora ricordava quel foglio di carta lasciato all’ingresso della loro casa.

Intrattabile, così avevano definito il suo caso dopo uno sfiancante anno di fisioterapia.

Sul foglio aveva attaccato un post-it:  “Non posso farti vivere così. Dimenticami.” 

Poche parole che racchiudevano il proprio tormento andato avanti per settimane, mesi, anni.

Non aveva retto, quell’ultimo esito negativo era stato il colpo finale verso un fondo dal quale nemmeno Rin era riuscito a tirarlo fuori. In poco aveva raccattato i propri vestiti e l’ultima debolezza a cui si era lasciato andare era stata portarsi via la foto che ritraeva la loro ultima vacanza in montagna. Quando ancora riusciva a tenera a bada il dolore prendendo qualche antidolorifico, quando ancora riusciva a stringere Rin tra le braccia mentre lo faceva suo, quando ancora si sentiva abbastanza umano da meritarsi una vita felice, quando ancora sognava di poter donare a lui una vita dignitosa.

Nel momento in cui era arrivato davanti casa di Kisumi, ormai trasferitosi in un’altra città, con gli abiti bagnati dalla pioggia sotto la quale, incurante, aveva continuato a camminare per ore per raggiungere la sua meta, era sfinito e accecato dal dolore, fisico e non solo.

Le giornate avevano poi preso una sfumatura inconcreta e monotona. Negli antidolorifici aveva trovato il suo rifugio, come se potessero far passare ogni male, pure dentro la sua testa. Lo lasciavano stordito, intontito, ma presto anche quelli non erano più bastati.

Kisumi si era rivelato una figura stranamente utile. Dopo il panico iniziale dovuto al suo improvviso arrivo, aveva riempito il vuoto che avvertiva dentro sé con le sue chiacchiere, continue, futili, anestetizzanti, ed era il giusto contrappeso per il silenzio dietro il quale si era barricato. Stranamente non aveva fatto domande, mettendo a tacere la sua vena da pettegola a favore di un tacito accordo di finta indifferenza ed inconsapevolezza. Spesso, però, se l’era ritrovato fuori dalla porta del bagno dopo il suo ennesimo sfogo di rabbia e lacrime, a guardarlo come il misero insetto che si sentiva, o almeno era questo che lui leggeva nei suoi occhi.

“Sousuke…fatti aiutare” era il suo mantra ogni dannata volta. Ma si può salvare solo chi vuole essere salvato e lui non voleva. Non aveva scopo e in quel mare offuscato dai medicinali gli sembrava così inutile combattere, così difficile.

Un giorno c’era stata una lite particolarmente forte. La sera prima si era addormentato a braccia conserte sul tavolo della cucina, pezzi di una cena ancora intatta tutta intorno a lui. Era una posizione scomoda persino per un fisico in buone condizioni, per la sua spalla era stata una tortura troppo grande. Ringhiando, si era alzato sbattendo il pugno del braccio buono contro il tavolo, attirando l’attenzione del coinquilino. Aveva iniziato ad urlare, Kisumi, venendogli contro infervorato come chi sente di avere solo l’impotenza con sé, disperato e angosciato. L’aveva preso per il collo della maglia sbattendolo al muro, pronto ad una violenza che non gli apparteneva. Kisumi l’aveva guardato con le lacrime agli occhi terrorizzato da quella situazione in continuo declino. Aveva visto in quegli occhi viola spaventati una sfumatura di rosso tale da toglierli il fiato. Era fuggito, ancora una volta.

Quando era rientrato a sera tarda, l’altro era raggomitolato sul divano, nell’evidente tentativo di aspettarlo sveglio, il telefono stretto in una mano con il numero della polizia già digitato.

Si era sentito immondo proprio come quel giorno. Nessuno meritava tutto quello, nessuno avrebbe dovuto subire un tale trattamento, tali pene. In cuor suo si disse che aveva fatto bene ad abbandonare Rin, ad evitargli tutto quel male ed averlo lasciato libero di vivere piuttosto che continuare a sopravvivere dietro ad uno…storpio. Nella confusione di continui attacchi alla propria persona su troppi fronti, non si rendeva conto che era proprio la mancanza di Rin ad averlo portato a quel punto, che si stava solo giustificando.

Aveva scosso Kisumi da un sonno agitato ed il sollievo che gli aveva letto negli occhi gli aveva buttato addosso uno spesso strato di sensi di colpa.
“Ti prego Sou, basta.” E lui aveva annuito.
 

Toccare il fondo, forse, era stato l’unico modo per prendere un respiro, sentire l’aria mancare e pensare di non poter continuare così.

Negli anni le cose erano andate migliorando, a poco a poco, ma non di molto. Avendo abbandonato la fisioterapia, l’ultimo anno di maltrattamenti alla sua spalla l’avevano reso un caso complesso ma, scoprì con sorpresa, non impossibile. Kisumi gli era stato vicino in continuazione, nei giorni pre, durante e post quella che fu un’operazione sperimentale alla quale lui si sottopose senza remore non avendo nulla da perdere. Furono giornate di puro delirio, di febbre alta, di urla, di allucinazioni dove Rin gli urlava contro di odiarlo per averlo lasciato.

Alla fine passarono anche quelle. Allo scoccare del quarto anno lui aveva perso l’abitudine di usare il braccio malato per la maggior parte delle azioni ma riusciva a resistere senza l’uso di antidolorifici e si era ripreso parte della sua vita.

Tirando le somme, anche Kisumi alla fine volle il suo compenso infilandosi nel suo letto sempre più spesso, chiedendo indietro un po’ di quell’affetto che aveva continuato a dargli senza lamentarsi e che lui non si sentiva di negargli nonostante entrambi sapessero che quello era tutto fuorché amore.

Era, appunto, passato molto tempo dall’ultima volta in cui aveva avuto la fortuna di posare la vista su quel rosso così particolare, eppure negli anni non aveva dimenticato una sola sfumatura. Ed adesso che ne poteva ancora assaporare la sostanza si rendeva conto che tutte le sue allucinazioni e ricordi erano state sempre precise e dettagliate su quel punto.

Dopo sei anni, improvvisamente, lui era lì, meraviglioso come sempre stato e qualcosa dentro di lui aveva ricominciato a vivere. Era insieme ad un ragazzo più alto di lui, dai capelli argentati, e teneva per mano una bambina con delle codine rosse, di quel tipico rosso color Matsuoka, che felice mangiava un gelato quasi del tutto scolato sulla camicetta rosa. L’idea che potesse essere sua figlia aveva preso subito spazio nella propria mente, togliendogli il fiato e facendo definitivamente morire quella parte di cuore che ancora si ostentava a vivere di ricordi. In un attimo era tornato indietro di molti anni, ai tempi in cui entrambi fantasticavano su una vita insieme, una casa, magari un cane come quello che aveva avuto in Australia Rin.

“Dei figli…” aveva aggiunto lui stesso, e la vena romantica del rosso si era accesa di una luce di sorpresa e felicità che non riusciva ancora a scordare. Si era sentito in imbarazzo e allo stesso tempo euforico sentendolo parlare di come sperava che non prendessero i propri denti aguzzi ma i suoi occhi verde acqua.

Ma qualcosa stonava in quella visione adesso. Quella bambina non aveva gli occhi color verde acqua, lui era lo spettatore di una vita a cui aveva deciso di rinunciare, di una vita che sarebbe sempre rimasta un sogno irrealizzabile. In quella visione Sou non esisteva.

Eppure, nella realtà concreta e reale fatta di sole cocente ad aggredire la pelle e non di sogni onirici racchiusi in un cassetto, lui esisteva negli occhi che Rin gli stava rivolgendo insieme all’espressione incredula della bocca leggermente spalancata.

“Sousuke…” non gliel’aveva sentito pronunciare ma aveva letto il proprio nome nel labiale dell’altro e si rese conto che voleva sentire ancora la sua voce, la bramava quasi. Tutto il proprio corpo si tese nell’unico istintivo desiderio di correre quei pochi metri e abbracciarlo di nuovo. Ma non accade, rimase inchiodato a guardare la bambina tirargli la manica e fare una domanda.

“Chi è quello papà?”

“Nessuno, tesoro

Immaginava fosse questo il dialogo, aveva distorto così tanto la realtà d’avere la concreta certezza dell’odio dell’altro, nonostante non avesse mai avuto prove a dimostrazione di ciò. Il suo corpo aveva compiuto l’azione inversa, la forza motrice che l’aveva spinto a tendersi verso il rosso in quell’istante lo muoveva in senso opposto, repellendo la sua figura e portandolo a voltarsi scappando via. Ancora. Nel panico.

“SOUSUKE!” questa volta non l’aveva immaginato, né letto, aveva sentito chiaro e tondo il grido disperato di una voce così familiare da lacerargli il petto ed offuscargli la vista in gocce di rimpianto e paura. Perché in fondo quello da cui era sempre scappato era la paura della verità, della realtà, di affrontarle.

Non aveva tenuto conto, però, degli anni di abusi a cui aveva sottoposto il proprio fisico ormai totalmente disabituato ad un’attività fisica oltre la media o sotto. Si era stancato in fretta e con la stessa velocità l’altro l’aveva raggiunto, completamente in forze e con appena un po’ di fiatone. L’aveva bloccato afferrandogli la maglia e tirandolo indietro facendogli arrestare quella fuga da ladro vergognoso.

Era nei dettagli che lui si era sempre perso, nel modo in cui i denti di Rin lasciavano segni sul suo corpo, la curva del collo scoperta dal codino durante le corse dall’allenamento ed anche in quel momento, la forza di quella mano dalla carnagione sempre più chiara della sua, lo sguardo allucinato di chi sembrava non credere a cosa aveva sotto gli occhi. Non aveva il coraggio di parlare, di guardarlo, avrebbe voluto solo sparire e non fargli vedere quanto misero fosse diventato, incapace persino di reggere il suo passo in una semplice corsa. Si era sentito indietro, molto più indietro di quanto mai fosse accaduto al suo fianco.

“Sousuke…” sembrava fosse l’unica cosa che il rosso riuscisse a dire, quasi una preghiera e lui cedette sotto quell’invocazione alzando lo sguardo.

“Rin io…” faccio schifo, mi spiace, non guardarmi, picchiami se serve, dimmi che quella non è tua figlia, ti amo ancora…

C’erano così tante cose che avrebbe voluto dirgli, che aveva immaginato di dirgli in tutti questi anni, ma in quell’attimo non avrebbe saputo da dove partire.

“Ti va di prenderci un caffè e parlare un po’?” alla fine era stato Rin a sbloccare la situazione parlandogli con lo stesso tono che Sou aveva finito per associare alla pietà nell’ultimo periodo prima della sua fuga. Lo stesso tono che lo rendeva furioso e frustrato e che adesso sembrava balsamo sulle proprie fantasie di odio e urla. Annuisce e basta.

Era surreale come si rendesse conto che alcune cose non fossero affatto cambiate negli anni. Rin aveva sempre la stessa altezza, lo stesso profumo, forse i capelli appena più lunghi. Il passo era sicuro e sinuoso, incurante di qualunque sguardo anzi cosciente di ricercarne.

Quando se l’era ritrovato seduto davanti, composto e a disagio, aveva capito di non poter ancora temporeggiare a lungo, che almeno questo glielo doveva, delle spiegazioni, un perché, un addio.

“Rin… mi dispiace…” era suonato così banale, così insensato e stupido ma aveva visto l’altro sorridere appena. Quando aveva sollevato lo sguardo gli occhi erano lucidi e lui non aveva potuto far altro che abbozzare una smorfia nostalgica perché quello era il Rin che conosceva. Aveva scosso la testa senza farlo parlare oltre, forse tenendosi dentro quei pensieri per così tanto tempo da non riuscire a trattenersi oltre.

“Sousuke lo so. Capisco perché l’hai fatto e…” gli si era spezzata la voce e lui era semplicemente rimasto immobile, assuefatto da ogni singola parola o gesto “pensavamo fossi scappato, fossi… morto. Non rispondevi alle chiamate, ti abbiamo cercato per settimane e nessuno sapeva nulla di te. Semplicemente il giorno prima c’eri e quello dopo no. Mi era rimasto solo quel dannato post- it…”
Si era sentito improvvisamente piccolo su quella sedia. Aveva sempre pensato che Rin l’avesse odiato dal momento stesso in cui avesse capito la sua vigliaccheria. Non aveva mai ipotizzato uno scenario in cui lui continuasse imperterrito a cercarlo a distanza di tempo. Era così preso dall’auto commiserarsi ed odiarsi da non rendersi conto che era l’unico a non volersi. Non aveva nemmeno mai considerato il silenzio di Kisumi, che in tutti quegli anni aveva taciuto ogni cosa su di lui, forse nella speranza di averlo vicino solo per sé o forse nell’istintivo tentativo di accontentare ogni sua mossa nella speranza di farlo stare meglio. Si rese conto di essersi giustificato in tutti quegli anni con la scusa di farlo per il bene di Rin e di aver solamente fatto tutto il contrario per egoismo.

“Ma sei vivo, stai bene, sei qui di fronte a me e non ti permetterò di scappare ancora…” aveva negli occhi la stessa espressione di quando parlava del suo sogno di diventare un nuotatore olimpico, una determinazione sconfinante nell’utopia, a tratti. Aveva allungato una mano poggiandola sulla propria. Lui aveva solo pensato a quanto fosse assurdo che un gesto così banale potesse smuoverlo così profondamente, dentro.

“Rin io… non posso… tu hai una famiglia, una figlia… io non… c’entro…” e un po’ si era fatto schifo per quel suo lato fragile che stava scoprendo di avere solo quando si parlava di Rin. Pensava di essere lui quello forte della coppia, il combattente che aveva sempre ritrovato il rosso dietro ogni viaggio e gara. Non aveva nemmeno avuto la forza di non far sorgere quella curiosità sottintesa: “Raccontami la tua vita.”

“Figlia?!” aveva spalancato gli occhi di sincera incredulità e… aveva riso. In mezzo a tutto quel macello che aveva creato, a tutta la sofferenza che non sarebbe mai stata cancellata, a quel bar di una cittadina che non aveva nulla a che fare con loro, Rin rise e il mondo sembrò improvvisamente un posto migliore. Ogni cosa aveva un suo perché e tutto poteva essere risolto e chiarito purché lui non smettesse di ridere. Questa era una delle poche certezze che aveva sempre avuto nella vita.
“Quella è mia nipote, la figlia di Gou e Seijuro! Si sono sposati due anni fa!” aveva esclamato con ancora le labbra stirate in un sorriso, asciugandosi lacrime di tristezza e riso ormai mischiate insieme.

Se avesse dovuto descrivere cosa accadde quel giorno, dentro quel bar, avrebbe detto solo che… fu magia. Di quella antica e potente, oscura e meravigliosa allo stesso tempo. Solo dopo li raggiunsero il ragazzo con i capelli argentati e la bambina e solo dopo ancora Sou capì che quel ragazzo non era altro che Nitori (e gli prese un colpo a constatarlo), che da devoto kohai era rimasto al fianco del proprio senpai supportandolo in silenzio come sempre. Si rese conto che si era perso un sacco di cose, un sacco di avvenimenti, un sacco di emozioni. Si rese conto, in quel momento, a mente lucida, che era stato un folle, un codardo. Che nell’amore dentro il quale aveva riposto tutta la sua vita non aveva creduto abbastanza e che da quel peccato non avrebbe mai trovato perdono.
 

Nervoso, si tira in basso la manica della camicia bianca, giocando con i gemelli al polso.
“Lasciala in pace!” gli dice Kisumi, ridendo al suo fianco mentre allunga lo sguardo dall’altro lato dell’altare, verso i testimoni di Rin, facendo l’occhiolino ad un imbarazzatissimo Nitori, cresciuto in altezza ma non in autostima. Sono tutti già seduti al loro posto e vedendo Rin avanzare verso di lui, chiuso dentro lo smoking bianco che ha assolutamente voluto per il loro giorno, si rende conto che ha rischiato di perdere la sua vita, che per quanto il tutore continui a bruciare inconsciamente sotto la giacca nera del suo abito da cerimonia, questa volta, non sarebbe scappato.

“Lo voglio.”

“Lo voglio.”
  
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